di Emiliano Brancaccio
L’economista Luigi Spaventa è morto
domenica, a Roma, all’età di 78 anni. Docente di economia politica alla
Sapienza, fu deputato della sinistra indipendente negli anni Settanta,
poi ministro del Bilancio del governo Ciampi, quindi presidente della
Consob. Alle elezioni del 1994 gli toccò la sfida impossibile di
fronteggiare Berlusconi nel collegio di Roma. La sconfitta, secca,
rappresentò in un certo senso una prova generale per l’avvio di una
nuova era della comunicazione politica: con Spaventa che provava a dire
la sua sulla crisi del Sistema monetario europeo mentre Berlusconi gli
rinfacciava di non aver mai vinto la coppa dei Campioni.
Di diverso rango furono le dispute alle
quali Spaventa partecipò nel corso della sua vita di studioso. Durante
gli anni Sessanta prese parte alla controversia sulle incoerenze della
teoria neoclassica collocandosi sul fronte eretico degli sraffiani. Con
essi condivise l’attacco alla tesi neoclassica secondo cui la
distribuzione del reddito tra salari e profitti sarebbe il frutto di un
equilibrio “naturale” del mercato, determinato essenzialmente dalle
libere scelte di consumo, risparmio e lavoro degli individui e dalla
scarsità delle risorse produttive esistenti. Per gli sraffiani quella
tesi era basata su una misura contraddittoria del capitale e risultava
quindi logicamente insostenibile. Per questo andava sostituita da una
teoria alternativa di ispirazione classica e marxiana, che vedeva la
distribuzione del reddito come una risultante del quadro istituzionale e
politico, e in ultima istanza dei rapporti di forza tra le classi
sociali. Spaventa condivideva i termini di questa obiezione, ma la mera
critica della teoria dominante non lo seduceva.
A suo avviso, per dare un solido futuro al programma di ricerca di Sraffa bisognava concentrare gli sforzi sulla sua parte costruttiva, senza troppe pregiudiziali verso la vecchia teoria. Per esempio, Spaventa riteneva che si potesse integrare l’analisi sraffiana con gli spezzoni a suo dire salvabili della visione ortodossa, come ad esempio la teoria delle aspettative. Questo programma spurio tuttavia non convinse. Tra gli sraffiani prevaleva l’idea che far dipendere una teoria economica da una ipotesi sulle aspettative era un po’ come tenerla su per i lacci delle scarpe. Spaventa prese atto, e anche per questo iniziò a distanziarsi.
L’allontanamento dagli antichi sodali fu
ancor più accentuato nel campo della politica economica. Nel 1981, con
Mario Monti ed altri, Spaventa caldeggiò la proposta di
“desensibilizzazione” dei salari. L’idea consisteva nell’indicizzare le
retribuzioni ai soli aumenti dei prezzi di origine nazionale: in caso di
inflazione proveniente dall’estero, i salari non dovevano più essere
protetti. In tal modo il potenziale inflazionistico della scala mobile
sarebbe stato attenuato. Le obiezioni furono numerose: perché mai
adottare un meccanismo che avrebbe salvaguardato i profitti e avrebbe
scaricato sui soli lavoratori il peso degli aumenti del prezzo del
petrolio? Per Monti ed altri veniva istintivo cercare di difendersi da
questa critica arrampicandosi al vecchio albero neoclassico, e da lì
replicare che i salari andavano frenati poiché avevano oltrepassato
l’equilibrio “naturale”. Ma per Spaventa, che negli anni precedenti
aveva contribuito a segare il tronco di quella pianta, si apriva una
contraddizione fra le sue origini teoriche e le proposte politiche che
intendeva sostenere.
