Ogni stagione ha il suo tormentone. Una volta era “vamos a la playa”, ora è il turno di “società civile”.
Tutti i concorrenti a una poltrona di premier giurano di
voler portare in Parlamento esponenti della “società civile”, in modo da
“rinnovare la politica”, ripulire le stalle dagli arraffoni, ecc. Lo
dice Monti e ovviamente Grillo, lo spiega Bersani e naturalmente
Berlusconi, già venti anni fa capace di beneficiare dell'ondata
“antipolitica” che aveva travolto – sarà un caso – “i politici” seduti
alla sua greppia (Craxi e Forlani, in primis). Anche Ingroia ha
accettato lo stesso stile, intitolando alla “società civile” il suo
cartello elettorale e chiedendo – pro forma – “un passo indietro” ai
partiti che lo porteranno a Montecitorio.
Il luogo comune, o il
tormentone, è sempre un compromesso fetido tra una necessità vera
(trovare una nuova legittimità sociale e sistemica per “l'attività
politica”) e una soluzione usa-e-getta, che non servirà a niente.
Esprime infatti il bisogno di “nominare” in qualche modo l'esigenza di
cambiamento generale e al tempo stesso sotterra questa esigenza dentro
un impasto di cemento e melma. Il cemento dell'abitudine alla
frustrazione e la melma dei mestatori di professione (Berlusconi,
Maroni, Grillo), spesso a fatica distinguibili dai moralisti autentici,
ma improvvisati.
Fissata una retorica, insomma, ovvero un campo
di categorie semantiche dal significato variabile, chiunque cerchi di
muoversi in quel cerchio finisce per parlare una lingua altrui.
Che significa “società civile”? In astratto, come categoria, è il
recinto delle figure sociali e professionali che non hanno un ruolo
istituzionale, vivono rispettando le regole dello Stato, procurandosi un
reddito in modo legale, costruendo con la propria azione quotidiana
un'etica del vivere civile – appunto – che ha lasciato alle sue spalle
le modalità dell'homo hominis lupus. Ne fanno parte gli avvocati
(non tutti) così come gli operai, gli imprenditori (non tutti) quanto i
precari, i commercianti (non tutti) quanto le commesse. Insomma, gli
sfruttatori quanto gli sfruttati.
Ma il difetto principale, in
questa fase politica, non è neppure l'”interclassismo” di questa
categoria. È il fatto di conferire “positività preventiva” a qualunque
persona “scenda in politica” non avendo mai fatto parte della “classe
politica”.
In effetti, questa pretesa “verginità morale” può in
qualche caso essere persino una caratteristica reale. In molti altri
sarebbe difficile riconoscerla. Luca Cordero di Montezemolo, signori
miei, può essere considerato uno che non ha mai fatto politica? Uno super partes?
Un “vergine”? Non si è mai seduto sui banchi del Parlamento, non ha mai
avuto incarichi da ministro – è vero – ma come presidente della Fiat e
di Confindustria non è di certo estraneo alle scelte fatte dai governi
italiani negli ultimi venti anni. Anzi.
E un mafioso ancora non
individuato dalle indagini, può esser considerato “società civile”? E un
capo della curva e spacciatore?
Come si vede, la “categoria
sociologica” non regge la critica, ma soprattutto non garantisce un
“personale migliore”, ovvero capace di affrontare l'amministrazione
della “cosa pubblica nazionale” (o locale) senza subire l'influenza o il
ricatto di interessi privati, personali, clientelari. Anzi, se ce lo
consentite, proprio questa presunta “verginità” - se effettiva – li
espone indifesi alle peggiori pressioni, perché non possiedono
l'esperienza necessaria a districarsi nei meandri istituzionali e
amministrativi. La folla di amministratori pubblici provenienti dalla
“società civile” arrestati negli ultimi venti anni può riempire uno
stadio.
I partiti, al contrario, erano a loro volta
“istituzioni” costruite per trasmettere questa esperienza, maturata
nello sforzo di realizzare un governo della società orientato da
princìpi generali. Sappiamo tutti – e noi per primi, non avendone mai
voluto far parte – che i partiti italiani degli ultimi venti anni sono
una parodia triste e “magnereccia” della grandi organizzazioni che
incarnavano i diversi filoni del pensiero politico (liberali,
socialisti, democristiani, socialdemocratici, comunisti, ecc).
Ma “la politica senza ideali” che passa oggi per la migliore delle
politiche possibili, ben trincerata dietro la formuletta fangosa e
ipocrita della “società civile”, è semplice amministrazione
dell'esistente per conto degli interessi più potenti, in grado di
condizionare al meglio un “nuovo ceto politico” presuntamente o
realmente implume.
Politica è scontro di interessi
sociali particolari per indirizzare l'insieme della società in generale.
Questa azione può essere “pulita” solo dichiarando apertamente i propri
scopi generali, il senso progettuale del proprio agire (socialista,
liberale, cristiano, ecc). Altrimenti è gioco di parole per nascondere
la disponibilità a farsi interprete di breve periodo di poteri che sono
invece strutturati, “sapienti” nella gestione del proprio particulare come interesse generale, lungimiranti e capaci di orientare i flussi sociali come mandriani dall'alto di una collina.
Il “caso Ingroia” costituisce il migliore esempio dei limiti
costitutivi di questa “idologia della società civile”, proprio perché
non appare per nulla artefatto. Le sue interviste si alzano di livello
solo quando può parlare di lotta alle mafie. E' giusto, naturale, che
sia così. Questa la sua esperienza e il suo valore come persona. Se
dirigere un paese fosse soltanto un problema di azzeramento delle mafie
non si potrebbe sperare di meglio.
Ma su tutto il resto dello
scibile necessario a dirigere un paese – politica economica, mercato del
lavoro, strutture del welfare, diplomazia internazionale, ecc – è
evidente che si affida, per limiti propri o per compromesso di
coalizione, ai “suggerimenti” elaborati da una pattuglia di consiglieri
forniti o dai piccoli partiti che lo sostengono, o da “esperti”
reclutati tra i professori più critici del montismo. Non c'è niente di
male, ovviamente. Ma è il segno che “far politica” non è un gioco che
s'improvvisa in assenza di visione “globale” o di organizzazione.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento