Rimane tesa la situazione nel Nagorno-Karabakh – l’enclave a maggioranza armena staccatasi dall’Azerbajdžan a fine anni ’80 e proclamatasi Repubblica indipendente, che Baku considera territorio azero occupato dall’Armenia – dove nella notte tra venerdì e sabato si erano registrati scontri di forte intensità, mai così gravi dal 1994, con l’occupazione da parte azera di segmenti di territorio avversario.
Stamani, Stepanakert e Erevan confermano che i lanci di razzi “Grad” da parte azera sulle posizioni del Nagorno sono continuati per tutta la giornata di ieri e nella notte di oggi, a dispetto del cessate il fuoco unilaterale proclamato ieri da Baku ma che il Ministero della difesa di Stepanakert aveva definito “tranello” e “disinformazione”, pur mostrando “disponibilità a discutere proposte di cessate il fuoco nel quadro del ristabilimento delle precedenti posizioni”. Di fatto, per tutto il pomeriggio di ieri erano giunte notizie del martellamento azero, con “Grad” e artiglierie da 152 mm, sulla città karabakha di Martakert, con il danneggiamento di abitazioni e condotte del gas, popolazione costretta nei rifugi e, poco più a nord, l’evacuazione del villaggio di Matagis da parte dei civili.
D’altronde, entrambe le parti paiono tutt’altro che intenzionate a ritirare, per ora, l’intero parco di armi pesanti dispiegate sabato – ad esempio, missili tattici “Točka U” e sistemi reattivi “Smerč” – di cui Armenia e Azerbajdžan sono ben fornite. Negli ultimi anni Baku ha acquistato armi da Israele per 2 miliardi di $, oltre che da Turchia e USA, anche se il principale fornitore è la Russia, con cui Baku (uno dei suoi primi cinque maggiori acquirenti) ha un debito di 4 mld di $ per missili terra-aria “S-300PMU-2” e “Top-2ME”, elicotteri Mi-17B1, carri T-90S, artiglieria semovente “Msta-S”, sistemi “Smerč” e altro. Da parte sua, solo lo scorso anno, l’Armenia ha acquistato armi da Mosca per 200 milioni $.
Parlando di fronte al Consiglio di sicurezza, ieri, il presidente azero Il’kham Aliev aveva definito una “grande vittoria” l’operazione con cui le truppe di Baku avevano occupato alcune alture karabakhe nei distretti di Goradiz e Füzuli e i villaggi di Talyš e Selsuan. Per contro, a Erevan si parla di una ”aggressione militare su larga scala da parte dell’Azerbajdžan” e ci si dichiara pronti a prestare “sostegno militare diretto alla Repubblica del Nagorno-Karabakh”.
Il bilancio delle vittime (escluse quelle civili, tra cui un bambino) pare al momento doversi stimare in 18 soldati armeni (la cifra è stata data dal presidente armeno Serž Sargsjan) e 21 azeri. Mosca, ben consapevole dei possibili tragici sviluppi – per la Russia stessa e il suo sistema di alleanze nella regione – di una escalation degli scontri, continua a inviare appelli per il cessate il fuoco a entrambe le parti in conflitto. Già sabato lo aveva fatto Vladimir Putin; il Ministro della difesa Sergej Šojgu aveva avuto colloqui telefonici con entrambi i suoi omologhi, l’armeno Sejran Oganjan e l’azero Zakir Gasanov e il Ministro degli esteri Sergej Lavrov aveva fatto lo stesso con i colleghi dei corrispondenti dicasteri. E mentre l’ambasciatore azero in Russia, Polad Bjul’bjul Ogly aveva dichiarato che Baku è pronta a risolvere la faccenda per via militare, Erevan aveva messo a punto una dichiarazione di “sostegno armato” a Stepanakert, da sottoporre al parlamento. L’Armenia continua però anche oggi a smentire le voci sulla mobilitazione, nonostante la messa in stato di allerta lanciata in modo autonomo da alcuni reparti volontari armeni, come l’Unione dei veterani Omon (i reparti speciali) o l’Unione “Erkrapa”.
