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19/04/2016

La riabilitazione internazionale dell'Iran passa anche per l'industria bellica

di Giovanni Pagani

“Se un domani le vostre capitali dovessero sentirsi minacciate dal terrorismo o dal sionismo, la Repubblica Islamica iraniana non vi negherà il suo aiuto”. Il presidente iraniano Hassan Rouhani ha accompagnato con queste parole la parata svoltasi ieri a Tehran per il giorno nazionale delle forze armate, garantendo però che la potenza militare del paese non è diretta verso nessuno in particolare, ma ha al contrario una funzione esclusivamente difensiva. La manifestazione, che ha visto anche esposti i nuovi S-300 russi – consegnati da Mosca a inizio mese tra le critiche israeliane e statunitensi – è stata soprattutto una nuova occasione per mostrare al mondo i risultati conseguiti dall’industria bellica iraniana.

Fino all’autunno del 2015, quando sia l’embargo sulle armi sia le sanzioni imposte dalla comunità internazionale furono revocate, l’esercito iraniano ha dovuto fare affidamento quasi esclusivamente sull’industria nazionale che dalla metà degli anni ’90 ha vissuto una crescita senza precedenti. Nel 2012, evidenziando come a differenza di molti paesi occidentali la Repubblica Islamica non abbia fatto mai mistero delle proprie scoperte nel settore, il generale Hassan Seifi aveva annunciato la completa autosufficienza di Tehran da armi straniere, spiegando come l’industria interna avesse raggiunto standard d’innovazione e produzione in grado di soddisfare interamente la domanda del proprio esercito.

All’indomani dell’accordo sul nucleare, nonostante le importazioni ed esportazioni di armamenti continuino a essere supervisionate e approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fino al 18 ottobre 2020 – a meno che l’AIEA non appuri la natura pacifica del progetto nucleare iraniano prima di questa scadenza – la Repubblica Islamica esporta armi già in 57 paesi. A questi si aggiunge poi una moltitudine di attori non statali – dalle milizie sciite libanesi e irachene ai ribelli Houthi in Yemen – ai quali Tehran garantisce sostegno ideologico, economico e militare, tramite la fornitura non tracciata di armi e munizioni. In questo quadro, l’eventualità che sull’onda dei rinnovati rapporti commerciali e diplomatici con Europa e Stati Uniti l’Iran arrivi a occupare un ruolo leader nell’industria bellica avrebbe almeno due effetti destabilizzanti sulla regione.

Il primo, più lampante, ha a che fare con il traffico di armi non tracciato e riguarda principalmente la rivalità con Riyadh assieme alle conseguenze strategiche che una crescente diffusione di armamenti iraniani potrebbe generare. Il secondo, meno immediato, riguarda invece il deterioramento delle relazioni diplomatiche ed economiche che legano Israele e Arabia Saudita a Washington e un possibile stravolgimento delle attuali strutture di potere. Come già osservato dal giornalista britannico Jonathan Cook – ancora prima che l’accordo sul nucleare iraniano fosse siglato e le sanzioni internazionali rimosse – più che il reale sviluppo di un ordigno atomico da parte di Tehran, Israele e Arabia Saudita temono per i propri rapporti privilegiati con gli Stati Uniti.

I sauditi, già irrequieti per il crollo del prezzo del petrolio e la crescente autonomia energetica statunitense, vedono nell’Iran la principale minaccia al proprio potere internazionale e sfogano tutto il loro nervosismo sul vicino Yemen. Dalla prospettiva di Riyadh, un Iran libero di commerciare armi in tutto il Medio Oriente sarebbe ovviamente una minaccia di natura militare – a causa del sostegno garantito da Tehran a vari gruppi armati sciiti – ma anche di natura politico-economica, poiché il ritorno a pieno titolo della Repubblica Islamica sullo scenario internazionale offrirebbe una valida alternativa commerciale ed energetica sia agli Stati Uniti sia all’Europa. I recenti viaggi diplomatici di leader europei a Tehran e del presidente Rouhani in Europa non fanno che alimentare tali preoccupazioni.

Il punto di vista israeliano è invece più legato al monopolio dell’industria bellica e alla possibilità che un Iran sempre più accettato – e ‘accettabile’ – in campo internazionale metta in discussione tanto l'incondizionato appoggio statunitense a Tel Aviv, quanto l’occupazione perpetrata da quest’ultima sui territori palestinesi. Israele è infatti il primo produttore ed esportatore di armi nella regione, oltre che destinatario privilegiato dei più sofisticati armamenti americani. Tra il 2014 e il 2015, la vendita di prodotti bellici israeliani ai paesi europei è passata da un valore di 724 milioni a 1,63 miliardi di dollari; mentre nel maggio 2015, pochi mesi prima che l’accordo sul nucleare iraniano fosse raggiunto, Washington ha consegnato armamenti a Tel Aviv per un valore di 1,9 miliardi di dollari. Secondo molti analisti si è trattato di un tentativo di addolcire la resistenza israeliana, ipotesi molto probabile se si considera che una commessa altrettanto sostanziosa era stata recapitata nello stesso periodo anche a Riyadh; l’altra grande oppositrice dell’accordo.

Inoltre, ogni grande produttore di armi richiede un adeguato terreno di sperimentazione. Se Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza hanno offerto – e continuano a offrire – un laboratorio privilegiato per le armi prodotte da Israele e Stati Uniti; la guerra civile siriana, la minaccia dello Stato Islamico e la destabilizzazione dello Yemen offrono all’industria bellica e agli apparati militari iraniani un fondamentale banco di prova. In altre parole, l’Iran è sia responsabile sia beneficiario di un ampio quadro d’instabilità che serve tanto ai suoi interessi strategici quanto alla crescita di uno dei suoi più importanti settori economici.

In questo quadro, se l’AIEA dovesse quindi certificare prima del 2020 l’assenza di un progetto nucleare militare da parte di Tehran, anche le limitazioni imposte dal Consiglio di Sicurezza  – già violate da Mosca con l’ultima consegna degli S-300 – verrebbero automaticamente meno; e la Repubblica Islamica iraniana potrebbe entrare a pieno titolo nel mercato bellico con prodotti relativamente a basso costo in grado di impensierire Israele e una rinnovata legittimità internazionale che già preoccupa Riyadh.

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