Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

12/04/2025

Marxismo occidentale e imperialismo/1

Pubblichiamo la prima parte di un dialogo tra John Bellamy Foster e Gabriel Rockhill che esaminano la storia e l'influsso del "marxismo occidentale", definito non da caratteristiche geografiche, ma dal rifiuto del marxismo sviluppato in Unione Sovietica, nel Sud globale, e persino del marxismo classico. Questa corrente di pensiero marxista, nata nel nucleo imperialista, invece di fronteggiare i problemi urgenti che la società di oggi deve affrontare, rappresenta una concessione al predominio dell’ideologia statunitense.

*****

Marxismo occidentale e imperialismo: un dialogo


Gabriel Rockhill:
Vorrei iniziare questa discussione affrontando, prima di tutto, un equivoco sul marxismo occidentale che è di interesse reciproco. Marxismo occidentale non equivale a marxismo in Occidente. È invece una versione particolare del marxismo che, per ragioni molto materiali, si è sviluppata nel cuore dell'impero dove c'è una significativa pressione ideologica per conformarsi ai suoi dettami e che condiziona le vite di coloro che vi lavorano. Tutto questo vale, in pratica, per gli stati capitalisti di tutto il mondo, ma non determina in modo rigoroso la ricerca e l'organizzazione marxista in queste aree. La prova più semplice di tutto ciò è il fatto che noi non ci identifichiamo come marxisti occidentali, anche se siamo marxisti che lavorano in Occidente, proprio come per il filosofo italiano Domenico Losurdo, il cui Western Marxism è stato recentemente pubblicato da Monthly Review Press.[*] Cosa pensi della relazione tra "marxismo occidentale" e "marxismo in Occidente"?

John Bellamy Foster: Non mi piace il termine "marxismo occidentale", in parte perché è stato adottato come forma di auto-identificazione da pensatori che rifiutano non solo il marxismo sovietico, ma anche gran parte del marxismo classico di Karl Marx e di Friedrich Engels, così come il marxismo del Sud globale. Contemporaneamente, gran parte del marxismo in Occidente, e le analisi più materialiste, politico-economiche e storiche, sono tendenzialmente esclusi da questo tipo di marxismo occidentale auto-identificato, che tuttavia si è posto come arbitro del pensiero marxista e ha dominato la marxologia. Di solito, nell'affrontare la questione del marxismo occidentale dal punto di vista teorico, io sottolineo che ciò con cui abbiamo a che fare è una specifica tradizione filosofica. Questa è iniziata con Maurice Merleau-Ponty (e non con György Lukács, come comunemente si suppone), ed è stata caratterizzata dall'abbandono del concetto di dialettica della natura associato a Engels (ma anche a Marx). Ciò significa che la nozione di marxismo occidentale si allontana sistematicamente da un materialismo ontologico in termini marxisti, e gravita verso l'idealismo, che ben si adatta alla rimozione della dialettica della natura.

Inoltre, anche se non fa parte dell'auto-definizione del marxismo occidentale, quest'ultimo, come è stato giustamente sottolineato da Losurdo, ha rimosso la critica dell'imperialismo e la questione della lotta rivoluzionaria nel terzo mondo o nel Sud globale. A questo proposito, gli auto-definiti marxisti occidentali tendono verso una prospettiva eurocentrica, spesso negando la rilevanza dell'imperialismo e quindi, possiamo parlare di un marxismo occidentale eurocentrico.

Nell'affrontare questi temi, sottolineo questi due aspetti, ovvero: (1) una tradizione filosofica marxista occidentale che ha rifiutato la dialettica della natura e il materialismo ontologico, separandosi così sia dal marxismo classico di Marx che di Engels; e (2) un marxismo occidentale eurocentrico, che ha rifiutato la nozione di fase imperialista del capitalismo (e del capitalismo monopolistico) ed ha sminuito l’importanza delle lotte rivoluzionarie del terzo mondo e delle nuove idee rivoluzionarie da esse generate. In questa ristretta incarnazione marxista occidentale, il marxismo è così diventato un mero campo accademico, interessato alla teoria della reificazione, o alle strutture senza soggetto: la negazione stessa di una filosofia della prassi.

GR: In effetti, queste sono le caratteristiche significative del cosiddetto marxismo occidentale, e concordo, è un'espressione che può facilmente prestarsi a fraintendimenti. Ecco perché, a mio parere, è importante un approccio dialettico: ci consente di stare attenti alle discrepanze tra i concetti semplificatori e le complessità della realtà materiale, e di affinare il più possibile le nostre categorie concettuali e le nostre analisi. Oltre alle due caratteristiche che hai evidenziato, aggiungerei anche – se non altro per il nucleo teorico del marxismo occidentale, come nel lavoro dei principali esponenti della Scuola di Francoforte e di gran parte del marxismo teorico francese e britannico del dopoguerra – la tendenza a ritirarsi dall'economia politica in favore dell'analisi culturale, nonché il rifiuto critico di molti (se non di tutti) progetti di costruzione dello stato socialista nel mondo reale (che, ovviamente, coincide col tuo secondo punto).

Nel tentativo di identificare in modo preciso i contorni del marxismo occidentale e le direttrici che lo animano, ritengo sia importante collocare la peculiare forma di produzione intellettuale, all'interno dei rapporti complessivi di produzione teorica, che a loro volta sono annidati all'interno dei rapporti sociali di produzione. In altre parole, un'analisi marxista del marxismo occidentale richiede, a un certo livello, il coinvolgimento dell'economia politica della produzione, della circolazione e del consumo di conoscenza. Questo ci permette di identificare le forze socioeconomiche all'opera dietro questo particolare orientamento ideologico, pur riconoscendo, ovviamente, la "semi-autonomia" dell'ideologia.

