I salari italiani sono ancora lontani dal recuperare la pressione inflazionistica a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Seppur alcuni rinnovi contrattuali arrivati a cavallo tra il 2024 e il 2025 hanno recentemente spinto al rialzo la dinamica salariale, la realtà è che in nessuno degli accordi principali raggiunti gli aumenti saranno sufficienti a colmare la distanza con l’incremento dei prezzi al consumo registrata dal 2021.
Stando ai dati del Bollettino Economico della Banca d’Italia pubblicato questo aprile, nel 2024 la crescita salariale nel settore privato non agricolo si è attestata al 4%, accelerando rispetto al 2,2% dell’anno precedente. I rinnovi contrattuali portati a termine hanno interessato oltre 5 milioni di lavoratori, e ora si attende il rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici, scaduto a giugno dello scorso anno.
Tuttavia, è stato calcolato che a febbraio 2025 i salari reali del settore privato non agricolo risultavano ancora inferiori dell’8% rispetto ai livelli del 2021. La perdita di potere d’acquisto è stata più marcata per i servizi (-10,2%) che per l’industria (-5,1%), ma è evidente che l’inflazione ha eroso pesantemente le retribuzioni di tutti i lavoratori.
Il Wage Tracker, un indicatore elaborato da Bankitalia che misura la crescita salariale dei contratti in vigore, si è attestato al 4,3% nei primi due mesi del 2025, ma le previsioni stimano che vada diminuendo nettamente: si dovrebbe attestare al 3,3% quest’anno, per poi cadere al 2,3% nel 2026.
L’Istat ha confermato questo andamento anche per marzo, ma c’è di più. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), in un recente studio, ha segnalato che l’Italia è il Paese del G20 ad aver subito la perdita più marcata in termini di potere d’acquisto dal 2008. Giorgia Meloni, al contrario, si fregia di straordinari risultati del governo.
Infatti, la presidente del Consiglio dei ministri ha selezionato attentamente solo gli ultimissimi dati, aiutati dai rinnovi contrattuali e dal raffreddamento della spirale inflazionistica, per affermare che l’esecutivo sta riuscendo a ribaltare la situazione. Per cominciare a farlo, invece, servirebbe innanzitutto introdurre un salario minimo indicizzato al costo della vita.
Allo stesso tempo, l’Istat ha rilevato “un generalizzato peggioramento delle opinioni” dei consumatori, con la loro fiducia in calo per il secondo mese consecutivo da (da 95,0 a 92,7). Le perplessità si espandono a tutti gli ambiti: il clima economico scende da 93,2 a 89,6, il clima personale diminuisce da 95,7 a 93,9, quello corrente passa da 97,9 a 95,4 e quello futuro da 91,1 a 89,1.
Se le prospettive che hanno i consumatori sono grigie, non può essere altrimenti per ciò che riguarda le imprese. L’indicatore composito del clima di fiducia delle imprese scende da 93,2 a 91,5. In questo caso è il terzo mese di diminuzione e il livello più basso raggiunto da marzo 2021, ovvero dalla fine del secondo periodo di chiusura legato al Covid-19.
La fiducia cala più nei servizi che nell’industria, e solo nella manifattura rimane sostanzialmente stabile (da 86 a 85,7). In questo settore, infatti, migliorano i giudizi sugli ordini mentre calano le attese sulla produzione e le scorte sono giudicate invariate. È interessante notare che il calo della fiducia nei servizi è dovuta soprattutto a un peggioramento dell’economia del turismo.
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