Quando l’inverno scorso era ormai evidente la crisi del sistema bancario italiano, e si poteva notare che le quattro banche “salvate” erano solo il primo gruppo di un esercito in rotta, un ragionamento balzava davanti agli occhi: questa crisi era permanente, era il riflesso di una più vasta crisi del sistema bancario europeo, che le banche non sarebbero mai più state quello che erano prima della crisi, e che le notizie che le riguardavano sarebbero scomparse dai radar dell’informazione politica prima possibile.
La questione bancaria, nell’informazione politica, fa infatti notizia o subito dopo qualche crollo azionario o quando, all’improvviso, i titoli bancari risalgono. Nel primo caso, dopo il panico, la comunicazione mediale deve rassicurare. Nel secondo deve iniettare scariche di euforia nel cervello sociale, dando l’impressione che la crisi è passata. In nessuno dei due casi si annida una risposta politica al problema, che comunque è sistemico, ma solo una gran mobilitazione, sopratutto sotterranea, di chi ha le leve del settore: investitori (quando ci sono), management e legislatori. Quando, tra convegni e riunioni, questo mondo si mobilita, ovvero quando accadono le cose importanti, l’informazione si ritrae. E’ il solito timore, proveniente da antichi processi di assoggettamento, che la sfera pubblica ha nei confronti di ciò che accade alla moneta. In un gran bel libro, Idols of the Marketplace, David Hawkes ci spiega l’origine di questo timore: nella permanenza, nel momento storico in cui il capitalismo si impone con forza, di tratti tribali, teologici nei processi di manipolazione della moneta. Processi che hanno bisogno, per compiersi, di rispetto, discrezione e mistero. Tutti elementi che l’informazione contemporanea si bada bene dal decostruire: si sta parlando di banchieri e di moneta, mica del delitto di Chiara Gambirasio. Del resto Hawkes ci parla di come l’economia politica nasca avendo come balia l’idolatria, nonostante si presenti con un volto rassicurante e razionale. Anche il fondo Atlante si presenta con questo volto ma, a parte l’idolatria dei media nazionali per un certo potere politico italiano che oggi è roba di secondo ordine, questa volta ha come balia un equivoco. Atlante sa infatti di poter essere scambiato per il fondo che regola crisi e futuro del sistema bancario. Ma sa anche che la sua vera natura, a parte le speculazioni di borsa e chi crede alla propaganda, è transitoria ed effimera. Ma cosa è Atlante? Stiamo parlando del veicolo finanziario scelto, dal governo in trattativa con i principali istituti bancari, per capitalizzare le banche che, invece, sono vicine a livelli di criticità strutturale.
Stiamo parlando di una criticità che ha due ragioni:
a) la banca in sé, non certo solo quella italiana, è un istituto che sta attraversando ristrutturazioni – tecnologiche, logistiche, economiche – pari a quelle che ha attraversato la fabbrica nel periodo del superamento del fordismo;
b) le banche scontano tutta la crisi dal 2008 ad oggi portando il fardello di tutti i crediti non più esigibili da imprese e cittadini, italiani, dall’inizio dello scoppio della grande bolla degli immobiliari americani.
In questo senso il sistema bancario, mai letto a sinistra nella sua profondità, porta con sé il sovrapporsi di crisi finanziarie, economiche e anche politiche visto che la moneta è uno strumento di governo. Crisi magari difficile anche da leggere, se si guardano i dati di Nomisma sui bilanci più redditizi dei titoli quotati a Milano nel 2015 (anno in cui la borsa ha guadagnato il 13 % rispetto all’anno precedente): MPS, che ha rating di rischio altissimi, l’anno scorso ha messo ricavi a bilancio superiori al 25%, mentre UBI Banca e Unicredit – la prima accreditata come salvatrice di MPS, la seconda come salvatrice del sistema bancario – hanno visto una contrazione significativa del volume d’affari. Non è quindi attraverso i bilanci di annata che si capiscono le crisi ma sulla struttura di business, sul peso dei crediti non performanti, sulle strategie rivolte al futuro. E il futuro, altra questione nodale, fa i conti con un immediato passato che ha visto un forte aumento del settore bancario in termini di capitalizzazione in borsa. Questo significa, in altre parole, che la borsa di Milano è sempre meno legata all’economia, per cui dovrebbe raccogliere i fondi, e sempre più alla sofisticazione della moneta e dei suoi derivati. Niente di che, nella modernità le condizioni che questo accada ci sono dalla fondazione delle borse tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Il punto è capire cosa oggi accade.Un marxista sterile direbbe che si sta tifando per il capitalismo produttivo (il settarismo scambia sempre l’analisi per tradimento), un marxista estetico direbbe che siamo al punto in cui tra capitale finanziario e produttivo non c’è differenza (è dai tempi di Marx che entrambi esprimono logiche e poteri diversi), un marxista sveglio sa che stiamo osservando, in Italia, il punto in cui il capitale si riproduce per bolle, facendo soldi con i soldi, e fa grossa fatica a riprodursi come rapporto sociale (quale è la produzione in Marx). L’altro punto è che in un paese a declino industriale, produttivo (la produzione è sempre sotto il meno 20 per cento rispetto al 2007), il presidente del consiglio può andare a inaugurare tutte le fabbriche che vuole, con i media a fare da cerimoniere, ma se la borsa capitalizza sopratutto finanziari, bancari e assicurativi siamo in fermo immagine alla fase del denaro che riproduce sé stesso. Quindi la crisi del settore bancario, quella esposta precedentemente per le due ragioni (ristrutturazione e crisi del credito), diviene non solo sistemica in sé, per le banche, ma anche sistemica rispetto al paese visto anche che le banche tengono in alto la borsa e possiedono i bond del debito pubblico nazionale. Di fronte a questa situazione, e alle nuove regole continentali che cercano di venire a capo della grande crisi delle banche europee, dopo aver “salvato” le quattro banche (filo PD) in autunno, dopo essersi fatta una legge su misura per il settore delle banche cooperative e popolari, il governo ha provato a mettere in piedi Atlante. Uno strumento di capitalizzazione delle banche in crisi, finanziato da altre banche (quindi privato) per non incorrere nel rigido regolamento della commissione europea che proibisce quelli che sprezzantemente vengono definiti “aiuti di stato” (senza i quali nessuna borsa starebbe in piedi mezza giornata, ma è un’altra storia).