Basandosi sul lavoro di Marx ed Engels, Vladimir Il'ič Lenin ha diagnosticato in modo incisivo come l'esistenza materiale di un'“aristocrazia operaia” nel nucleo imperialista, cioè un settore privilegiato della classe operaia globale, sia stata la forza trainante della tendenza della sinistra occidentale ad allinearsi più agli interessi della propria borghesia che a quelli del proletariato della periferia coloniale e semicoloniale. Mi sembra che se vogliamo andare alla radice delle questioni, dobbiamo applicare questa stessa diagnosi alla comprensione delle revisioni fondamentali del marxismo occidentale e della sua tendenza a ignorare, minimizzare o persino denigrare e rifiutare il marxismo rivoluzionario del Sud globale, che non si è limitato a interpretare il mondo, ma lo ha modificato radicalmente, spezzando le catene dell'imperialismo. I marxisti occidentali non sono forse, in generale, membri di quella che potremmo chiamare l'aristocrazia intellettuale del lavoro? Nel senso che beneficiano di alcune delle migliori condizioni materiali di produzione teorica al mondo, come è facile constatare confrontandole, ad esempio, con il marxismo sviluppato da Mao Zedong nelle campagne cinesi, da Ho Chi Minh nel Vietnam assediato, da Ernesto “Che” Guevara nella Sierra Maestra o da altri esempi simili? Non beneficiano forse, come l'aristocrazia operaia più in generale, delle briciole che cadono dalla tavola del banchetto imperialista della classe dominante? E questa realtà materiale non condiziona – senza determinarle rigorosamente – le loro prospettive?

JBF: L’osservazione sull'abbandono dell'economia politica che ha caratterizzato gran parte del marxismo occidentale è importante. Ho iniziato gli studi universitari alla York University di Toronto a metà degli anni Settanta. Avevo una precedente formazione in economia, che comprendeva sia l'economia neoclassica che l'economia politica marxista. Erano gli anni in cui l’Union for Radical Political Economics statunitense aveva guidato una cambiamento radicale negli studi economici. Ma mi interessavano anche la teoria critica e gli studi hegeliani. In ambito filosofico avevo studiato, oltre a Marx, la Fenomenologia dello spirito di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, la maggior parte delle opere di Herbert Marcuse, Marx’s Theory of Alienation di István Mészáros e molti altri testi di filosofia critica. Mi ero quindi iscritto all’università con l'aspettativa di proseguire gli studi sia in economia politica marxiana che in teoria critica. Avevo visitato la York University nel 1975, ma quando ci sono arrivato un anno dopo per iniziare i miei studi universitari, sono rimasto sorpreso nello scoprire che il programma del Social Political Thought [Pensiero socio-politico] universitario (e, in una certa misura, la sinistra presente nel dipartimento di Scienze politiche) aveva subìto una scissione che divideva quelli che venivano chiamati "economisti politici" dai "teorici critici". È in questo periodo che alcuni dei principali scritti della Scuola di Francoforte, di pensatori come Theodor Adorno e Max Horkheimer, vengono per la prima volta resi disponibili in traduzione inglese. Ad esempio, Il concetto di natura in Marx, di Alfred Schmidt è stato tradotto in inglese nel 1971, Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno nel 1972 e Dialettica negativa, sempre di Adorno nel 1973. Questo non solo ha portato ad un potenziamento delle discussioni all'interno del marxismo, ma ha determinato anche, per molti versi, una rottura con il marxismo classico, che era spesso criticato in queste opere. Così, la prima cosa che ho sentito quando sono entrato in un corso di teoria critica è stato che la dialettica della natura era inammissibile. Le prime discussioni "antropologiche" di Marx sulle interazioni tra l’umanità e la natura venivano liquidate sommariamente. L'unico corso su Hegel che si teneva era quello sulle letture hegeliane di Alexandre Kojève, che era di gran moda sia nella sinistra francese, sia, paradossalmente, in alcuni pensatori conservatori. In quegli anni, iniziavo a concentrarmi di più sull'economia politica marxista. István Mészáros, che era stato determinante per la mia decisione di andare alla York University, se n'era andato lo stesso anno in cui sono arrivato io, disgustato da entrambe le parti della scissione.

Durante il primo anno alla York University, lavoravo con un professore liberale che era un'autorità in materia di Cina. Mi disse di essere disorientato sullo sviluppo del marxismo e mi mise in mano Considerations on Western Marxism di Perry Anderson chiedendomi di leggerlo e di spiegargli di cosa trattava. Ho letto il libro di Anderson e sono rimasto piuttosto scioccato poiché usava varie tecniche per sottolineare uno spostamento della teoria marxista dall'economia politica e dalla storia verso la filosofia e la cultura, cosa che in realtà non era vera ma si adattava ai pensatori che aveva scelto di evidenziare. Così, secondo Anderson, il "marxismo occidentale", escludeva principalmente gli economisti politici e gli storici e veniva separato dal "marxismo classico", che comprendeva i lavori più significativi degli stessi Marx ed Engels. Naturalmente Anderson, nella sua disamina sul "marxismo occidentale", non poteva negare del tutto l'esistenza di economisti politici e storici marxisti, ma la loro esclusione era piuttosto evidente.

