A leggere i programmi dei partiti sembra che vogliano tutti le stesse cose: maggiore crescita, maggiore giustizia sociale, distribuzione più equa del peso fiscale, più occupazione, pubblica amministrazione più efficiente ecc. Sembra la fiera dell’ovvio: ve l’immaginate un partito che chieda minore occupazione, meno sviluppo, più ingiustizia sociale, e pubblica amministrazione meno efficiente? Il punto è come ottenere questi risultati? Qui i programmi dei partiti cadono nella reticenza più assoluta balbettano imbarazzati qualcosa di molto generico.
Ha iniziato Monti con la sua leggendaria “agenda” della quale ha icasticamente detto Cirino Pomicino (ministro delle Finanze quando Monti ne era consulente) che non ha una sola idea forte ed è solo una collezione di petizioni di principio. In effetti, nel famigerato documento non si trovano indicazioni concrete che non vadano in direzione esattamente opposta a quelle istanze di sviluppo occupazionale: il testo insiste sulla via del rigore che proprio non si capisce come possa accordarsi con la crescita.
Poi gli altri (Bersani, Berlusconi, Bossi e, mi spiace dirlo, anche Vendola ed Ingroia) hanno fatto di meglio cucendo parole in libertà e, in ultimo, Grillo non mi pare da meno.
Veniamo al cuore del problema: i grandi imprenditori preferiscono o investire i capitali in titoli del mercato finanziario o in impianti delocalizzati nei paesi in cui la forza lavoro costa meno. Le piccole e medie imprese sono strangolate dalla tenaglia fra costo del denaro bancario e pressione fiscale.
I giovani, che pure vorrebbero dar vita a qualche impresa, non ricevono né sostegno pubblico né credito bancario a condizioni decenti. Infine, il taglio della spesa pubblica (per quanto ragionevolmente necessario) implica anche una riduzione della committenza pubblica sul mercato. Magari non direttamente proporzionale ai tagli operati, ma comunque una riduzione ci sarà.
Morale: in queste condizioni andiamo in fallimento senza nessun dubbio. E’ ovvio che la base occupazionale si contrarrà ulteriormente, quindi diminuirà ancora il monte salari da spendere, quindi caleranno i consumi, il che metterà fuori mercato un altro pezzo di imprese, dunque l’occupazione si ridurrà ancora e così via, in un giro a spirale verso il fallimento. Anche dello Stato, intendiamoci, perché se la tendenza è questa inevitabilmente caleranno le entrate dello Stato il che renderà sempre meno credibile la restituzione del capitale assorbito dai titoli pubblici e, quindi, crescerà la pressione degli interessi e cosi via. Ovviamente sono possibili accorgimenti, deviazioni, rettifiche, modi per prendere tempo ma la tendenza di fondo resta questa.
Allora che si fa? Lasciamo da parte, per ora, il problema della riduzione della pressione fiscale e concentriamoci sul come finanziare il rilancio occupazionale. Valutiamo l’idea dell’auto imprenditorialità (o impresa autogestita). Si tratta di questo: immaginiamo il caso in cui un imprenditore decida di chiudere un’azienda o un suo reparto (magari per impegnare il capitale ricavato in una speculazione finanziaria o per delocalizzare la produzione in un paese asiatico), ma i lavoratori ritengono che ci siano i margini di mercato per resistere. In questo caso, si potrebbe, per legge, riconoscere ai lavoratori una sorta di golden share nell’acquisto dell’azienda e subentrare nella proprietà. Si porrebbe il problema di come finanziare l’acquisto e le strade potrebbero essere due (eventualmente in combinazione fra loro): o utilizzare un fondo di resistenza alimentato dagli accantonamenti Tfr o organizzata ad hoc dai sindacati (che si spera ricomincino a fare qualcosa), oppure con l’ingresso dello Stato come socio temporaneo, che acquista un pacchetto di azioni poi gradualmente ricomperato dal collettivo dei lavoratori nel tempo.
E lo Stato dove trova il denaro? Se ci fosse ancora la moneta nazionale non ci sarebbero problemi: emettendo moneta (ecco una buona ragione per pensare ad uscire dall’Euro, pur se con la dovuta gradualità), ma nella situazione in cui siamo potremmo tentare altre due strade. La prima, preferibile, è quella di utilizzare allo scopo la Cassa depositi e Prestiti (i conti postali, per intenderci) che nel frattempo andrebbe sottratta alla voracità delle banche cui la vorrebbero consegnare. L’altra strada è quella di usare i beni demaniali ed azionari destinati alle privatizzazioni non per fare questa solenne sciocchezza, ma come garanzia alla base di specifici titoli da emettere per sostenere l’auto impresa.
Ovviamente, occorrerebbe evitare pasticci clientelari per cui si vanno a finanziare cose che non hanno prospettive economiche serie e destinate a chiudere dopo aver sperperato un altro po’ di denaro pubblico. Dunque è bene studiare le opportune garanzie di controllo sulla fattibilità economica dei progetti.
Ovviamente, lo stesso metodo potrebbe essere applicato anche all’imprenditoria giovanile ed, anzi, questo appare particolarmente indicato per una generazione che non sembra amare molto il lavoro dipendente. Il punto è questo: la grande proprietà non ha bandiera nazionale e tende a non mettere radici, mentre la piccola impresa ed, ovviamente, quella posseduta da quanti ci lavorano, al contrario tende a radicarsi sul territorio. Anche per questo il graduale passaggio di parti significative di manifattura nelle mani dei lavoratori è una premessa necessaria di una ripresa occupazionale, soprattutto nel settore manifatturiero.
Fonte
Proposta davvero interessante questa.
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