Atlante che, si consenta il gioco di parole, ha avuto un andamento altalenante in borsa, è quindi frutto di equivoci costruiti a tavolino: fondo privato ma costruito dal governo (col l’aiuto della cassa depositi e prestiti); chiamato a salvare il sistema bancario ma in realtà in grado di favorire solo ricapitalizzazioni delle banche senza toccare il mare enorme dei crediti non performanti (Atlante ha consistenza di 5 miliardi, i crediti non performanti, vera spina nel fianco della banche, hanno una stima di 360 miliardi). Insomma Atlante, se va bene, serve per l’oggi, domani si vedrà. La speranza, nemmeno troppo velata, è che le misure di Draghi a sostegno del nesso banche-economia, specie quelle a partire da giugno, siano benefiche anche per il sistema bancario italiano. Il punto è che lo stesso Draghi, semplificando un po' gli esercizi di previsione del futuro prossimo, ha parlato di una nuova, possibile stagione di instabilità. Ma insomma, chi potrebbe davvero salvare tutti, almeno nel breve periodo? Lo stesso attore che ha aiutato la borsa di Milano a crescere nel 2015 ovvero le banche centrali – quella americana in primis ma anche quella giapponese – che prestano soldi a tasso zero, o addirittura negativo come nel caso del Giappone. Soldi che si depositano anche su Milano e, guarda caso, in un settore di punta della borsa nazionale come i bancari. Nonostante le chiacchiere, che a Renzi non mancano, la tattica è quindi quella di sempre: strumenti per la gestione del presente, propaganda e speranza nella buona stella dello sceriffo americano. Con una differenza: Atlante è costruito per far rimanere, quanto possibile, il controllo delle banche in mano italiana. Perché gli operai si possono dare, una volta venduto un sito produttivo, a qualche fondo cinese, malese, algerino –che poi provvederà a smaltirli magari ispirato dalla filosofia del lavoro dei paesi di provenienza – ma il potere vero deve rimanere, nei limiti del praticabile in un mondo globalizzato, in mano nazionale. Certo in due mesi, dalla crisi catastrofica dei bancari italiani a gennaio, lo stellone americano ha aiutato. La Fed ha allentato la politica dei tassi, Wall Strett è risalita dando, in sinergia, una forte mano anche a Milano, quindi ai bancari italiani. Bisognerà vedere quanto durerà questo fenomeno. Nel frattempo, tra un tentativo di Atlante di reggere per un po’ i bancari italiani e il problema del credito, non sarebbe male dare un’occhiata al futuro. Dimensione temporale che ha due certezze: la prima è che le banche, quelle che riguardano le esigenze della popolazione, sono sempre più destinate ad essere un’altra cosa rispetto ad oggi. Sia a causa dell’evoluzione tecnologica, che fa emergere altri soggetti del credito, sia a causa del fatto che nel mondo del tasso di interesse zero non hanno sicurezze quale modello di business possa farle sopravvivere (su questo in Germania, nelle riviste specializzate il dibattito è quantomeno interessante). Il secondo è che il credito alle infrastrutture, alle grandi opere, nell’Europa che va verso l’unione dei capitali, proclamato come obiettivo Ue lo scorso anno, rischia di subire una egemonia Usa che può annichilire tanti interessi nazionali, compresi quelli bancari.
Sono temi sui quali le varie sinistre, di ogni sfumatura, proprio non ci sono. Nell’accezione più radicale della parola sinistra è chiaro che se non conosci il credito, difficile prefigurare una società che esca dalla dimensione tecnologica, complessa e microfisica del credito di oggi. In quella più, diciamo, pragmatica è evidente che senza una governance, che sappia staccarsi dalla globalizzazione finanziaria, del credito il trionfo del neoliberismo è permanente. Ma capita solo di leggere proposte bizzarre, residui delle stagioni di Porto Alegre, mentre la crisi greca avrebbe anche portato sinistre lezioni dal mondo reale.
Per Senza Soste, nique la police
15 aprile 2016
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