Tralasciando i modi specifici in cui i pensatori politici ed economici sono stati ignorati, basta guardare l'indice del libro per riconoscere la natura delle delimitazioni di Anderson. I filosofi e i teorici della cultura sono i principali protagonisti della sua individuazione dei marxisti occidentali. Così, Louis Althusser è citato in trentaquattro pagine, Lukács in trentuno, Jean-Paul Sartre in ventotto, Marcuse in venticinque, Adorno in ventiquattro, Galvano Della Volpe in diciannove, Lucio Colletti in diciotto, Horkheimer in dodici, Henri Lefebvre in dodici, Walter Benjamin in undici, Lucien Goldmann in otto, Merleau-Ponty in tre, Bertolt Brecht in due e Fredric Jameson in una. Tuttavia, se ci rivolgiamo agli economisti politici marxisti e agli storici (compresi gli storici della cultura), più o meno dello stesso periodo, otteniamo un quadro abbastanza diverso: Isaac Deutscher è citato in quattro pagine, Paul M. Sweezy in quattro, Ernest Mandel in due, Paul A. Baran in una, Michał Kalecki in una, Nicos Poulantzas in una, Piero Sraffa in una e Raymond Williams in una.

Gli scienziati marxisti non vengono menzionati affatto, come se non esistessero. Benché alcuni marxisti siano stati al centro delle discussioni in Occidente, questi sono stati collocati da Anderson tra gli orientali più che tra gli occidentali, poiché avevano scelto di vivere dall'altra parte della cosiddetta cortina di ferro, vale a dire Brecht, a cui si fa riferimento in due pagine, ed Ernst Bloch, il cui nome non compare in alcuna pagina.

Per me, quindi, la caratterizzazione del "marxismo occidentale" da parte di Anderson era singolare fin dall'inizio. Sebbene Anderson, come ogni pensatore, avesse il diritto di evidenziare coloro che erano più vicini alla sua analisi, il suo approccio alla classificazione dei "marxisti occidentali", privilegiando soprattutto quelli che operavano nel campo della filosofia e della cultura, rompeva decisamente con il marxismo classico, l'economia politica, la lotta di classe e la critica dell'imperialismo. Nella sua caratterizzazione, il "marxismo occidentale", era quindi una sorta di negazione degli aspetti fondamentali del marxismo classico e del marxismo sovietico. Anderson non dovrebbe essere del tutto biasimato per questo. Aveva a che fare con qualcosa di reale. Anche se in alcune aree erano stati fatti importanti progressi teorici, la realtà, in questo caso, era l'enorme distanza dal marxismo classico.

Non c'è dubbio, quindi, che il marxismo occidentale, secondo la definizione di Anderson – o anche secondo la delimitazione determinata dall'abbandono della dialettica della natura – sia stato privato di gran parte della critica marxista originale, sebbene abbia esplorato maggiormente alcune questioni come la dialettica della reificazione. Escludendo gli economisti politici, gli storici e gli scienziati marxisti, e quindi il materialismo, il marxismo occidentale si è anche allontanato dai concetti di classe e di imperialismo, e quindi dall'idea stessa della lotta. Il risultato è stato quello di creare un club esclusivo, o ciò che Lukács ha definito criticamente come un insieme di pensatori che risiedono al "Grand Hotel Abyss", sempre più lontani persino dal pensiero della pratica rivoluzionaria. Non credo che abbia molto senso collegare direttamente questo fenomeno all'aristocrazia operaia (anche se questa analisi è di per sé importante). Piuttosto, questi pensatori si sono affermati come alcuni dei membri più elitari dell'accademia borghese, difficilmente concepiti come marxisti, tanto meno come lavoratori, spesso occupando cattedre universitarie e coprendosi di onori. Di certo stavano complessivamente meglio di coloro che erano rimasti saldamente all'interno della tradizione marxista classica.

GR: Nei suoi due libri sull'argomento, Anderson fornisce un resoconto da marxista occidentale del marxismo occidentale. È proprio questo, a mio avviso, a costituire sia i punti di forza che le ineluttabili debolezze del suo approccio. Da un lato, egli offre una diagnosi perspicace di alcuni aspetti fondamentali del suo orientamento ideologico, tra cui l'abbandono della prassi politica a favore della teoria e l’abbraccio del disfattismo politico. D'altro canto, non collocando il marxismo occidentale all'interno dei rapporti sociali di produzione (inclusa la produzione teorica) e della lotta di classe internazionale, non va mai al nocciolo della questione. In definitiva, ci fornisce un resoconto che non è rigorosamente materialista perché non entra seriamente nell'economia politica della produzione, della circolazione e del consumo della conoscenza, né pone l'imperialismo al centro della sua analisi.

Al di là del suo travisamento tipicamente occidentale, da un punto di vista marxista non sono le idee a guidare la storia, ma le forze materiali. La storia intellettuale, inclusa la storia del marxismo come attività teorica, deve quindi essere messa con chiarezza in relazione a queste forze, pur riconoscendo che l'ideologia procede in modo semi-autonomo rispetto al contesto socioeconomico. Gli intellettuali marxisti europei alla fine del diciannovesimo e all'inizio del ventesimo secolo lavoravano spesso al di fuori dell'accademia, a volte come organizzatori politici o giornalisti ed erano, in modi diversi, molto più organicamente legati alla pratica della lotta di classe. Quando, durante la Prima Guerra Mondiale, si verificò la scissione nel movimento socialista, alcuni di questi intellettuali voltarono le spalle al proletariato internazionale e si allinearono, consapevolmente o meno,  agli interessi delle loro borghesie nazionali. Altri, invece, erano d'accordo con Lenin sul fatto che l'unica guerra degna di essere sostenuta era una guerra di classe internazionale, chiaramente presente nella rivoluzione russa, e non la rivalità interimperialista della classe dominante capitalista. Questo è il motivo per cui Losurdo utilizza questa scissione per inquadrare il suo libro sul marxismo occidentale, ed è uno dei motivi per cui è notevolmente superiore al resoconto di Anderson: il marxismo occidentale è frutto della tradizione emersa dallo sciovinismo sociale della tradizione marxista europea, che storceva il naso di fronte alle rivoluzioni anticoloniali extraeuropee. Come Lenin ha dimostrato in modo decisivo, ciò non è avvenuto semplicemente perché gli intellettuali marxisti occidentali hanno commesso degli errori teorici. Lo è stato perché c'erano delle forze materiali che condizionavano il loro orientamento ideologico: in quanto membri dell'aristocrazia operaia del nucleo capitalista, avevano un interesse personale nel preservare l'ordine mondiale imperialista.

Questa scissione originaria si è trasformata in una grande frattura, mentre la rivalità interimperialista della Prima Guerra Mondiale è continuata durante la Seconda Guerra Mondiale e alla fine ha portato ad una sorta di stallo globale, contrapponendo il vincitore del campo imperialista (gli Stati Uniti), all’emergente campo socialista guidato dal paese che ha avuto un ruolo decisivo nella sconfitta del fascismo e nel sostegno a molte rivoluzioni anticoloniali in tutto il mondo (l'Unione Sovietica). In Occidente, nel contesto della Guerra Fredda, i marxisti occidentali erano, in misura crescente, professori universitari che tendevano a essere scettici sugli sviluppi pratici del marxismo nel Sud globale e si impegnavano in significative revisioni teoriche del marxismo classico di Marx, Engels e Lenin. Per ragioni molto materiali, il loro revisionismo anticomunista tendeva a rafforzare la loro posizione all'interno delle istituzioni occidentali e dell'industria teorica. Questo non è avvenuto tutto d'un tratto e le forze sociali oggettive e gli orientamenti soggettivi non hanno marciato parallelamente, in quanto ci sono state delle contraddizioni che hanno caratterizzato questi sviluppi.

Adorno e Horkheimer, le figure di spicco della Scuola di Francoforte, erano dogmatici critici anticomunisti del socialismo reale ed erano stati finanziati e sostenuti dalla classe dirigente capitalista e dai principali stati imperialisti, per aver manifestato queste opinioni. In Francia, Sartre scoprì la sua versione soggettivista del marxismo durante la Seconda Guerra Mondiale, sostenne alcuni aspetti del movimento comunista globale che ne seguì, ma né manifestò anche un crescente scetticismo con il protrarsi della Guerra Fredda. Althusser si allineò con il Partito comunista francese del dopoguerra, ma abbracciò anche la moda teorica antidialettica dello strutturalismo, e in particolare del lacanismo.

Queste contraddizioni vanno prese sul serio, pur riconoscendo che l'arco generale della storia ha portato, ad esempio, un althusseriano sartriano come Alain Badiou ad essere attualmente il marxista occidentale più famoso in Francia. Sventolando una teorica bandiera rossa e affermando di essere uno dei pochi comunisti viventi, egli sostiene che «gli stati socialisti, le lotte di liberazione nazionale, e infine, il movimento operaio non costituiscono più i referenti storici che possono garantire l'universalità concreta del marxismo». Quindi, «il marxismo oggi... è storicamente distrutto», e tutto ciò che rimane è la nuova "idea di comunismo" che Badiou propone da una delle principali istituzioni accademiche dell'Occidente imperialista.[1] Se il marxismo come teoria incarnata nella pratica è morto, siamo comunque incoraggiati a gioire della sua rinascita spirituale tramite una versione marxiana della teoria francese. Unendo sfacciatamente il suo messianismo con l'autopromozione opportunistica, l’implicito slogan da marketing di Badiou per il proprio lavoro sembra una perversione cristologica della famosa affermazione di Marx sulla rivoluzione: «Il marxismo è morto. Lunga vita alla mia idea di comunismo!» Tuttavia, nel suo entusiasmo per la resurrezione teorica, Badiou omette di dire che la sua presunta nuova idea, nella sua essenza pratica, è in realtà un'idea molto vecchia, già criticata sonoramente da Engels. È l'idea del socialismo utopico.

Questo è uno dei motivi per cui una valutazione dialettica del marxismo occidentale è così importante. Ci consente di intraprendere un'analisi variegata di singoli pensatori e movimenti, evidenziando dove e quando questi si allineano all'ideologia dominante del marxismo occidentale, ma anche come possono separarsi da essa in certi aspetti o in momenti specifici (come per Sartre e Althusser). Inoltre, questo approccio dialettico deve essere completamente materialista, basandosi su un'analisi dei rapporti sociali della produzione intellettuale. I più noti marxisti occidentali contemporanei sono professori universitari del nucleo imperialista, alcuni dei quali sono superstar globali dell'industria della teoria imperialista, e questo ha sicuramente avuto un impatto sul tipo di lavoro che svolgono.

