di Giovanni Pagani
“Se un domani le vostre capitali dovessero sentirsi minacciate dal terrorismo o dal sionismo, la
Repubblica Islamica iraniana non vi negherà il suo aiuto”. Il
presidente iraniano Hassan Rouhani ha accompagnato con queste parole la
parata svoltasi ieri a Tehran per il giorno nazionale delle forze
armate, garantendo però che la potenza militare del paese non è diretta
verso nessuno in particolare, ma ha al contrario una funzione
esclusivamente difensiva. La manifestazione, che ha visto anche esposti i
nuovi S-300 russi – consegnati da Mosca a inizio mese tra le critiche
israeliane e statunitensi – è stata soprattutto una nuova occasione per
mostrare al mondo i risultati conseguiti dall’industria bellica
iraniana.
Fino all’autunno del 2015, quando sia l’embargo sulle armi
sia le sanzioni imposte dalla comunità internazionale furono revocate,
l’esercito iraniano ha dovuto fare affidamento quasi esclusivamente
sull’industria nazionale che dalla metà degli anni ’90 ha vissuto una
crescita senza precedenti. Nel 2012, evidenziando come a
differenza di molti paesi occidentali la Repubblica Islamica non abbia
fatto mai mistero delle proprie scoperte nel settore, il generale Hassan
Seifi aveva annunciato la completa autosufficienza di Tehran da armi
straniere, spiegando come l’industria interna avesse raggiunto standard
d’innovazione e produzione in grado di soddisfare interamente la domanda
del proprio esercito.
All’indomani dell’accordo sul nucleare, nonostante le importazioni ed
esportazioni di armamenti continuino a essere supervisionate e
approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fino al 18
ottobre 2020 – a meno che l’AIEA non appuri la natura pacifica del
progetto nucleare iraniano prima di questa scadenza – la
Repubblica Islamica esporta armi già in 57 paesi. A questi si aggiunge
poi una moltitudine di attori non statali – dalle milizie sciite
libanesi e irachene ai ribelli Houthi in Yemen – ai quali Tehran
garantisce sostegno ideologico, economico e militare, tramite la
fornitura non tracciata di armi e munizioni. In questo quadro,
l’eventualità che sull’onda dei rinnovati rapporti commerciali e
diplomatici con Europa e Stati Uniti l’Iran arrivi a occupare un ruolo
leader nell’industria bellica avrebbe almeno due effetti destabilizzanti
sulla regione.
Il primo, più lampante, ha a che fare con il traffico di armi non
tracciato e riguarda principalmente la rivalità con Riyadh assieme alle
conseguenze strategiche che una crescente diffusione di armamenti
iraniani potrebbe generare. Il secondo, meno immediato, riguarda invece
il deterioramento delle relazioni diplomatiche ed economiche che legano
Israele e Arabia Saudita a Washington e un possibile stravolgimento
delle attuali strutture di potere. Come già osservato dal giornalista
britannico Jonathan Cook – ancora prima che l’accordo sul nucleare
iraniano fosse siglato e le sanzioni internazionali rimosse – più
che il reale sviluppo di un ordigno atomico da parte di Tehran, Israele
e Arabia Saudita temono per i propri rapporti privilegiati con gli
Stati Uniti.
I sauditi, già irrequieti per il crollo del prezzo del petrolio e
la crescente autonomia energetica statunitense, vedono nell’Iran la
principale minaccia al proprio potere internazionale e sfogano
tutto il loro nervosismo sul vicino Yemen. Dalla prospettiva di Riyadh,
un Iran libero di commerciare armi in tutto il Medio Oriente sarebbe
ovviamente una minaccia di natura militare – a causa del sostegno
garantito da Tehran a vari gruppi armati sciiti – ma anche di natura
politico-economica, poiché il ritorno a pieno titolo della Repubblica
Islamica sullo scenario internazionale offrirebbe una valida alternativa
commerciale ed energetica sia agli Stati Uniti sia all’Europa. I
recenti viaggi diplomatici di leader europei a Tehran e del presidente
Rouhani in Europa non fanno che alimentare tali preoccupazioni.
Il punto di vista israeliano è invece più legato al monopolio
dell’industria bellica e alla possibilità che un Iran sempre più
accettato – e ‘accettabile’ – in campo internazionale metta in
discussione tanto l'incondizionato appoggio statunitense a Tel Aviv,
quanto l’occupazione perpetrata da quest’ultima sui territori
palestinesi. Israele è infatti il primo produttore ed
esportatore di armi nella regione, oltre che destinatario privilegiato
dei più sofisticati armamenti americani. Tra il 2014 e il 2015, la
vendita di prodotti bellici israeliani ai paesi europei è passata da un
valore di 724 milioni a 1,63 miliardi di dollari; mentre nel maggio
2015, pochi mesi prima che l’accordo sul nucleare iraniano fosse
raggiunto, Washington ha consegnato armamenti a Tel Aviv per un valore
di 1,9 miliardi di dollari. Secondo molti analisti si è trattato di un
tentativo di addolcire la resistenza israeliana, ipotesi molto probabile
se si considera che una commessa altrettanto sostanziosa era stata
recapitata nello stesso periodo anche a Riyadh; l’altra grande
oppositrice dell’accordo.
Inoltre, ogni grande produttore di armi richiede un adeguato terreno
di sperimentazione. Se Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza hanno
offerto – e continuano a offrire – un laboratorio privilegiato per le
armi prodotte da Israele e Stati Uniti; la guerra civile siriana, la
minaccia dello Stato Islamico e la destabilizzazione dello Yemen offrono
all’industria bellica e agli apparati militari iraniani un fondamentale
banco di prova. In altre parole, l’Iran è sia responsabile sia
beneficiario di un ampio quadro d’instabilità che serve tanto ai suoi
interessi strategici quanto alla crescita di uno dei suoi più importanti
settori economici.
In questo quadro, se l’AIEA dovesse quindi certificare prima
del 2020 l’assenza di un progetto nucleare militare da parte di Tehran,
anche le limitazioni imposte dal Consiglio di Sicurezza – già violate
da Mosca con l’ultima consegna degli S-300 – verrebbero automaticamente
meno; e la Repubblica Islamica iraniana potrebbe entrare a pieno titolo
nel mercato bellico con prodotti relativamente a basso costo in grado di
impensierire Israele e una rinnovata legittimità internazionale che già
preoccupa Riyadh.
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