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29/01/2013

Aldo Giannuli - Una campagna elettorale diversa: l’azionariato dei dipendenti

Dalla Confindustria alla Fiat, sino alla Lista Monti (non che il percorso sia tanto lungo!) molti chiedono la crescita della produttività del lavoro per reggere la concorrenza sul mercato globale. Niente di nuovo: si sta cercando di abbassare il costo unitario per prodotto, pagando lo stesso salario, musica vecchia. Comunque, il problema di reggere la concorrenza dei paesi emergenti, dove il costo del lavoro è seccamente più basso (sia per i livelli retributivi, sia ed ancor di più per i cambi valutari) non è un problema inventato ma reale. E, dunque, può anche starci il fatto che cerchiamo di abbassare il costo unitario per prodotto. Però: dove sta scritto che questo deve produrre solo profitto per l’imprenditore?
Certo, se all’incremento produttivo corrispondesse un aumento di paga più o meno corrispondente non avremmo fatto molto: avremmo solo ammortizzato un po’ di impianti.  Ma questo non vuol dire che i lavoratori debbano solo offrire una quota di forza lavoro eccedente a titolo gratuito. Ad esempio, questa ulteriore prestazione di lavoro potrebbe essere – almeno in parte – compensata in forma di azioni e, in futuro, è possibile pensare che una parte degli aumenti salariali venga corrisposto sotto forma di azioni, quel che non presuppone un esborso da parte dell’impresa, ma compensa il lavoratore associandolo agli utili ed al potere decisionale di impresa. Intendiamoci: non intendo dire che ogni singolo lavoratore riceva un piccolo numero di azioni, ma che le azioni vengano conferite solidarmente all’intera maestranza che la gestisce collettivamente attraverso i suoi rappresentanti , inoltre penso ad azioni non vendibili, perché lo scopo non è quello di trasformare queste azioni in un po’ di salario aggiuntivo, ma quello di espandere il peso decisionale dei lavoratori.

E, infatti, gli eventuali dividendi sarebbe bene che fossero maggioritariamente reinvestiti in azioni e solo in parte minore data come utile aziendale ai singoli lavoratori.
Questo significherebbe che i lavoratori acquisterebbero una crescente capacità decisionale sulla scelta del management (in fondo, il manager è un dipendente della proprietà e non il proprietario dell’azienda). Sulla retribuzione dei manager (dove sta scritto che lo stipendio del manager non debba essere calcolato nel costo del lavoro come il salario dei lavoratori e, quando necessario, tagliato); soprattutto, la rappresentanza dei lavoratori in consiglio di amministrazione potrebbe intervenire su eventuali decisioni di delocalizzazione, chiusura di reparti, “creazione di valore” ecc.

Vi sembra una proposta troppo audace, al limite della rivoluzione bolscevica? Negli anni settanta qualcosa di molto simile venne proposto dalla socialdemocrazia svedese, si chiamava piano Meidner. Non mi direte che la socialdemocrazia svedese era un covo di bolscevichi!

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