Inoltre, l'integrazione del marxismo nell'accademia borghese lo ha sottoposto a una serie di cambiamenti significativi. Nel nucleo capitalista non ci sono accademie di marxismo in cui ci si possa formare, e poi educare gli altri al marxismo come scienza totale che abbraccia il mondo naturale e sociale. Esiste invece un sistema di taylorismo intellettuale fondato sulla divisione disciplinare del lavoro tra scienze naturali, scienze sociali e scienze umane. Questo sistema, in quanto parte della sovrastruttura, è in ultima analisi guidato dagli interessi capitalistici. A questo proposito, il marxismo è stato in larga misura messo da parte o rifiutato come quadro di riferimento per le scienze naturali borghesi, ed è stato spesso ridotto ad un paradigma interpretativo – scorretto ed insufficiente – in gran parte delle scienze sociali borghesi. Molti dei più noti marxisti occidentali insegnano nelle facoltà umanistiche o nei dipartimenti di scienze sociali ad esse collegati e praticano l'eclettismo teorico, combinando intenzionalmente la teoria marxista con le mode teoriche borghesi.

Dato questo contesto materiale, non sorprende che i marxisti occidentali tendano a rifiutare la scienza materialista, ad abbandonare il rigoroso impegno nei confronti dell'economia politica e della storia materialista, e ad arrendersi alla teoria e all'analisi culturale borghese fine a se stessa. Per i marxisti occidentali più rozzi come Slavoj Žižek, lo scopo della teoria marxista non è quello di cambiare il mondo, che li promuove come grandi luminari, ma piuttosto di interpretarlo in modo tale da far progredire la loro carriera all'interno del mondo accademico imperiale e delle industrie culturali. Il sistema oggettivo e materiale di produzione della conoscenza, condiziona i loro contributi soggettivi. Ciò che tende a mancare loro è una valutazione autocritica, dialettico-materialista, delle loro condizioni di produzione intellettuale, il che è dovuto, in parte, al modo in cui sono stati ideologicamente formati dallo stesso sistema che li promuove. Sono ideologi del marxismo imperiale.

JBF: Quella che hai qui presentato è una classica critica storico-materialistica incentrata sui fondamenti di classe dell'ideologia, in relazione alla tradizione marxista occidentale. Come dichiarato da Karl Mannheim nel suo Ideologia e utopia, è da Marx che è nata la critica dell'ideologia. Tuttavia, secondo Mannheim, il marxismo aveva fallito riguardo all'autocritica necessaria per una evoluta sociologia della conoscenza, a causa della sua incapacità di dissociarsi dal proprio punto di vista proletario rivoluzionario (un fallimento che attribuiva in particolare a Lukács). Ma, al contrario, come sostiene Mészáros, è proprio questa autocritica – cioè i cambiamenti radicali nella teoria e nella pratica rivoluzionaria in risposta alle mutate condizioni materiali di classe – che contribuisce a spiegare la continua vitalità della teoria marxiana, oltre alle effettive rivoluzioni nel Sud globale.

Per il marxismo occidentale, in quanto tradizione distinta, tale autocritica era ovviamente impossibile, senza svelare l'intero gioco. Non è un caso che le polemiche più aspre dei marxisti occidentali siano state rivolte a Lukács quando questi ha implicitamente esteso la propria critica dell'irrazionalismo alla sinistra occidentale e alla sua attrazione per l'antiumanesimo di Martin Heidegger. Nella tradizione filosofica marxista occidentale sono state rifiutate, oltre all'analisi storica, tutte le ontologie positive, anche quelle di Marx e di Hegel. È rimasta solamente una dialettica circoscritta, ridotta a una logica di segni e significanti, separata dall'ontologia materialista, dalla lotta di classe e persino dal mutamento storico. L'umanesimo, anche quello marxista, è diventato il nemico. Con l’abbandono di ogni contenuto reale, i marxisti occidentali auto-identificati hanno contribuito all’introduzione della svolta discorsiva. Questo li ha portati a confluire nel post-marxismo, nel post-strutturalismo, nel post-modernismo, nel post-umanesimo, nel post-colonialismo e nel post-capitalismo. In questo caso, il prefisso “post” significava spesso un arretramento, piuttosto che un avanzamento.

Possiamo riassumere gran parte della nostra discussione avuta finora dicendo che la tradizione marxista occidentale, pur fornendo una grande quantità di intuizioni critiche, è stata coinvolta da quattro rimozioni: (1) la rimozione della classe; (2) la rimozione della critica dell'imperialismo; (3) la rimozione della natura/materialismo/scienza; e (4) la rimozione della ragione. Senza un'ontologia positiva, tutto ciò che è rimasto, nella sinistra post-modernista e post-marxista, è stata la Parola o un mondo di discorsi vuoti, che forniscono una base per decostruire la realtà, ma vuoti di qualsiasi progetto di emancipazione.

Quindi, il compito attuale è il recupero e la ricostituzione del materialismo storico come teoria e pratica rivoluzionaria, nel contesto dell’attuale crisi planetaria. Max Weber ha affermato che il materialismo storico non è un'auto che può essere guidata ovunque. Si potrebbe rispondere che il marxismo, nel suo senso classico, non è destinato a trasportare l'umanità ovunque. Piuttosto, la destinazione è un regno di sostanziale uguaglianza e sostenibilità ecologica: il socialismo completo.

GR: Questa quadruplice rimozione costituisce un abbandono della realtà materiale per entrare nel regno del discorso e delle idee. È quindi un'inversione ideologica del marxismo classico che capovolge il mondo. La principale conseguenza politica di tale orientamento è l'abbandono del complicato e spesso contraddittorio compito di costruire il socialismo nel mondo reale. Le Quattro Rimozioni, che eliminano quello che Lenin chiamava il nucleo rivoluzionario del marxismo, alimentano così un abbandono dal primario compito pratico del marxismo, vale a dire, cambiare il mondo, non semplicemente interpretarlo.

Per mantenere un'analisi completamente dialettica, è importante insistere sul fatto che le Quattro Rimozioni e il complessivo abbandono del socialismo reale non funzionano come principi meccanici che determinano in modo riduttivo tutti gli aspetti di ogni discorso marxista occidentale. Sono piuttosto caratteristiche di un ampio campo ideologico che potrebbe essere mappato nei termini di un diagramma di Venn.[**] Ogni discorso specifico può occupare posizioni piuttosto diverse all'interno di questo campo ideologico. Da un lato, ci sono discorsi idealisti superstiziosi che hanno preso il volo da tutte le forme di analisi materialista a favore di vari orientamenti "post" – post-marxismo, post-strutturalismo, post-modernismo e così via – che sono profondamente regressivi. Dall'altro lato, ci sono discorsi che rivendicano di essere solidamente marxisti e si impegnano, in una certa misura, con una versione razionalista dell'analisi di classe. Tuttavia, essi fraintendono le fondamentali dinamiche di classe in atto nell'imperialismo e tendono a rifiutare il socialismo reale come progetto di costruzione dello Stato anti-imperialista, a favore di versioni utopiche, populiste o ribelli del socialismo di stampo anarchico (Losurdo ha diagnosticato con perspicacia tutte e tre queste tendenze nel suo libro sul marxismo occidentale).

Mentre i vari orientamenti "post" sono relativamente facili da affrontare da un rigoroso punto di vista materialista, l'analisi marxista occidentale può essere più difficile da contestare, a causa del suo potere istituzionale e della sua apparente dedizione al materialismo storico. Nell'assumere il compito di rivitalizzare il materialismo dialettico e storico come teoria e pratica rivoluzionaria, è di fondamentale importanza combattere gli auto-proclamati marxisti che travisano l'imperialismo e la lotta storico-mondiale contro di esso. I tuoi recenti saggi su questo argomento pubblicati su Monthly Review sono una lettura essenziale perché vanno al cuore di una delle questioni teoriche più importanti della lotta di classe contemporanea, vale a dire: come comprendere l'imperialismo.[2] Mentre prosegui la tua analisi critica, spero che continuerai a far luce su una delle più perverse inversioni ideologiche marxiste occidentali: la rappresentazione di quei paesi coinvolti nella lotta antimperialista - dalla Cina alla Russia, all'Iran e oltre - come fondamentalmente imperialisti, che rispecchiano l'Occidente collettivo nelle loro azioni e ambizioni, o addirittura, che si dedicano a una forma di imperialismo più autoritaria e repressiva delle democrazie borghesi occidentali.

JBF: Il rapporto tra il marxismo occidentale e l'imperialismo è estremamente complesso. Un elemento del problema, che dobbiamo analizzare per primo, è l'eurocentrismo insito nella cultura occidentale (che include, ovviamente, non solo l'Europa, ma anche gli Stati coloniali: gli Stati Uniti e il Canada nel Nord America, l'Australia e la Nuova Zelanda nell'Australasia, e in un contesto leggermente diverso, Israele). Martin Bernal ha sostenuto in Black Athena che il mito ariano relativo all'antica Grecia, che ha costituito il vero inizio dell'eurocentrismo, è sorto – anche se, sicuramente, c'erano tracce precedenti – all’epoca dell'invasione napoleonica dell'Egitto, alla fine del XVIII secolo. L'eurocentrismo ha avuto un'ulteriore impulso con l'ascesa di quella che Lenin ha chiamato la fase imperialista del capitalismo, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, simboleggiata dalla spartizione dell'Africa da parte delle grandi potenze.

L'eurocentrismo non dovrebbe essere visto semplicemente come un tipo di etnocentrismo. Piuttosto, l'eurocentrismo deve essere visto nel modo in cui è stato definito acutamente da Weber nella sua introduzione alla Sociologia delle religioni (pubblicata come "introduzione dell'autore" nella traduzione inglese principale di Talcott Parsons a The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism). In questo libro Weber sosteneva che la cultura europea era l' unica cultura universale. A suo avviso, esistevano sicuramente altre culture particolari nel mondo, alcune delle quali molto avanzate, ma tutte erano costrette ad adattarsi alla cultura universale dell'Europa se volevano modernizzarsi, il che significava svilupparsi lungo le linee razionaliste e capitaliste europee. Altri paesi, secondo questa visione, avrebbero potuto svilupparsi , ma solo se avessero adottato la cultura universale, considerata la base della modernità , un prodotto particolare dell'Europa. È proprio l’eurocentrismo in questo senso che Joseph Needham ha affrontato criticamente nella sua opera Within the Four Seas (1969) e che Samir Amin ha decostruito storicamente nel suo Eurocentrism (1988).

