Seppellito, forse per sempre, il sogno della globalizzazione stile Wto, a
Davos sono emerse tutte le differenze che disegnano uno scenario di
"competizione" per nulla pacifica tra aree monetarie e sistemi
economici.
Il vertice di Davos, quest'anno, non ha goduto dei favori della stampa europea, e men
che meno di quella italiana. Non c'erano notizie o previsioni rassicuranti
da mettere in prima pagina, solo preoccupazioni provenienti dai paesi “a
capitalismo maturo” e irritante soddisfazione degli “emergenti” –
soprattutto asiatici – che invece ancora crescono a rotta di collo. O
quasi. Sta di fatto che la “crescita” 2012, tra
Europa e Stati Uniti (più il Giappone), non ha superato in media l'1,5%;
e che le previsioni per l'anno in corso non sono affatto migliori. Al
contrario, la media degli emergenti supera spesso il +5,5%; il che
significa che le differenze di ricchezza si vanno
riducendo molto rapidamente. Anche perché questi “nuovi mercati” non
sono stati così stupidi da affidare le proprie chance
soltanto alle esportazioni, ma hanno – chi più, chi meno – cominciato a
strutturare un mercato interno con capacità di assorbimento crescenti.
Il che modifica la composizione sociale (aumenta la cosiddetta “classe
media” che può accedere ai consumi evoluti, come moderna casa di
proprietà, elettronica, automobile, telecomuncazioni, ecc) e convoglia
consensi verso i rispettivi governi. Un segnale chiaro arriva dalla
Corea del Sud, dove il Pil pro capite è stato per la prima volta più
alto della media europea.
Tutto il
contrario dell'Europa, insomma. Dove l'imprinting tedesco ha imposto una
politica deflazionistica – quindi assurdamente “pro-ciclica” – in piena
crisi, perseguendo come priorità il pareggio di bilancio mentre calano
le entrate “virtuose” (tipo l'Iva) e quindi aumentano quelle
“dissanguanti” sull'economia e le famiglie. Paradossalmente, qui la
“crescita” viene ricercata tramite la compressione del salario medio
(“riforme del mercato del lavoro” e della contrattazione) e affidando
alle esportazioni il ruolo di traino. In un mondo, peraltro, sottoposto
al logorio dell'invecchiamento, ma ancora avvantaggiato – nel punti alti
– da una ricerca/sviluppo di qualità superiore. Vantaggio, anche
questo, in rapidissima diminuzione se è vero – e lo è – che nel 2020
dovrebbero esserci 135 milioni di laureati cinesi e indiani, mentre
soltanto 30 tra gli statunitensi.
Cosa vuol dire? Che mentre l'Europa
cerca la “competitività” sulle fasce basse di produzione (tranne che in
Germania o nei poli di eccellenza), rischia seriamente di essere
superata anche nei settori ad alto valore aggiunto perché soffoca le
proprie stesse capacità di miglioramento comprimendo la spesa per
istruzione e ricerca. C'è insomma un difetto di “disegno strategico” che
corrisponde perfettamente alla diversità di impostazione tra “maturi”
ed “emergenti”, per quanto diversi tra loro. I “maturi” si affidano
ciecamente alle forze di mercato (in realtà al potere della finanza più
opaca, quella dei “derivati” che fanno il bello e cattivo tempo sulle
piazze di tutto il mondo), gli “emergenti” perseguono obiettivi propri,
utilizzando anche le spinte del mercato per raggiungerli. Anche a costo
di “forzarne” i meccanismi e fare scelte che in Europa suonano ormai una
bestemmia.
Tutt'altra la strada scelta esplicitamente dal
Giappone: svalutare la propria moneta, lo yen, comprare euro sui mercati
internazionali per far contemporaneamente "apprezzare" la divisa Ue e
così rosicchiare altri margini competitivi (non a caso la Toyota è
tornata primo produttore al mondo, con un aumento delle vendite
superiore al 22%), proteggendo contemporaneamente il proprio mercato
interno dalle merci straniere (in primo luogo cinesi, ma questo non
viene detto esplicitamente). E' l'apertura di fatto di una fase di
guerre commerciali basate sulle aree monetarie, che manda in soffitta
ogni tentativo di inaugurare l'era dell'open market globale. Non sarà
indolore, specie per "noi europei", privi di una banca centrale che
possa operare nello stesso modo di BoJ, Fed e BoE.
Il
secondo tema è la divisione interna all'Unione Europea, resa clamorosa
dall'atteggiamento inglese, ormai completamente “nemico” e
“competitivo”. Promettere il referendum “in or out” è forse anche un
problema secondario, mentre annunciare la riduzione della tassazione al
20% per qualsiasi tipo di attività imprenditoriale significa porre
un'ipoteca serissima sulla capacità di “ripresa” del vecchio continente.
Che sta, sì, smantellando il suo storico “modello sociale”, ma non così
velocemente da poter rinunciare alle entrate fiscali provenienti dalla
imprese.
Dal lato opposto stanno i paesi
Piigs, che non possono – nello scenario attuale – né sottrarsi ai diktat
della Troika né sopportarne i costi in termini di tagli alla spesa
pubblica, che si trasformano immediatamente in perdite di Pil superiori,
in percentuale, ai tagli stessi. Per i quali, insomma, la tenaglia
rappresentata dell'euro e dall'impossibilità di praticare politiche pubblici
anti–cicliche può essere rotta solo da scelte che al momento possono
apparire “rivoluzionarie”. E per lo scenario attuale, indubbiamente, lo
sono.
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