“Siamo un partito della classe operaia. È il futuro”
John Hawley, senatore repubblicano del Missouri
Negli Stati Uniti non solo è incerto l’esito finale del voto, ma non si può nemmeno definire con certezza quale sarà lo scenario che prenderà forma dopo l’Election Day del 3 novembre.
Nel mentre scriviamo Biden è risultato vincitore nel Michigan (più del 2%) e in Wisconsin (0,6% di voti in più), due dei tre Stati del Mid-west che nel 2016 risultarono fondamentali per la vittoria di Trump – che ottenne lì solo 80 mila voti in più della Clinton, in quello che un tempo era un bastione democratico.
Biden ha conquistato ora 264 “grandi elettori”, mentre Trump solo 214, e con una soglia di 270 da raggiungere per divenire presidente, Biden si trova la strada abbastanza spianata per la vittoria, essendo in vantaggio di “misura” anche in Nevada, dove la conta dei voti non è terminata ma il voto per corrispondenza lo favorisce.
L’altro “swing state” fondamentale, la Pennsylvania attribuisce 20 rappresentanti tra camera e senato ancora da decidere.
In questo quadro, in cui l’incertezza è la cifra assoluta, si riflette una crisi sistemica amplificata dalla disastrosa gestione della pandemia e dei suoi effetti, e si fanno strada con forza alcune certezze.
Prima certezza.
La democrazia nord-americana non è più credibile neanche agli occhi dei suoi apologeti più sfegatati, entrati in un evidente corto-circuito logico-politico.
Le storture di un assetto istituzionale inadeguato, il ginepraio di regole dei singoli Stati per ciò che riguarda il voto e non ultimo la grave situazione pandemica, hanno reso evidente a tutti quel pasticciaccio brutto della democrazia nord-americana: il giorno delle elezioni, e neanche quello successivo, coincide con la conoscenza del risultato.
Se si dovesse scegliere l’efficienza come termine di valutazione – l’output democracy di cui parlava Draghi in una conferenza proprio negli Stati Uniti, qualche hanno fa – il voto sarebbe decisamente basso.
Solo lo smaccato servilismo degli apparati mediatici nostrani, e la cortina fumogena con cui avvolgono gli eventi che si stanno svolgendo di fronte ai nostri occhi, possono nascondere il fatto che il “Re è Nudo”. Viene in mente quella leggenda metropolitana in cui un venditore abusivo rifilava un video-registratore ad un acquirente un poco sprovveduto, in un Autogrill, per poi tornare a casa, aprire la scatola e trovarci un mattone al posto dell’apparecchio in grado di leggere le oggi ormai vetuste VHS.
Ci hanno solàto, semplice.
Se l’attuale Presidente, che ha ricevuto poco meno della metà dei consensi dei votanti statunitensi, parla di “furto” elettorale e si arroga la vittoria senza alcuna prova fattuale, è un bel problema, perché mette in discussione la stessa cornice democratica che lo aveva legittimato quattro anni prima – mette in dubbio sé stesso, in fin dei conti – vista più come un ostacolo che come una risorsa.
Ma più imbarazzante di Trump è stato Biden, che di fronte ad un tentativo di golpe istituzionale bello e buono – quasi una chiamata alle armi per i suoi sostenitori – invita i suoi a pazientare in attesa della vittoria.
Seconda certezza.
I sondaggi d’opinione nelle democrazie occidentali sono inconsistenti, ormai incapaci di indagare sia cosa ribolle negli stomaci delle persone sia quel che passa per le loro teste.
Se si guarda al differenziale tra le inchieste di opinione anche più prudenti e la realtà del voto, ci si trova di fronte ad un abisso tra realtà e previsione, ed il margine d’errore si dilata talmente da negare ai sondaggi una qualche validità.
Verrebbe da dire che la verità è l’esatto contrario di ciò che prevedono i sondaggi.
Trump era spacciato? Ma che!
Trump magari non vincerà, ma tiene. Il suo elettorato si è mobilitato come se fosse “in missione per conto di dio”, profondamente riconoscente a lui di come porta avanti i propri interessi.
Il Grand Old Party sarà comunque strettamente nelle sue mani. D’altronde non ha avuto rivali nelle primarie, a differenza di quelle democratiche dove l’unica preoccupazione dell’establishment dem era fare fuori Bernie Sanders, e blindare ulteriormente un già rigido bipolarismo che si pensava “perfetto” per le élite al potere.
Con 6 membri su nove nella Corte Suprema, ed una possibile maggioranza al Senato – o comunque una percentuale elevata di senatori repubblicani – i repubblicani escono tutt’altro che sconfitti da questi 4 anni.
Terza certezza.
Gli Stati Uniti sono un Paese polarizzato e diviso e chiunque li governerà dovrà tenerne conto. Il tasso di delegittimazione del competitor politico è tale da assumere il livello di inimicizia che si riverbera su tutto il corpo sociale.
Si sparano, infatti.
Ma non si tratta solo di mancanza di una solida base di consenso in grado di unire un blocco sociale più ampio dei propri competitori, ma della difficoltà di trovare un punto di equilibrio nella riconfigurazione delle gerarchie tra le élite.
Il winner takes it all che governa i collegi elettorali non può essere trasferito sul piano della governance.
La classe dirigente sta uscendo con le osse rotte dalla prova pandemica, con un corpo sociale tremendamente indebolito. Non proprio il massimo per una potenza che ha lanciato una nuova guerra fredda contro la Cina, e non solo.
Quarta certezza.
Un impero che ha costruito le sue fortune narrative sulle più diverse “minacce esterne” in grado di minacciare l’american way of life, scopre che ha in sé stesso il proprio peggior nemico; anzi, ha nel suo codice genetico i principi della propria auto-distruzione.
Viene in mente la conclusione della poesia di Kostantinos Kavafis: “i barbari”.
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più.Fonte
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
Nessun commento:
Posta un commento