Mentre l’evolversi della situazione viene seguita dal Gruppo di Minsk dell’Osce (tornerà a riunirsi domani a Vienna), il Segretario generale del Organizzazione per la sicurezza collettiva (che raccoglie Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizija, Russia e Tadžikistan; non ne fanno più parte Georgia, Azerbajdžan e Uzbekistan: non a caso, i più vicini alla Nato) Nikolaj Bordjuža, ha espresso il timore che il riacutizzarsi del conflitto possa condurre a una guerra su vasta scala e possa addirittura destabilizzare l’intera regione caucasica. Cosa che, a quanto pare, non dispiacerebbe a vari soggetti cui l’area, per le ricchezze energetiche e la posizione strategica tra mar Caspio e mar Nero (solo per dire: il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum e il parallelo oleodotto fino a Ceyhan), fa gola da sempre; a partire da chi ambisce a rinverdire la sfera di dominio ottomana.
Sta di fatto che, come riporta Interfax, Ankara non sarebbe estranea al riaccendersi degli scontri: sabato scorso, alle prime notizie, il Ministero della difesa turco aveva immediatamente espresso il proprio appoggio agli azeri. La questione della mano di Ankara è stata ripresa anche da Novorosinform, che riporta alcune dichiarazioni del portavoce presidenziale del Nagorno-Karabakh, David Babajan. Durante la recente visita del presidente azero Il’kham Aliev ad Ankara, ha detto Babajan, da parte turca sono risuonate “dichiarazioni che rivestono carattere panturco, circa la liberazione del Karabakh; dopo di ciò, ecco i fatti di oggi: tutto ciò testimonia del fatto che la Turchia è parte in causa”. In effetti, scrive Novorosinform, a partire dall’abbattimento del Su-24 russo da parte dell’aviazione turca, in molti temono che Ankara possa utilizzare la situazione nel Nagorno quale pretesto per un conflitto con Mosca. Lo confermerebbero anche le dichiarazioni rilasciate dal Ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu durante la sua visita a Baku, a dicembre, secondo cui “la Turchia farà tutto il possibile perché i territori occupati dell’Azerbajdžan vengano liberati”.
Ankara, non riconoscendo il genocidio turco degli armeni di Anatolia nel 1915, non mantiene rapporti diplomatici con Erevan. Anche il vice Ministro degli esteri armeno, Šavarš Kočarjan ha accusato Ankara di appoggiare l’azione militare azera: ciò si inserisce, ha detto Kočarjan, nella logica politica dell’attuale leadership turca, che ha come risultato “un’ondata di instabilità, terrorismo e bagni di sangue nella stessa Turchia e fuori di essa”.
Ma ci ha pensato lo stesso Erdoğan a dichiarare che Ankara “appoggerà fino in fondo” l’Azerbajdžan e farà la sua parte nel ristabilimento “della giustizia” nel Nagorno-Karabakh; lo ha fatto ieri, inaugurando nel Maryland il “Centro turco-americano di cultura e civiltà”. “Preghiamo”, ha detto tra le lacrime Erdoğan, “affinché i nostri fratelli azerbajdžani vincano in questi scontri con minor perdite possibili. Che Allah aiuti i nostri fratelli azerbajdžani”. Che d’altronde Ankara non ha mai smesso di sostenere con armi e mezzi, come aveva fatto anche negli scontri del settembre scorso. E ora, scrive Ruslan Ljapin su Novorosinform, “per una strana coincidenza, l’acutizzarsi nel Karabakh si è avuto il giorno seguente l’incontro tra Obama e Erdoğan: non ha per caso avuto il via libera per l’avventura karabakha? Per gli USA, ci sarebbero solo lati positivi, tanto più dopo il fallimento del majdan armeno: si aprirebbe la possibilità di risolvere tutto con mani indigene”.
Dall’altra parte, l’Armenia è membro dell’Organizzazione per la sicurezza collettiva e, in caso di conflitto diretto tra Azerbajdžan e Armenia (e non, come ora, tra Baku e Stepanakert), Mosca sarebbe tenuta a sostenere l’alleato. Ma in quel caso “Baku chiederebbe l’intervento diretto di Ankara”, scrive Ljapin “e questa non mancherebbe di coinvolgere i nuovi partner ucraini…”. Uno scenario tutt’altro che tranquillizzante.
Il Nagorno-Karabakh è stato teatro almeno tre volte, nel corso del ‘900, di contese armeno-azere: nel 1905-’07 e nel 1918-’20 (in entrambe le occasioni non mancò l’intervento turco) e poi nel 1991-’94. Il 5 maggio 1994, al termine del conflitto che causò quasi ventimila morti, con pogrom interetnici, e la fuga di quasi un milione di rifugiati, fu sottoscritto il protocollo di Biškek sul cessate il fuoco tra Armenia e Nagorno-Karabakh da una parte e Azerbajdžan dall’altra. Da allora, si parla di un “conflitto congelato” che, però, tale appare sempre meno.
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