Forse anche per risolvere tali
incongruenze, negli anni Ottanta Spaventa approfondì sempre di più il
solco che lo divideva dagli eretici, fino ad attribuire ad essi il poco
lusinghiero appellativo di “riserva indiana”. In effetti fu tempestivo
nel rilevare che il fronte della guerra delle idee economiche si era
spostato altrove: con le sconfitte sindacali in Italia e in Europa, la
Reaganomics negli Stati Uniti e la crisi sovietica, il tema delle
determinanti di classe della distribuzione del reddito appariva ormai
superato, dal corso degli eventi storici prima ancora che dalla
evoluzione del dibattito teorico. A suo avviso, l’analisi delle
aspettative restava invece attualissima. Per Spaventa, il problema
principale posto dalla nuova epoca consisteva nell’individuare
meccanismi istituzionali capaci di rendere stabili le aspettative degli
investitori, in modo da garantire uno sviluppo ordinato dei mercati. Fu
alla luce di questo convincimento che egli modificò le sue opinioni sul
Sistema monetario europeo. Nel 1979, quando lo Sme fu istituito,
Spaventa si collocava tra le file degli scettici: il regime dei cambi
fissi avrebbe impedito all’Italia di svalutare, e in definitiva
l’avrebbe danneggiata. In seguito, però, egli divenne un tenace
sostenitore di quel vincolo. Anzi, a suo avviso bisognava rafforzarlo
attraverso un accordo più stringente, che eliminasse ogni incertezza
sulla irrevocabilità futura dei rapporti di cambio tra le valute. In
altre parole, per stabilizzare le aspettative degli investitori
bisognava chiarire che non si poteva più tornare indietro: bisognava
andare oltre lo Sme e istituire una vera e propria moneta unica. La
creazione dell’euro, eliminando qualsiasi rischio di future
svalutazioni, avrebbe favorito gli afflussi di capitale estero verso
l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione. Grazie alla regolare
crescita degli afflussi finanziari, queste economie avrebbero potuto
investire e aumentare la produttività e sarebbero quindi state in grado
di rimborsare i prestiti.
Spaventa non fu certo il solo a
propugnare questa tesi: la narrazione di un euro capace in sé di
risolvere anziché accentuare le contraddizioni europee è stata per anni
prevalente. E’ pur vero che, prima della crisi, tra gli esponenti della
teoria dominante qualche voce dissenziente si era levata, ma è
soprattutto dalla “riserva indiana” degli eretici che sono scaturite le
obiezioni principali. Una in particolare merita di essere ricordata:
pensare di governare le divaricazioni strutturali e i relativi conflitti
tra capitali europei tramite un mero gioco di aspettative è stato,
nella migliore delle ipotesi, illusorio. Col sopraggiungere della crisi,
infatti, il tabù dell’inesorabilità dell’euro viene meno e i flussi
finanziari dall’estero invertono la loro rotta. Le economie periferiche
vengono così costrette a immolarsi sull’altare dell’austerity e della
svendita del capitale nazionale, nel vano tentativo di ripagare i
debiti. In quest’ottica alternativa l’euro si presenta dunque sotto una
ben diversa luce, quale strumento egemonico dei forti contro i deboli
nella feroce contesa tra capitali europei. L’importanza delle
aspettative risulta quindi nuovamente ridimensionata. Mentre l’analisi
dei rapporti di forza, in particolare dei rapporti di forza tra capitali
nazionali, torna alla ribalta.
Nel 2011, prima che la malattia lo
bloccasse, Spaventa onorò qualcuno dei “dieci piccoli indiani”
fuoriusciti dalla “riserva” di un dialogo serrato sulla questione.
Riconobbe che la verifica dei fatti dava sostegno all’interpretazione
alternativa. Convenne che se la moneta unica è a rischio, lo è anche il
mercato unico europeo.
Emiliano Brancaccio
Questo articolo è apparso su il manifesto dell’8 gennaio 2013. La riproduzione è consentita citando la fonte.
Uno dei contributi più rilevanti di Luigi Spaventa al dibattito sulla teoria neoclassica è: Rate of profit, rate of growth and capital intensity in a simple production model (Oxford Economic Papers 1970). Riporto anche due suoi scritti, il primo dedicato alla evoluzione della ricerca in Italia e il secondo sul rapporto tra gli economisti e la crisi: Il gruppo CNR per lo studio dei problemi economici… (2004) e Economists and Economics: what does the crisis tell us? (2009). Sulla “riserva indiana” e sui “dieci piccoli indiani”, un primo scambio con Spaventa risale a un seminario in Bocconi del maggio 2011.
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