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17/01/2013

L’agenda politica del debito

di Antonio Tricarico, pubblicato su Il Manifesto del 9 gennaio 2013

Mentre il dibattito elettorale nostrano non approfondisce affatto la questione del debito pubblico, dando quasi per assodato che uno spread più docile rispetto ai Bund tedeschi sia sostenibile – si tratterebbe “soltanto” di 50 miliardi di Euro da pagare in interessi ogni anno nel lungo periodo – all’estero la questione della risoluzione del debito pubblico degli Stati sovrani domina l’agenda politica.

Negli Usa si è schivato il cosiddetto baratro fiscale con un accordo di austerità all’europea. Ovvero più tasse per ricchi e fasce medie e tagli lineari alla spesa in ogni caso, fattori che potrebbe rallentare la ripresina dell’economia a stelle e strisce. Ma oltre Oceano il vero tema rimane il tetto massimo possibile per il debito pubblico, su cui il Congresso dovrebbe deliberare entro marzo.

Per aggirare i veti dei repubblicani il Tesoro Usa potrebbe usare una vecchia clausola costituzionale che permetterebbe di coniare “monetone” in platino per alcuni trilioni di dollari e così finanziare la spesa pubblica. Storie da Paperone e banda bassotti, a quanto pare prese sul serio da commentatori e think tank vicini ai democratici.

Ancora più realistico sembra il dibattito che è rinato nel Fondo monetario internazionale sulla necessità di creare un meccanismo per la ristrutturazione del debito sovrano – in acronimo Sdrm. Nel 2002, in seguito al drammatico default dell’Argentina, il vice direttore del Fondo Anne Krueger propose la creazione di questo nuovo meccanismo di arbitrato.

Uno strumento che avrebbe dato potere al singolo paese insolvente di azionare unilateralmente una clausola di moratoria e convocare un tavolo paritario con tutti i creditori, pubblici e privati, per rinegoziare il debito. Allo stesso tempo, lo Stato in difficoltà avrebbe potuto continuare a beneficiare dell’accesso al credito dalle istituzioni internazionali.

Di fatto tale meccanismo, seppur ancora sbilanciato e criticabile nella versione proposta dall’Fmi, avrebbe creato un diritto pubblico fallimentare internazionale, che oggi manca. Il tutto sulla base del modello del famoso “capitolo 11” del diritto fallimentare statunitense, che prevede già un meccanismo di bancarotta ordinata per gli enti locali nell’ambito del sistema federale.

La recente crisi in Grecia, l’esperienza virtuosa islandese di rinegoziazione sostenuta dallo stesso Fmi e il risorgere del problema del debito argentino con i creditori privati (dopo che fondi avvoltoi si sono ripresentati a distanza di 10 anni per richiedere un pagamento del debito pregresso e già ristrutturato) hanno mostrato che la bocciatura dell’Sdrm nel 2002 in seguito alle pressioni delle banche americane e del veto di Bush va riconsiderata.

In particolare, le “clausole di azione collettive” inserite nei contratti di acquisto dei titoli di Stato non sono state sempre sufficienti a garantire l’attuazione del negoziato di ristrutturazione per tutti i creditori, anche quelli dissenzienti seppur in minoranza.

Rispetto a dieci anni fa sono cambiati anche gli equilibri geopolitici a livello globale e forse vedremo nuove dinamiche, soprattutto perché la crisi europea è ben lontana dall’essere risolta. Un tema che forse i paesi del Sud Europa dovrebbero da subito fare loro, imparando da chi nel Sud globale ha avuto il coraggio di sfidare il diktat del pagamento del debito.

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