Il pensiero europeo del diciannovesimo secolo si era sviluppato nel contesto di questa visione emergente dell’eurocentrismo. Si pensi al modello colonialista e razzista del mondo, presentato da Hegel nella sua Filosofia della storia. Tuttavia, l'opera di Marx ed Engels non è stata contaminata da tale eurocentrismo. Inoltre, alla fine degli anni '50 dell'Ottocento, quando erano ancora trentenni, e da quel momento in poi, Marx e Engels sostennero con forza le lotte e le rivoluzioni anticoloniali in Cina, India, Algeria e Sudafrica. Essi espressero anche la loro profonda ammirazione per le nazioni della Confederazione irochese in Nord America. Nessun altro importante pensatore del diciannovesimo secolo, se paragonato a Marx, ha così fortemente condannato ciò che lui chiamava «l'estirpazione, la schiavitù e la sepoltura nelle miniere della popolazione indigena delle Americhe», né si è così fortemente opposto alla schiavitù capitalista. Marx è stato il più accanito oppositore europeo delle guerre dell'oppio condotte da Gran Bretagna e Francia in Cina, e delle carestie generate dalla politica imperiale britannica in India. Egli ha sostenuto che la sopravvivenza della comune russa, o mir, avrebbe consentito alla Rivoluzione russa di svilupparsi in termini diversi da quelli europei, forse addirittura evitando il percorso dello sviluppo capitalista. Engels ha introdotto il concetto di aristocrazia operaia (sviluppato poi da Lenin) per spiegare l’inattività dei lavoratori britannici e le scarse prospettive del socialismo in quel paese. A parte alcune lettere, l'ultimo paragrafo che Engels scrisse nel 1895, due mesi prima della sua morte, fu un riferimento – nelle righe conclusive della sua edizione del terzo libro del Capitale di Marx – a come il capitale finanziario (o la borsa) delle principali potenze europee avesse spartito l'Africa. Questa era la realtà che sarebbe stata alla base della concezione di Lenin della fase imperialista del capitalismo.

Ma non si può certo dire che la posizione dei marxisti della generazione successiva sia stata in stretta sintonia con i problemi dell'imperialismo o fortemente solidale con i popoli colonizzati. Nella Prima Guerra Mondiale, quasi tutti i partiti socialisti europei sostennero i propri Stati nazionali imperiali in quella che era principalmente, come spiegò Lenin, una disputa su quale nazione (o nazioni) avrebbe sfruttato le colonie e le semicolonie. Solo il partito bolscevico di Lenin e la piccola Lega Spartachista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht lottarono contro queste posizioni.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, l'analisi sull'imperialismo di Lenin presente in L'imperialismo, fase suprema del capitalismo fu adottata e sviluppata, con il sostegno dello stesso Lenin, nel Comintern. Fu nei documenti del Comintern che compare per la prima volta quella che verrà chiamata teoria della dipendenza, sviluppata poi in America Latina e successivamente ampliata nell'analisi dello scambio ineguale e nella teoria del sistema-mondo. Questo fu un periodo di rivoluzioni e decolonizzazione in tutto il Sud globale. In risposta a questi sviluppi, il marxismo si divise radicalmente. Alcuni teorici marxisti occidentali assunsero la posizione, enunciata più chiaramente da Sweezy negli anni '60, secondo cui la rivoluzione – e con essa il proletariato rivoluzionario e l’obiettivo proprio della teoria marxista – si erano spostati nel terzo mondo o nel Sud globale. Al contrario, la maggior parte di coloro che appartenevano alla auto-definita tradizione marxista occidentale, pensava al marxismo come a una proprietà peculiare dell'Occidente, dove aveva avuto origine, anche se le principali lotte rivoluzionarie si stavano svolgendo altrove. Naturalmente, ciò andava di pari passo con l’ignorare, nel migliore dei casi, e con il completo rifiuto, nel peggiore dei casi, del fenomeno dell'imperialismo.

Questa dinamica fu interrotta da alcune delle principali rivoluzioni del terzo mondo, impossibili da ignorare, come quella algerina e quella vietnamita. Così, un personaggio come Marcuse, che complessivamente apparteneva alla tradizione filosofica marxista occidentale, fu profondamente colpito dalla Rivoluzione vietnamita. Ma ciò era comunque abbastanza lontano dal suo lavoro teorico. Per la maggior parte, la tradizione marxista occidentale, nella sua forma accademica più astratta, agì come se l'Europa fosse rimasta il centro delle cose, ignorando i profondi effetti dell'imperialismo sulla struttura sociale dell'Occidente e avendo relativamente poco rispetto per i teorici marxisti al di fuori dell'Europa.

John S. Saul, il cui lavoro si è concentrato sulle lotte di liberazione in Africa, mi ha instillato il concetto di "contraddizione primaria". Lenin aveva capito che la contraddizione primaria del capitalismo monopolistico era l'imperialismo, e in effetti le rivoluzioni nel Sud globale, una dopo l'altra (e le risposte controrivoluzionarie nel Nord globale) lo confermarono. Ma non solo questo è stato spesso ignorato dalla sinistra occidentale, ma sempre più, abbiamo assistito a mosse disperate per negare che il Nord sfruttasse economicamente il Sud e per rifiutare l'idea che questo fosse il cuore della teoria di Lenin. Ciò è andato di pari passo con frequenti attacchi alle teorie della dipendenza, dello scambio ineguale e della teoria del sistema-mondo. Si pensi al lavoro di Bill Warren, che ha cercato di sostenere che Marx vedeva l'imperialismo come il "pioniere del capitalismo", ovvero che svolgeva un ruolo progressista (anche se Lenin non l'ha detto); e del tentativo di Robert Brenner, nella New Left Review, di designare Sweezy, Andre Gunder Frank e Immanuel Wallerstein come “marxisti neo-smithiani” sulla base del fatto che, come Adam Smith (e presumibilmente in opposizione a Marx), criticavano lo sfruttamento dei paesi alla periferia del capitalismo. (Le critiche dello stesso Smith erano dirette al mercantilismo e a favore del libero scambio.)

Negli Stati Uniti, l'economia politica marxista era molto importante negli anni '60. La maggior parte di coloro che si avvicinarono al marxismo in quel periodo non lo fecero come risultato dell’azione dei partiti di sinistra, che erano praticamente inesistenti, così come non c'era un movimento operaio radicale. Pertanto, negli anni '60 e '70 la sinistra fu attratta dal materialismo storico grazie, soprattutto, alla critica dell'imperialismo e alla rabbia per la Guerra del Vietnam. Inoltre, il marxismo negli Stati Uniti è stato sempre profondamente influenzato dal movimento radicale nero che si è sempre concentrato sulla relazione tra capitalismo, imperialismo e razza, svolgendo un ruolo di leadership nella comprensione di queste relazioni.

Tuttavia, sia in Nord America che in Europa, la critica dell'imperialismo si è affievolita alla fine degli anni '70 e '80 a causa di un eurocentrismo imperante. C'era anche il problema, in termini più opportunistici, di essere esclusi dall'accademia e dai movimenti di sinistra se si poneva troppa attenzione all'imperialismo. Ovviamente, la sinistra ha fatto alcune scelte in questo senso. Negli Stati Uniti, tutti i tentativi di creare un movimento di sinistra liberale o socialdemocratico si scontrano con il fatto che, se si vuole entrare nel sistema politico "democratico", non ci si deve opporre attivamente al militarismo o all'imperialismo statunitense o sostenere movimenti rivoluzionari all'estero. Anche nell'accademia, ci sono controlli – non detti – a questo proposito.

Oggi assistiamo ad un aumento, tra gli intellettuali che si professano marxisti, di coloro che rifiutano apertamente la teoria dell'imperialismo, sia di Lenin che della teoria marxista dell'ultimo secolo o più. Vengono utilizzati diversi argomenti, tra cui: la limitazione dell'imperialismo ai soli conflitti tra le grandi potenze (vale a dire, vederlo principalmente in termini orizzontali); la sostituzione dell'imperialismo con un concetto amorfo di globalizzazione o transnazionalizzazione; la negazione che un paese possa sfruttarne un altro; la riduzione dell'imperialismo a categoria morale in modo da associarlo agli Stati autoritari e non alle "democrazie"; o rendere il concetto di imperialismo così onnipresente da renderlo inutile, dimenticando il fatto che gli attuali Paesi del G7 (con l'aggiunta del Canada) sono esattamente le stesse grandi potenze imperialiste del capitalismo monopolistico designate da Lenin oltre un secolo fa. Ciò rappresenta un cambiamento di rotta che sta dividendo la sinistra, in cui la Nuova Guerra Fredda contro la Cina – che è anche una guerra contro il Sud globale – sta portando gran parte della sinistra a schierarsi con le potenze occidentali, considerate in qualche modo “democraticamente” superiori e quindi meno imperialiste.

Tutto questo ci riporta alla questione dell'eurocentrismo. I teorici postcoloniali hanno recentemente condannato il marxismo come filo-imperialista o eurocentrico. I tentativi di attribuire tali opinioni a Marx, Engels e Lenin sono facili da confutare su una base fattuale. Come disse Baruch Spinoza, «l'ignoranza non è un argomento». Ma il problema diventa più profondo nella misura in cui molti teorici postcoloniali prendono come misura del marxismo le principali concezioni culturali e filosofiche marxiste occidentali, da cui la stessa teoria postcoloniale in gran parte discende. Non c'è alcun dubbio che i teorici marxisti occidentali, con lo sguardo rivolto solo all'Europa o agli Stati Uniti, fossero spesso inclini all'eurocentrismo. Inoltre, il marxismo occidentale proiettava una visione del marxismo classico come determinismo economico, e quindi insensibile alle questioni nazionali e culturali. Tutto ciò ha portato a distorsioni della documentazione storica e teorica.

In realtà esiste un mondo intero di analisi marxiste, la maggior parte delle quali nasce da lotte materiali. Ho letto un interessante libro di Simin Fadaee intitolato Global Marxism: Decolonization and Revolutionary Politics, pubblicato dalla Manchester University Press nel 2024. L’autrice sostiene che il marxismo è globale e fornisce capitoli distinti su Mao, Ho, Amilcar Cabral, Frantz Fanon, Che e altri. Alla fine dell'introduzione al suo libro, scrive: «È di fatto eurocentrico affermare che il marxismo è eurocentrico, perché ciò implica il rifiuto della pietra angolare di alcuni dei movimenti e dei progetti rivoluzionari più trasformativi della recente storia umana. Invece di fare affermazioni così radicali, uno studio più proficuo della storia ci spingerebbe invece a imparare dall'esperienza del Sud globale con il marxismo, e a chiederci cosa possiamo imparare dalla rilevanza globale del marxismo».

(Fine della prima parte)

Note

[*] Edizione italiana del libro: Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale, Editori Laterza, Bari, 2017.

[**] Il diagramma di Venn (detto anche diagramma di Eulero-Venn) è un diagramma che mostra tutte le possibili relazioni logiche tra una collezione finita di insiemi differenti. (Fonte: Wikipedia)

[1] Alain Badiou, Can Politics Be Thought?, trans. Bruno Bosteels (Durham, North Carolina: Duke University Press, 2018), p. 57, 60.

[2] Vedi John Bellamy Foster, The New Denial of Imperialism on the Left, Monthly Review 76, n. 6, novembre 2024, trad. it. La sinistra e la nuova negazione dell'imperialismo, Antropocene.org, 29.11.2024; e anche John Bellamy Foster, The New Irrationalism, Monthly Review 76, n. 9, febrraio 2023, trad. it. Il nuovo irrazionalismo, Antropocene.org, 14.02.2023.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento