Presenti sotto una neve sempre più fitta al cimitero nuovo di Goviolo, alle porte di Reggio Emilia, c’erano i sopravvissuti del partito armato e c’erano anche coloro che rapirono e uccisero lo presidente della Democrazia Cristiana. Tra i nomi noti, Renato Curcio, Piero Bertolazzi, Bruno Seghetti, Barbara Balzerani, Raffaele Fiore, Angela Vai, Francesco Piccioni e il reggiano Tonino Paroli. Ma sono stati ricordati anche i “compagni” assenti, la maggior parte, che non hanno potuto partecipare perché limitati dalle misure alterative al carcere o in qualche caso dalle precarie condizioni di salute, come Mario Moretti, Giovanni Alimonti, Nicola Pellecchia, Sandro Padula, Paolo Persichetti e Silvia Baraldini, l’attivista condannata nel 1983 da una corte statunitense – ed estradata in Italia nel 1999 – per associazione sovversiva nonostante si sia sempre proclamata innocente.
Comunque, per presenti e assenti, la commemorazione civile – iniziata dopo che il feretro è stato portato a braccia anche dagli ex brigatisti ed è stata fischiettata L’Internazionale – non è stata solo per Gallinari. Si è estesa ai militanti morti negli anni Settanta e nel decennio a seguire. Sono stati ricordati tanti nomi, tra i quali quelli di Mara Cagol, la moglie di Curcio, Luca Mantini, Claudio Carbone e Tonino Micciché. “Dalle prigioni non potevamo essere presenti”, ha detto Oreste Scalzoni, uno dei fondatori di Potere Operaio. “Prospero Gallinari ci ha offerta questa occasione”.
Un’occasione non mancata dalle organizzazioni di movimento odierne, come Infoaut.org, il centro sociale torinese Askatasuna, l’Anppa (associazione nazionale partigiani perseguitati antifascisti) di Reggio Emilia, i No Tav e No Muos che hanno inviato mazzi di fiori poco appariscenti dato che erano state chieste donazioni a Emergency. Si parla di ideali pre e post Sessantotto tanto tra i giovani che gli anziani. Ma non si accenna agli episodi più drammatici, a iniziare dal caso Moro che cambiò la storia italiana. “Non si possono raccontare quei fatti in due parole”, taglia corto Piero Bertolazzi calandosi le lenti scure sugli occhi. Gallinari era stato accusato di averlo ucciso, il prigioniero scudocrociato, ma Mario Moretti se ne attribuì la responsabilità. E ricorda ancora Scalzone quel “preferisco di no” quando l’ex Br veniva sollecitato a difendersi dal sospetto di essere stato lo sparatore.
“Gallinari diceva che siamo sconfitti, ma non depressi”, ricorda Angela Vai, anche lei con un passato nelle Brigate Rosse e compagna di Raffaele Fiore, l’uomo a cui il 16 marzo 1978, nell’agguato di via Fani, si inceppò la mitraglietta e allora prese Aldo Moro tirandolo fuori dall’auto su cui era scortato. E intanto l’avvocato di Gallinari, Vainer Burani, mostra agli intervenuti ai funerali i messaggi giunti da lontano. Come quello che proviene dal Salvador e che è firmato da Mauricio El Solido, nome di battaglia di uno dei leader guerriglieri di quel Paese.
Infine Burani torna sulla questione autopsia, disposta dal pubblico ministero Valentina Salvi dopo la morte di Gallinari, avvenuta il mattino del 14 gennaio. “L’esame al momento sembra confermare l‘arresto cardiaco e le cause naturali del decesso”, afferma il legale del brigatista. “L’accertamento aveva più che altro lo scopo di stroncare eventuali dietrologie, se non fosse stato compiuto”. Jan Jansen, il medico che lo aveva in cura dal 1996, anno in cui la pena di Gallinari era stata sospesa ragioni di salute, concorda. “Era un paziente con un trascorso fatto da gravi problemi vascolari e ischemici”, dice, “in ciò che è accaduto non c’è nulla che mi porti a pensare a niente che non sia un decesso causato dalla sua storia clinica”.
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