Quando, a fine dicembre, un Grand Jury ha deciso di non incriminare i due agenti responsabili della morte di Tamir Rice –
il dodicenne ucciso a Cleveland mentre giocava con una pistola
giocattolo – un copione prevedibile si è ripetuto per l’ennesima volta: impunità per chi ha ucciso un giovane nero; proteste per le strade contro la violenza poliziesca; appelli alla calma e alla riconciliazione da parte delle autorità cittadine.
Niente di nuovo, appunto. Queste stesse
scene – con qualche dettaglio diverso – si sono ripetute in questi mesi
ogni volta che un afro-americano è stato ucciso dalla polizia. I nomi
sono noti: Michael Brown, Eric Garner,Freddie Gray, Sandra Bland.
In una sola occasione l’agente responsabile dell’uccisione di un ragazzo nero, Laquan McDonald,
è stato incriminato per omicidio – ma dopo che è stato reso pubblico un
video che mostra l’agghiacciante sequenza dell’agente che senza nessuna
ragione scarica un intero caricatore contro Laquan.
La nuova assoluzione di Cleveland sembrerebbe dunque in linea con la triste normalità americana: quasi mai la violenza poliziesca viene punita; soprattutto quando la vittima della violenza è un afro-americano.
In realtà, qualcosa di importante in questi mesi è successo, e il 2015
verrà ricordato come l’anno che ha visto l’emergere di un movimento di giovani neri capace
non soltanto di protestare per le strade, ma anche di influenzare le
scelte politiche, di farsi ascoltare nelle stanze del potere, di
diventare insomma pensiero egemone in larghi settori della società
americana.
Il movimento ha un nome, un simbolo, un proprio rappresentante: Black Lives Matter (BLM), nato sui social media con semplice hashtag – appunto #BlackLivesMatter – dopo l’assoluzione di George Zimmerman, il vigilante responsabile dell’uccisione di un altro ragazzo nero, Trayvon Martin. Se i fondatori “ufficiali” di BLM sono tre community organizers, Opal Tometi, Patrisse Cullors, Alicia Garza,
il movimento è diventato presto un fiume che ha accolto tensioni, idee,
aspirazioni, diverse, per poi a sua volta frammentarsi in altri rivoli e
gruppi. BLM ha organizzato le proteste ogni volta che un giovane nero è
caduto – oltre ai casi già citati, quelli di Eric Harris, Walter Scott,
Jonathan Ferrell, Samuel DuBose –, ha moltiplicato i sostenitori e oggi
conta almeno 23 diversi “capitoli” in giro per Stati Uniti e Canada.
La scena della protesta nera nell’America di
questi anni non si può ovviamente limitare a Black Lives Matter, ma il
gruppo ha assunto forme e modi particolari, che ne hanno assicurato
successo e preminenza. Senza una struttura organizzata, senza leader e
portavoci ufficiali, con un uso intelligente e capillare dei social
media, BLM si è adattata come un guanto alla natura fluida,
anti-ideologica, democratica e “dal basso” della politica contemporanea.
Proprio il suo carattere aperto e in evoluzione ha permesso di
abbracciare idee e prassi diversissime: il movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, il Black Power, il panafricanismo, la cultura hip-hop e quella del movimento femminista, gay e lesbico, di Occupy Wall Street e delle primavere arabe.
I suoi simpatizzanti sono stati soprattutto i millennials,
gente nata dopo gli anni Ottanta, con scarsa o nessuna simpatia e senso
di sudditanza verso la nomenclatura del partito democratico e della
leadership nera che, proprio sotto l’egida del partito democratico, è
cresciuta e ha acquisito potere – non a caso, tra gli obiettivi delle
critiche di BLM c’è il reverendo Al Sharpton, nume
tutelare e onnipresente della politica nera di questi decenni. Con un
senso ben chiaro delle proprie radici – si veda l’uso, nei propri
slogan, di una frase, “By any means necessary”, usata da Malcom X in
un discorso a Manhattan del 1964 – Black Lives Matter è stato però
capace di costruire propri slogan e riferimenti: “If I die in police
custody, avenge my death”, “I can’t breathe”, “Hands up, don’t short”,
“White silence is violence”, tutti più o meno modellati sui casi più
recenti di Michael Brown, Eric Garner e gli altri morti afro-americani.
Non c’è soltanto questo nell’immaginario dell’attivismo di BLM. La massiccia incarcerazione di
afro-americani, a partire dagli anni Novanta, ha costituito un’altra
forte ragione di indignazione e mobilitazione. Grazie comunque a questa
miscela potente e articolata – recupero del passato e innovazione,
nessuna deferenza verso i poteri costituiti e orgogliosa rivendicazione
del sé, capacità di includere larghi settori di popolazione senza
dimenticare che la discriminazione colpisce soprattutto un gruppo,
quello degli americani neri – Black Lives Matter è riuscito a incidere e
salire alla ribalta della politica nazionale. Di più: Black Lives Matter è diventato egemone e dominante nella cultura politica nazionale.
Ci sono, a questo proposito, due fatti che descrivono bene il carattere egemone del movimento. Il primo ha come palcoscenico la University of Missouri, dove lo scorso novembre il presidente Timothy Wolfe e il chancellor R.
Bowen Loffin hanno annunciato le loro dimissioni dopo mesi di accuse e
proteste. I due – ma in fondo l’intera dirigenza dell’università – sono
stati ritenuti responsabili per aver “minimizzato” i segni di discriminazione ed esclusione razziale nel campus.
Le proteste – culminate in uno sciopero della fame e nel rifiuto di
scendere in campo della squadra di football – si sono presto allargate
dal tema razziale a quello dell’assicurazione sanitaria e dei debiti con
le banche degli studenti. Black Lives Matter ha organizzato sit-in e
marce insieme a un altro gruppo, Concerned Student 1950,
parte dell’International Socialist Organization, ed è riuscito a
ottenere non soltanto le dimissioni delle due massime cariche
dell’università, ma anche qualcosa di più profondo: il riconoscimento
che una cultura razzista e intrisa di “suprematismo bianco” circonda una delle massime istituzioni universitarie americane.
L’altro fatto illuminante è avvenuto lo scorso luglio, durante la Netroots Nation Conference di Phoenix, Arizona. I discorsi dei due candidati democratici alla presidenza, Martin O’Malley e Bernie Sanders,
sono stati interrotti da manifestanti del BLM guidati da Patrisse
Cullors. Ritmando slogan come “Burn everything down”, i ragazzi hanno
costretto O’Malley e Sanders ad ascoltare le loro rivendicazioni. Uno di
quelli saliti sul palco ha anche allargato la prospettiva storica,
spiegando che l’evento elettorale si stava tenendo su “terra indigena… i
cui confini sono stati definiti dal destino manifesto dei suprematisti
bianchi”. Il giorno dopo, invece che essere accusati di estremismo, i
dimostranti hanno raccolto il frutto concreto delle loro proteste.
O’Malley, che dal palco aveva detto che “le vite dei neri contano, ma le
vite dei bianchi e di tutti contano”, è stato costretto a scusarsi e ha
presentato un piano per ridurre la incarcerazione di massa e la
violenza poliziesca. Sanders, il candidato che corre con la piattaforma
più progressista, ha assunto un capo ufficio stampa vicino alle
posizioni di Black Lives Matter, aperto una sezione dedicata alla
“giustizia razziale” sul sito della sua campagna per la presidenza e
appoggiato la richiesta di deputati e senatori neri di bandire le prigioni gestite dai privati.
Patrisse Cullors |
I fatti del Missouri e di Phoenix non
sono isolati; prima e dopo sono stati tanti i momenti in cui gli
attivisti afro-americani hanno sperimentato le loro tattiche. Ma
Missouri e Phoenix mostrano come un pensiero di critica radicale e di
denuncia del razzismo sia uscito dai confini di élites politiche e intellettuali e abbia raggiunto la coscienza media della vita pubblica americana.
Non è più soltanto questione di denuncia da parte di minoranze
illuminate. La constatazione della realtà del razzismo e dell’odio che
uccide i neri ogni giorno per le strade d’America sono diventati temi
accettati e comuni del dibattito americano. Subito dopo le proteste di
Phoenix, l’altra candidata democratica alla presidenza, la grande
favorita Hillary Clinton, ha promesso di “mettere fine
all’era dell’incarcerazione di massa” (che peraltro suo marito, da
presidente, ha inaugurato). E in questi mesi parecchi candidati repubblicani –
da Rand Paul a Ted Cruz a Chris Christie – hanno condannato le
pene troppo severe per chi commette reati legati al piccolo commercio di
droghe (un fenomeno che riguarda soprattutto i più giovani tra gli
afro-americani). Uno dei candidati repubblicani alla presidenza, Marco Rubio,
è andato ancora più in là: intervistato da Fox News, Rubio ha
raccontato la storia di un amico afro-americano, fermato nove volte
dalla polizia nell’ultimo anno e mezzo, senza aver commesso alcun
crimine. “E’ un problema che il nostro Paese deve affrontare”, ha
spiegato Rubio.
La politica, anche quella più moderata e
conservatrice, riconosce quindi la realtà denunciata da Black Lives
Matter, e lo fa perché questa realtà è ormai un fatto accettato da
larghi settori della popolazione. Nel 2014, secondo il Pew Research Center, il 46 per cento degli
americani riconosceva che “il nostro Paese necessita di continui
cambiamenti per dare ai neri eguali diritti”. Nel luglio 2015, dopo
Michael Brown e i disordini razziali che hanno travolto tante città
americane, la percentuale che crede che il percorso verso l’eguaglianza
dei diritti sia ancora lungo è salito al 59 per cento.
Il contraccolpo, quindi, non c’è stato. L’America bianca non ha reagito
come dopo la concessione dei diritti civili di Lyndon Johnson e lo
scoppio dei disordini a Chicago e Los Angeles negli anni Sessanta. La
paura non ha vinto, la difesa della norma sociale non ha prevalso, la “maggioranza silenziosa” non si è cementata per bloccare l’allargamento dei diritti.
Mentre, in politica, il 2016 americano
promette di essere occupato dalla campagna per la successione a Barack
Obama, c’è un elemento sociale e culturale che si è dunque già imposto: l
’ascesa di un movimento afro-americano rivitalizzato,
di cui Black Lives Matter è soltanto la punta di diamante, che dopo
decenni di asfissia torna protagonista della scena americana. Non sfugge
peraltro che questo movimento è cresciuto nella fase finale del primo
presidente nero della storia. Come a dire che le speranze suscitate
dall’elezione del 2008 non sono state mantenute, che l’odio non è stato
vinto, che il pregiudizio vive ovunque, e che una classe di giovani
attivisti ha deciso di prendere in mano il proprio destino senza
aspettare concessioni da nessuno.
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