Luigi Zanon, un imprenditore italiano, aprì una fabbrica di ceramica a Neuquén,
in Patagonia, nel 1979. Era un uomo noto in Argentina, la sua famiglia
aveva messo su a Recoleta, a quattro passi dal cimitero dove riposa
Evita, il parco dei divertimenti più grande del continente: l’Italpark.
Zanon era un tipo sciovinista, nel logo della fabbrica spiccava il
tricolore e sia gli ottovolanti che i forni dove cuocere la ceramica
erano made in Italy. Nei primi anni la fabbrica ottenne enormi
finanziamenti pubblici e Zanon, grande amico del regime, non faceva
altro che ringraziare il dittatore Videla
per aver reso l’Argentina un paradiso per investire. Se Zanon faceva la
bella vita lo stesso non si poteva dire dei suoi operai ai quali
toccava sgobbare in fabbrica 16 ore al giorno senza diritti né
sicurezza.
Esiste al mondo qualcosa che sia peggio di un lavoro alienante? Certamente: perderlo.
Gli anni ’90 non iniziarono troppo bene né per Zanon e né per
l’Argentina. Mentre Brehme trasformava un rigore piuttosto dubbio
facendo impazzire di gioia la Germania appena riunificata e disperare
Maradona e compagni, Roxana Celia Alaimo, una ragazzina di 15 anni,
perdeva la vita su una giostra dell’Italpark che da anni non riceveva
manutenzione. Il parco venne chiuso immediatamente ma la fabbrica di
Neuquén, anch’essa teatro di morti assurde tra gli operai, non venne
neppure ispezionata.
Nel 1994 mentre il Presidente Menem
obbediva agli ordini di Washington inaugurando la stagione delle
privatizzazioni, Jorge Sobisch, Governatore della Provincia di Neuquén,
andava controtendenza finanziando la fabbrica Zanon con 5 milioni di
dollari: quattrini pubblici che il Patron si mise in tasca
bellamente al posto di reinvestirli in innovazione dando di fatto il via
allo smantellamento dell’industria. Cominciò a licenziare, a vendere
macchinari, a dismettere intere aree della fabbrica. «C’è crisi» ripeteva Zanon, «non posso fare diversamente».
Gli operai avevano paura ma non sapevano come muoversi, erano soli,
non c’era un sindacato, non avevano mai scioperato, neppure si
conoscevano tra loro. Lavorare a ritmi massacranti e a piccoli gruppi
non aveva mai dato loro modo di riunirsi, ma un giorno venne presa una
decisione che avrebbe fatto la storia: giocare a pallone! Fu un
campionato di calcio l’inizio della rivoluzione.
Ogni domenica gli operai iniziarono a darsi appuntamento su un
campetto di periferia. Sudavano, litigavano per un fuorigioco, si
insultavano, insomma diventavano amici e quando nel 2000 un altro
ragazzo perse la vita in fabbrica gli operai della Zanon erano diventati
un gruppo e seppero reagire. Daniel, così si chiamava il ragazzo, ebbe
un attacco cardiaco appena entrato in fabbrica e venne portato in
infermeria, gli fu dato l’ossigeno ma la bombola era vuota. La morte di
Daniel mostrò con chiarezza quanto per il Patron valessero le vite dei suoi operai.
Iniziarono gli scioperi, le assemblee, le rivendicazioni, gli operai
della Zanon vinsero le elezioni del sindacato ceramista della provincia.
Il Patron rispose con nuovi licenziamenti e smettendo di
pagare gli stipendi fino a che, nel 2001, decise di chiudere
definitivamente la fabbrica.
Quando gli operai trovarono i cancelli sbarrati restarono sbigottiti, da mesi senza stipendio e ora senza lavoro.
«E adesso cosa facciamo?» disse qualcuno.
«E che possiamo fare, entriamo e lavoriamo».
Sfondarono i cancelli e fecero la sola cosa che sapevano fare: produrre ceramica.
Duecento lavoratori che per una vita avevano ubbidito al padrone,
pieni di paura e inesperti nella gestione di una fabbrica scelsero di
rischiare. Mettere in moto i forni autonomamente era un affronto non
soltanto a Zanon ma ad un intero sistema e per questo gli operai vennero
ostacolati in ogni modo. Spinti da Zanon i fornitori smisero di
consegnare le materie prime, la moglie di un operaio venne rapita e
picchiata a sangue, gli ordini di sfratto si susseguirono. Furono mesi
complicati per gli operai, gli fu persino interdetto l’utilizzo del nome
Zanon per vendere la ceramica, tuttavia, reagirono colpo su colpo.
Fecero delle collette per comprare i materiali (sabbia e argilla gli
venne regalata da gruppi di indigeni Mapuche,
anche loro in lotta per la sopravvivenza), istituirono un sistema di
sicurezza interna per evitare sabotaggi e crearono una nuova
cooperativa, la FASINPAT (Fabrica Sin Patrones – Fabbrica Senza
Padroni). Nel 2003 il sistema si arrabbiò sul serio. Centinaia di
poliziotti arrivarono in fabbrica per cacciare gli “abusivi” ma gli
abitanti di Neuquén si mossero a sostegno degli operai. Cinquemila
cittadini circondarono la fabbrica facendo da scudo, c’erano vecchi e
bambini, uomini sulle carrozzelle, tutti uniti per dire basta alle
ingiustizie. La polizia fu costretta al ritiro.
Oggi la FASINPAT, o Ceramica Zanon, esiste ancora, nessuno è riuscito a sfrattare gli operai. Il Patron
diceva che non sarebbero stati in grado di fare nulla da soli, che
avrebbero fatto esplodere i forni, che senza esperienza la fabbrica
avrebbe chiuso in un anno. Non è andata così. In 12 anni di controllo
operaio la produzione è aumentata, gli incidenti sul lavoro sono scesi
del 95% e sono stati assunti oltre 200 nuovi lavoratori tra in quali
anche la mamma di Daniel. Gli operai della Zanon non si limitano
soltanto alla produzione, non si sono dimenticati della solidarietà alla popolazione e hanno a cuore il benessere dell’intera società. Con
parte dei ricavi della fabbrica hanno costruito un centro di salute in
un quartiere disagiato della città, regalano piastrelle alle famiglie
che non possono permettersele, realizzano visite guidate in fabbrica con
i bimbi delle scuole della provincia per mostrargli come si produce la
ceramica e come si può cambiate il futuro. Ma non è tutto oro quello che
luccica. Nei giorni in cui visitai la fabbrica venni invitato da un
gruppo di operai che facevano il turno di notte a mangiare un asado.
Avevano improvvisato una graticola tra due enormi macchine che
pressavano l’argilla. Bevemmo fernet e cola, mangiammo la carne più
buona del mondo e parlammo a lungo. Un ragazzo mi disse che il controllo
operaio significava avere maggiori responsabilità ma stesso stipendio,
che se era vero che si sentivano liberi era altrettanto vero che
dovevano pensare a un mucchio di altre cose oltre al lavoro. «A questo punto era meglio sotto padrone» mi confidò alla fine della chiacchierata. Durante una riunione del sindacato ceramista ascoltai una frase che mi colpì molto: «lo schiavo difende il padrone perché non conosce altra condizione».
E’ vero, tuttavia anche chi ha conosciuto una condizione differente a
volte preferisce la tranquillità dell’assenza dell’impegno. La
mediocrità può essere una strada comoda. Una delle cuoche della fabbrica
mi disse che finalmente poteva esprimere le sue idee, che in assemblea
veniva ascoltata e che questa era la ricchezza più grande del controllo
operaio. Già, una ricchezza ma anche un peso, una responsabilità enorme.
Essere protagonisti del proprio futuro fa tremendamente paura, la
libertà fa paura, averci a che fare è una lotta continua, uno sforzo
sovrumano. Essere liberi significa non essere passivi, significa
prendere in mano la nostra vita. E’ tosta ma vale la pena provarci.
Non ho raccolto questa storia perché penso che le proposte che ci arrivano dal Latino America vadano applicate tout court
anche in Europa. Ognuno ha i propri tempi, il proprio percorso e le
proprie peculiarità. Tuttavia la vittoria degli operai della Zanon (nel
2009 il governo di Neuquén gli diede ragione e firmò un documento
rivoluzionario che sanciva l’espropriazione della fabbrica al vecchio
Zanon e la consegna alla cooperativa FASINPAT) dimostra quanto sia
necessario mettere in discussione il pensiero dominante, quello che
continua a ripeterci che l’unico modo per affrontare la crisi sia
tagliare lo stato sociale, che una fabbrica non può essere gestita dagli
operai e che per fare politica occorra essere dei professionisti. Io
non ci credo più al pensiero dominante. Non li ascolto più i fatalisti
che mi spiegano che un progetto non può essere realizzato perché nessuno
ci è mai riuscito e che cambiare il mondo è un’illusione. Gli operai
della Zanon ce l’hanno fatta, sono i padroni di una grande fabbrica,
sono gli artefici del loro destino. E’ stata dura, come scalare una
montagna, ma se ci pensate bene per farlo basta mettere un piede dopo
l’altro.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento