Così l'apprendistato, lo strumento principale della Fornero per l'imposizione della flessibilità in entrata, viene ricondotto, senza fingimenti, alla propria cornice naturale, quella di essere un contratto schiavitù: inserire nel mondo del lavoro un esercito di giovani tra i 16 e 29 anni con contratti a termine sottopagati perché inseriti fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante.
Questo già si
intuiva nel testo della Riforma Fornero che apportava sostanziali
modifiche alla disciplina dell'apprendistato. Se prima il rapporto tra
apprendisti e dipendenti stabili specializzati era di uno a uno, con la
Fornero il rapporto diventa di tre apprendisti ogni due dipendenti
stabili, portando a un' evidente insostenibilità dei fini formativi.
Addirittura, qualora un'azienda non disponga di dipendenti qualificati,
può comunque assumere tre apprendisti. Inoltre, se la riforma Fornero
già praticamente uniformava la durata dei contratti di apprendistato,
stabilendone la durata minima – e dunque media – di sei mesi, la
circolare del Ministero stabilisce ora che le procedure per
l'applicazione di misure sanzionatorie per i datori inadempienti
rispetto ai fini formativi possono essere avviate solo dopo il primo
anno di lavoro da apprendista senza apprendistato. Come dire: tutti
(sotto)pagati da apprendista per sei mesi senza obbligo di formazione
alcuna.
Leggendo con più attenzione
la circolare emergono altri importanti aspetti. Viene chiarito che gli
ispettori, prima di applicare le sanzioni – a partire, come detto, dal
secondo anno – dovranno identificare l'effettiva responsabilità del
datore di lavoro. Solo laddove il datore di lavoro è esclusivo
responsabile della parte formativa gli ispettori potranno procedere al
sanzionamento della violazione. Appare chiaro che difficilmente sarà
possibile identificare questa responsabilità esclusiva. Infatti,
nonostante le ampie facilitazioni contributive concesse ai datori di
lavoro nell'adozione dei contratti di apprendistato, l'effettiva
diffusione di questi particolari rapporti di lavoro si sta avendo negli
ultimi anni nell'ambito di ampi programmi, per lo più regionali, di
promozione dell'occupazione giovanile.
Dove
il pubblico, istituzionalmente, per la fragilità dell'apparato
produttivo e imprenditoriale del paese, si assume il compito di
omogeneizzare una forte base di precariato giovanile per il mercato del
lavoro italiano, emerge allora la necessità di identificare con
chiarezza gli agenti responsabili della svalorizzazione delle nostre
capacità. Programmi regionali per la formazione lavorativa o percorsi di apprendistato nelle università,
costituiscono esempi lampanti di dispositivi pubblici di "produzione di
precarietà". I soggetti politici e istituzionali interpreti di questi
strumenti sono le nostre controparti immediate e ben riconoscibili. In
quanto tali sono anche l'oggetto collettivo del nostro rifiuto e dunque
la condizione della nostra unione, a dispetto dell'immaginario
solipsistico – propagandato da tutti i nostalgici lavoristi – del
soggetto a reddito e rapporto di lavoro intermittente ma che sappiamo
essere continuativamente produttivo nelle sue relazioni sociali. Ciò che
infatti risulterà determinante, in ogni contesto di conflittualità
contro la precarietà, sarà la capacità di organizzare socialmente
l'eccedenza del nostro produrre contro i dispositivi che invece mirano a
impoverirlo e a svalorizzarlo.
Proprio per questo, Elsa, non basta Fiorello a farci credere che meglio di così non si può.
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