Cameron promette il referendum contando sull'appeal zero della Ue. I
"quantitative easing" diventano "svalutazioni competitive" cui l'Europa
"tedesca" non sa come rispondere.
Problemi seri per l'Unione Europea. Da un lato la “guerra delle
monete”, che la vede debole nei confronti di Usa, Giappone, Svizzera,
Gran Bretagna, a causa di una banca centrale che – al contrario delle
“concorrenti” – non può emettere moneta a piacimento. Dall'altra gli
scollamenti evidenti tra interessi geostrategici divergenti, esplicitati
dal premier inglese Cameron che vuole andare al referendum per “uscire
dalla Ue” contando sulla bassissima credibilità attuale del progetto
europeo nella popolazione d'Albione.
Se vi aggiungiamo
l'altrettanto bassa popolarità presso i popoli della Ue, conseguente
alle politiche di “austerità” che ne stanno distruggendo il “modello
sociale”, il quadro non potrebbe essere più fosco.
Andiamo con ordine.
Il premier britannico David Cameron prometterà oggi che in caso di vittoria dei conservatori nelle prossime elezioni si terrà un referendum
su una eventuale permanenza o meno della Gran Bretagna nell'Unione
Europea. Circolano già stralci del discorso che pronuncerà oggi,
contenente la promessa di “rinegoziare” i termini della già scarsa e
antipatizzante partecipazione inglese alla Ue: «Il prossimo manifesto
conservatore nel 2015 chiederà al popolo britannico di dare mandato al
governo conservatore di negoziare un nuovo accordo con i partner europei
nella prossima legislatura».
La permanenza della Gran Bretagna
verrebbe condizionata a una “riforma” della Ue tale da ridurne
significativamente il potere sovranazionale sui singoli stati.
«Una volta che le nuove relazioni (tra Londra e Ue) saranno rinegoziate,
consulteremo i britannici in un referendum proponendogli una scelta
molto semplice, a favore o contro la permanenza nell'Ue, sulla base di
un nuovo accordo». «Il referendum sarà sulla questione dentro/fuori».
È evidente che i conservatori puntano sulla seconda soluzione, che al
momento troverebbe il consenso popolare; e non solo in Gran Bretagna, se
ad altri popoli fosse concessa libertà di scelta.
Ma è evidente
anche che non può essere alla lunga vincente un processo di
unificazione che prescinde completamente, nel suo percorso e nelle
politiche che vengono decise, dal consenso popolare derivante dalla
verifica dei vantaggi dell'unione. Anzi: superata la fase “romantica”
dell'apertura delle frontiere (Schengen), che sembrava davvero
archiviare secoli di guerre infracontinentali, l'andamento divergente
delle economie ha presto ridotto a ben poco lo “spirito europeistico”
delle classi popolari più svantaggiate dal fatto di possedere una moneta
unica.
E qui arriviamo alla “guerra delle monete” attualmente in fase di acutizzazione.
La crisi finanziaria esplosa tra il 2007 e il 2009 è stata tamponata a
livello globale con l'emissione a volontà di moneta (liquidità), in modo
da garantire la sopravvivenza del circuito del credito a dispetto della
patente insolvibilità di molti debiti. In questa operazione hanno fatto
la parte del leone gli Stati Uniti, ovviamente, che dal 15 agosto 1971
risolvono nell'identico modo tutti i loro problemi economici. Ma
l'emissione di una quantità incalcolabile di moneta è un privilegio
quasi soltanto yankee, perché il dollaro è dal dopoguerra la moneta dominante negli
scambi internazionali.
Giappone, Gran Bretagna e Svizzera (le
cui monete hanno costituito le uniche alternative al dollaro – per
quanto su scala infinitamente minore) hanno operato in modo simile, o
nazionalizzando banche (in Inghilterra), o regalando loro tutti i soldi
necessari (Giappone e Svizzera) anche a costo di devastare i conti
pubblici.
Solo in Europa, a causa dello statuto della Bce e
dell'orientamento dottrinario della Bundesbank tedesca, la reazione alla
crisi finanziaria è stata a lungo delegata solo ai singoli stati,
costretti a indebitarsi per “salvare le banche”, strozzando al contempo
le rispettive popolazioni per “risanare i conti”. Ma questa strategia,
lungi dal risolvere il problema, ha esposto la zona euro al più violento
attacco speculativo che la storia recente ricordi, perché è stato fin
troppo chiaro che a quel punto “l'Europa” non riusciva a parlare una
sola lingua o, più concretamente, a opporre una reazione unitaria. Gli
spread dei paesi più deboli sono decollati verso altezze siderali e
nessuna “politica deflazionistica” – vedi l'esempio greco – poteva
abbassarli.
L'attacco si è fermato quando la Bce ha “promesso”
ai mercati di immettere tutta la liquidità necessaria, accettando “in
garanzia” pezzi di carta senza valore. Non ha materialmente fatto nulla,
ma la promessa di agire come le altre banche centrali è stata
sufficiente. Non scommetteremmo però sulla tenuta dell'istituto di
Francoforte se si dovesse passare dalla promessa all'azione concreta.
Monti sa benissimo che nemmeno il suo massacro sociale “in salsa
Fornero” avrebbe abbassato di un pelo lo spread se non ci fosse stato
quel “bazooka” immaginario impugnato ad un certo punto da Mario Draghi.
Ora,
però, la crisi si è avvitata di un altro giro. La “guerra delle monete”– oltre a immettere liquidità aggiuntiva – indebolisce anche il valore
di cambio delle monete più “stampate”, contribuendo a creare un
vantaggio competitivo per le esportazioni dei relativi paesi. In una
condizione di crescita zero, o addirittura di recessione conclamata,
questo è un “aiutino” concreto all'economia reale. Lo sappiamo bene in
Italia, dove finché c'è stata la Lira si riusciva a galleggiare a forza di
“svalutazioni competitive” (anche a costo di pagare la benzina a un prezzo
crescente).
Ma se la Bce resta una “banca centrale anomala” –
obbligata, come tutte, a combattere l'inflazione, ma indifferente (al
contrario delle concorrenti) alle dinamiche di crescita e occupazione –
tutta la costruzione europea entra in fibrillazione perpetua. Perché la
crisi non ha soluzioni visibili e anche la semplice sopravvivenza è a
rischio.
La mossa inglese è chiaramente “nazionalistica”,
nel senso di proteggere il loro unico asset globale (la piazza
finanziaria di Londra), in parte “imperialista anglosassone”, nel senso
che funziona da testa di ponte anti-europea e filo-Usa. Ma evidenzia,
proprio per questo, una “rima di frattura” della costruzione europea che
non può che allargarsi nel procedere della crisi. Coinvolgendo la
tenuta dell'euro, moneta assurdamente “forte” incaricata di
rappresentare diciassette economie in recessione.
Ultim'ora: il
discorso di Cameron non è stato affatto preso bene in Europa. Il leader
dei liberali al Parlamento europeo, Guy Verhofstadt, lo ha criticato
duramente. Cameron, ha avvertito, "non puo' controllare né i tempi né
l'esito dei negoziati e facendo così crea false aspettative che non
potranno mai essere soddisfatte". Il discorso del premier britannico, ha
attaccato ancora Verhofstadt, denunciando come "stia mettendo a rischio
gli interessi del Paese per la stabilità interna del partito", è "pieno
di incongruenze e mostra un alto grado di ignoranza su come lavora
l'Ue".
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento