Ormai si avvicinano le scadenze in vista delle elezioni e, forzatamente, il quadro politico inizia a prender forma; pertanto, non è male fare il punto della situazione occupandoci per ora delle liste di sinistra.
RIVOLUZIONE CIVILE: le associazioni ed i
movimenti riuniti in “Cambiare si può”, a cominciare da Alba, si sono
ritirate; dopo aver constatato che (come era prevedibilissimo dati anche
i tempi stretti) le decisioni erano prese nel comitato ristretto
composto da Ingroia e dai leader di Rifondazione, Idv, Pdci. Contro
quanto era stato fatto balenare, sia Di Pietro, sia Di Liberto, sia
Ferrero saranno candidati; il simbolo è molto debole e gioca tutto sul
nome di Ingroia che, dal canto suo, propone una serie di nomi
rispettabilissimi, ma tutti espressione del movimento antimafia, il che
sottolinea il carattere monotematico che la lista va assumendo.
Ingroia –in una intervista al ”Corriere della sera” del 4 gennaio-
propone una intesa sia a Grillo che al Pd, perché il primo “non va
demonizzato come l’antipolitica” ed il secondo “non va demonizzato come
la partitocrazia”. Ma di che stiamo parlando? Se si tratta di una intesa
politica ma non elettorale, ci sarà tempo per discuterne dopo le
elezioni e vedremo che margini di intesa ci saranno; ma se stiamo
parlando di una intesa elettorale, che significa? Che Ingroia recede
come candidato premier per confluire in una coalizione? O che si tratta
solo di qualche regione al Senato? Lascia molto perplessi, in questo
caso, la disponibilità ad allearsi tanto con Grillo quanto con il Pd,
che non mi pare siano la stessa cosa. Pur essendo convinto dall’inizio
(ed i lettori di questo blog lo sanno) che i tempi erano tali per cui
non ci sarebbe mai stata una vera aggregazione di movimenti,
associazioni ecc, con regole realmente democratiche, speravo, però, che
fosse qualcosa di più del riciclaggio di Rifondazione, Idv, Pdci ecc.;
ma se la lista è questa strana miscela di pm e di ceto politico
residuale, auguri: votatevela voi. Tanto, Ingroia assicura che i
sondaggio gli danno il 5% e quindi non c’è bisogno del mio voto.
SEL: schiacciata ai margini della
coalizione, rischia di fare la fine del parente povero di cui ci si
vergogna un po’, se non trova qualcosa che la differenzi nettamente –pur
nei limiti della compatibilità di appartenenza alla coalizione- rischia
di ridursi ad una appendice del Pd si e no sopra il 2%. Di suo ci ha
messo l’incredibile vicenda toscana per cui i risultati delle primarie
non contano nulla e le liste si fanno col solito bilancino partitico.
Girava una battuta: SEL? SE Li scelgono loro. Auguri!
PD: Discreto l’effetto delle primarie
per i candidati, che ha dimostrato una certa vitalità del partito, vento
in poppa nei sondaggi e nella percezione del clima da parte della
gente. Sembra quasi impossibile che perda, ma sino all’ultimo non si può
dire. Anche perché definire ondivago il comportamento del Pd è come
chiamare brezza lo tsunami: a destra ci sono i montiani puri legati a
Renzi che, però, non vogliono uscire dal partito (anche perché fiutano
odor di vittoria) a sinistra c’è Fassina che, sin da settembre ha
esplicitamente proposto di “rottamare l’agenda Monti. In mezzo sta
Bersani che dice che la candidatura Monti è inutile perché l’Agenda
Monti è già nel programma del Pd che, però, vuole modificare con
imprecisati correttivi in nome dell’equità e dello sviluppo. Intanto, va
a pranzo con Renzi per blindare il partito sul fianco destro arginando
emorragie filo montiane ed, allo stesso scopo, mette in lista il prof.
Dell’Aringa, però, nello stesso tempo difende Fassina dalle intimazioni
montiane (“Bersani faccia tacere Fassina”) sia perché i candidati della
sinistra del partito sono stati quelli che sono andati meglio, sia
perché cerca di coprirsi il fianco sulla sinistra per arginare fughe
verso Grillo e –in misura ridottissima- verso gli arancioni. Insomma
“Votateci per farci vincere: dopo scoprirete cosa avete votato”.
Comunque, per ora sembra che perdere sia la “Missione impossibile” di
Bersani. Ci riuscirà?
Il rischio serio è al Senato: se la
coalizione perde, oltre che in Veneto, anche in Lombardia può scordarsi
la maggioranza dei seggi. E lì inizierebbero i problemi. Certo, potrebbe
esserci l’allargamento della coalizione a Monti, ma non è detto che Sel
ci stia. Ed, allora, ad esempio, se mancano 7-8 seggi per la
maggioranza, e la lista Monti ne porta 16, ma se ne va Vendola con i
suoi 9-10 senatori, stiamo al punto di prima. Per cui, questo è il
“tallone di Pier Luigi”.
Domani ci occuperemo di Monti, il vero nemico da battere in queste elezioni.
Verso le elezioni. Monti: il nemico da battere
Per quasi un ventennio, la sinistra ha
avuto il suo nemico di elezione nel Cavalier Berlusconi, giungendo a
forme di odio feroce ed irrazionale. Sicuramente, c’erano ottime ragioni
per detestarlo: per la sua volgarità, il suo cinismo, la sua assenza
del benché minimo scrupolo morale, per il suo malcelato odio per la
cultura, per il suo debordante egocentrismo, per il suo autoritarismo e
potremmo proseguire anche per tutta la pagina. Il punto è che l’odio è
un pessimo consigliere, soprattutto in politica. Impedisce di valutare
razionalmente le cose ed ha una serie di “effetti collaterali” del tutto
indesiderabili.
Uno di essi è la “rivalutazione per
riflesso” di altri soggetti, che non sono affatto migliori di quello
odiato, ma che lo diventano perché li si vede come potenziali alleati. A
beneficiare di questo irragionevole credito è stata spesso la Lega (in
particolare dal suo “ribaltone” del 1995) a lungo vezzeggiata,
corteggiata e mai seriamente combattuta per il suo ruolo eversivo e
reazionario. Anzi, la sinistra ha finito con l’esserle subalterna,
mutuandone interi pezzi di cultura politica, come dimostra la
sorprendente conversione al “federalismo” che produsse la scellerata
riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal governo Prodi.
In tempi più recenti, a beneficiare
della “rivalutazione per riflesso” è stato Mario Monti ed il suo governo
di commessi del Gran Capitale, impropriamente definiti “Tecnici”. Nei
suoi tredici mesi di vita il governo Monti ha realizzato più
contro-riforme di quante ne abbiano prodotte gli otto anni dei governi
Berlusconi (dalle pensioni, all’articolo 18 della l. 300, per citare
solo i casi più noti). Soprattutto, il governo dei bocconiani ha imposto
una politica economica di brutale esazione fiscale e taglio della spesa
sociale, che non ha precedenti nella storia dell’Italia repubblicana.
Tutti questi provvedimenti sono stati
sostenuti dall’appoggio del Pd, molto più convinto ed acritico di quello
del Pdl che, almeno, esibiva una calcolata ritrosia. Bersani non ha
esitato neppure a mettersi contro la Cgil, ma questo non ha evitato il
paradosso per il quale la maggioranza degli italiani hanno percepito il
governo Monti come un governo “di sinistra”. In questo rovesciamento del
senso –colpevolmente assecondato dal gruppo dirigente del Pd- la
sinistra moderatissima di Fassina e Vendola sarebbe conservatrice,
mentre il “riformismo” sarebbe rappresentato dal verbo liberista della
feroce disuguaglianza sociale. Anzi Monti si definisce non “moderato” ma
un “riformista radicale”, ed ha qualche ragione, perché lui ed i suoi
non sono moderati: sono i “talebani del Capitale”. Gli esponenti di
questo governo di pretesi tecnocrati hanno ripetutamente offerto la
prova della loro qualità umana con battute come quella sugli “sfigati
che a 28 anni non sono laureati” o i “giovani troppo choosy”, che
rivelano l’arroganza del privilegio contrabbandato per merito.
Colpisce che il gruppo dirigente del Pd
non abbia colto tutto questo e non abbia provato nessuna ripugnanza per
questi compagni di viaggio.
Oggi il maggiore partito della sinistra
–candidato quasi sicuro alla vittoria- non esita a far sua l‘agenda
Monti e promettere quelle stesse “riforme”.
Monti ha goduto di un eccezionale
riflesso psicologico a suo favore: al suo comparire, è parso come il
“liberatore” che ha cacciato Berlusconi da palazzo Chigi e tutta la
tifoseria anti berlusconiana gli ha volentieri perdonato molte colpe.
Ma, diciamocelo, per quanto fosse infima la qualità della corte
berlusconiana, i “bocconiani” sono molto più spregevoli. E, lo sguaiato
populismo berlusconiano è cento volte preferibile all’algido odio di
classe di questi lacchè delle banche. Berlusconi non ha mai usato i toni
sprezzanti di una Fornero o di un Martone, perché è uomo che viene dal
nulla e si è fatto da solo –lasciamo stare come!-, i montiani sono nati
nella bambagia e sono convinti che questo sia un merito. Cosa ne sanno
questi signorini di cosa significa studiare la notte perché di giorno
bisogna fare tre mestieri precari, per mettere insieme qualche centinaio
di euro? Hanno idea di che significa fare un concorso senza nessuna
spinta e vedersi passare avanti fior di bestie blasonate? Hanno mai
provato la durezza della fatica o il maltrattamento di un caporeparto
isterico? Sanno cosa significa far le capriole per pagare un mutuo? E,
allora, di che merito parlano?
Dunque, non ci fossero altre ragioni per
individuare nella lista Monti il primo nemico da battere, basterebbero
queste di natura antropologica. Ma ce ne sono anche di ordine più
propriamente politico: il “montismo” (dedicheremo diversi pezzi
all’analisi critica della sua “agenda”) è anche una linea di politica
economica che ci porta dritti alla catastrofe. In 13 mesi di governo,
abbiamo registrato una recessione di oltre due punti che, per riflesso,
ha portato il debito al 126% del Pil dal 121% iniziale. Non sembrano
dati di cui andar fieri e tutte le previsioni dicono che nel 2013 saremo
ancora in caduta: nonostante la grandinata fiscale, la situazione non è
migliorata ma peggiorata. Unico risultato “positivo”, ampiamente
sbandierato con la compiacenza di tutta la stampa di regime,
l’abbassamento dello spread dai vertici toccati ne novembre 2011. Un
risultato tutto sommato modesto (il picco di quasi 600 era con ogni
evidenza eccezionale mentre bisognerebbe avere come parametro un valore
più “medio” di quel periodo che oscillava fra i 400 ed i 480) se si
considera che ci si è attestati intorno ai 300 punti (cioè 100-150 in
meno rispetto alla media dell’autunno precedente) e che questo è rimasto
sensibilmente al di sopra dei valori del periodo precedente alla crisi
di ottobre-novembre 2011.
Ma, soprattutto, un risultato solo in
parte ascrivibile a merito di Monti, perché hanno inciso altri due
fattori: la copiosa emissione di liquidità della Bce e la “tregua
elettorale” dei mercati finanziati in attesa delle elezioni prima
francesi e poi americane. Vedremo ora come evolverà la situazione. Nel
frattempo osserviamo che il debito è tutto là, intatto, e la torchiatura
fiscale è servita essenzialmente a pagare gli interessi.
Possiamo parlare di fallimento del
governo Monti? Si e no. Certamente si se l’obbiettivo era quello
dichiarato: risanare le finanze pubbliche italiane e rimettere in moto
la crescita economica. Ma era davvero questo l’obiettivo o si trattava
solo della copertura di ben altro fine? Se quello che si cercava era la
garanzia dei creditori, la stabilizzazione dell’Euro, del sistema di
potere attuale ed, in particolare, la salvaguardia degli interessi
tedeschi, non si può dire che il governo Monti abbia fallito; anzi, per
ora l’obbiettivo è raggiunto, anche se questo ha significato il massacro
della nostra economia –ma cosa volete che gliene importi?-.
Ora la lista Monti punta a completare
l’opera iniziata a garanzia dei poteri forti: loro sanno perfettamente
di non avere alcuna speranza di vincere alla Camera e sarebbe già un
clamoroso risultato (ad oggi molto distante dalla realtà) se arrivassero
secondi e non terzi. Lo scopo è un altro: diventare determinanti al
Senato, dove si spera che la coalizione di Bersani non conquisti la
maggioranza. Il bersaglio ulteriore è quello di ottenere un numero di
seggi che renda irrilevante Sel che, così potrebbe essere sbarcata, per
consentire un pieno accordo Pd-Monti. E per questo secondo esito
occorrerebbe conquistare una ventina di seggi a Palazzo Madama.
Considerato che:
a. nelle regioni minori (Val d’Aosta,
Liguria, Trentino, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata e
Sardegna) occorrerebbe ottenere ben di più dell’8% e che si tratta di
regioni di debole insediamento dei montiani
b. che salvo, una sorpresa siciliana, il
centro-destra montiano non dovrebbe conquistare il premio di
maggioranza in nessuna regione
questo significa che occorrerebbe
prendere mediamente 1,75 senatori nelle restanti 12 regioni, cioè una
media del 16-17% dei voti opportunamente distribuiti. Un risultato
possibile ma non facilissimo, anzi… Però è evidente che la lista unica
del centro ci proverà.
Dunque: la vittoria parziale sarebbe un
Pd privo di maggioranza al Senato costretto ad allearsi, ed una vittoria
piena rendere non determinante Sel. Vice versa, vediamo quali sarebbero
i livelli al di sotto dei quali si potrebbe parlare di sconfitta o di
disastro del centro.
Ovviamente, se Pd e Sel fossero
autosufficienti anche al Senato, questo significherebbe che l’obiettivo
principale è stato mancato –almeno per il momento-. Ma, se questo
dipendesse da un crack della destra e ad una buona affermazione del
centro (poniamo un 20-22% che rappresenta una raccolta all’80%
dell’elettorato potenziale, un risultato altissimo) si tratterebbe pur
sempre di una vittoria, perché questo significherebbe che il gruppo
montiano si avvia a sorpassare la coalizione berlusconiana, candidandosi
così alla guida della destra. Inoltre, il centro-destra montiano
potrebbe sedersi sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere
di Bersani: a consegnarglielo potrebbe essere una offensiva dei
“mercati” paragonabile a quella dell’autunno 2011 o le fratture interne
alla coalizione (non importa se sulla destra ad opera dei
renzian-montiani o sulla sinistra ad opera di Vendola e Fassina).
Se, invece, il risultato dovesse
attestarsi al di sotto del 15% sarebbe un insuccesso dichiarato, perché
vorrebbe dire che o il Pd o il Pdl hanno avuto un risultato al di là
delle previsioni e questo “cancellerebbe” politicamente l’area di Monti.
Inoltre, inizierebbe ad esserci il rischio di arrivare non terzi ma
quarti, alle spalle del M5s, il che sarebbe un segnale psicologico molto
negativo.
Al di sotto del 12% sarebbe una
Caporetto: considerato che l’Udc, negli anni scorsi, ha sfiorato il 7% e
che ora c’è anche Fini (presumibilmente con un 1,5-2%), questo
significherebbe che il ”valore aggiunto di Monti sarebbe intorno al 3%.
Se, poi, “Verso la Terza Repubblica” di Montezemolo e Riccardi (il cuore
del montismo) raccogliesse uno striminzito 5%, questo sarebbe la fine
della coalizione. Casini e Fini (che già ora stanno maledicendo il
momento in cui hanno deciso di mettersi sotto l’ombrello del Professore)
sono considerati da Monti e dai suoi “terzo-repubblichini” come alleati
che non si lavano e che è imbarazzante portare nei salotti buoni dei
poteri tecnocratico-finanziari, sono dei politici, con decenza parlando!
Se poi venisse fuori che questi professorini così pieni di sé, prendono
più o meno quanto gli odiati “politici”, l’operazione sarebbe
pienamente fallita e Udc e Fli sarebbero felici di rompere le righe alla
ricerca di intese dirette con il Pd.
Se le cose finissero così sarebbe
un’ottima cosa. Quante probabilità ci sono? Consideriamo che lo slancio
iniziale sembra già affievolito, che la Chiesta ha ridotto i suoi
entusiasmi, che i sondaggi si fanno più sfavorevoli, segnando una
crescita dei due poli maggiori ed il richiamo del “voto utile” non gioca
a favore dei terzi e dei quarti, non è impossibile una Caporetto dei
“tecnici dello strozzinaggio fiscale”.
E c’è anche da considerare che Monti si
sta rivelando simpatico come il vomito dei gatti. E in politica la
simpatia vuol dire molto…
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