di Michele Giorgio – Il Manifesto
Cinque anni dopo
l’uccisione, compiuta da un commando dei Navy Seal, del suo leader e
fondatore Osama bin Laden, colto di sorpresa nel suo rifugio fortificato
di Abbottabad (Pakistan) – questa è la versione ufficiale –, e a due
anni dalla proclamazione del “Califfato” da parte dei rivali dello Stato
Islamico (Isis) in ampie porzioni dell’Iraq e della Siria, al Qaeda
resta una organizzazione attiva e diffusa, anche se ha subito battute
d’arresto e ha visto numerosi dei suoi esponenti uccisi o catturati.
Gli attacchi in Europa e in Africa, la sua forza in Yemen e
Siria, confermano che l’organizzazione, capace nel 2001 di infliggere
gli attacchi più gravi mai avvenuti sul suolo degli Stati Uniti,
conserva intatta la sua pericolosità pur avendo perduto, a vantaggio
dell’Isis, la capacità di attirare nuovi militanti.
Il ramo yemenita, al Qaeda nella Penisola Arabica
(Aqap, con decine di migliaia di combattenti), nato nel gennaio 2009, è
senza dubbio il più solido di tutta l’organizzazione. Aqap ha saputo
sfruttare il conflitto tra il governo yemenita e i ribelli sciiti Houthi
per espandere il suo controllo nel sud del paese. Guidato da Qassem al
Rimi, il ramo yemenita nel gennaio del 2015 ha anche rivendicato
l’attacco contro il settimanale satirico francese Charlie Hebdo.
L’altro braccio forte di al Qaeda, il Fronte al Nusra (7-8000
uomini), comandato da Abu Mohammad al Jolani, opera in Siria. Assieme
ad altre formazioni jihadiste controlla porzioni importanti del
territorio siriano: la provincia di Idlib, alcuni rioni di
Aleppo e importanti aree nel sud della Siria e a ridosso del Golan
occupato da Israele. Ben armato, composto da uomini addestrati e pronti
a sacrificare la vita, il Fronte al Nusra rappresenta una minaccia
concreta per l’esercito siriano. Il primo problema per al Qaeda in Siria è la rivalità con l’Isis, sfociata spesso in scontri armati.
Non è da escludere però che la necessità di contrastare meglio
l’offensiva governativa di terra e quella aerea della Russia e della
Coalizione guidata dagli Usa, convinca le due parti a stringere
un’alleanza militare.
Molto attiva è anche al Qaeda nel Maghreb Islamico
(Aqim), fondata nel 2007, quando il Gruppo salafita algerino per la
Predicazione e il Combattimento proclamò la sua fedeltà a Osama bin
Laden. Aqim ha attirato combattenti da tutta la regione del
Sahara, creato basi nel nord del Mali, stabilito reti di traffico di
droga e sequestrato occidentali (alcuni dei quali poi giustiziati).
Dopo l’intervento francese in Mali, Aqim ha ristabilito le sue
roccaforti nel sud della Libia, non mancando di rivendicare attacchi in
Algeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio e ancora nel Mali.
Due anni fa, al Qaeda ha annunciato la nascita di un ramo asiatico, Al Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis), che, oltre ad avere le storiche roccaforti in Afghanistan e Pakistan, opera in India, Bangladesh e Myanmar.
La sua forza è stimata intorno ai 600 uomini ma può contare
sull’appoggio di gruppi con migliaia di combattenti, come i Taleban
afghani e pakistani. Fedele ad al Qaeda resta inoltre il violento gruppo
somalo Shebab. Cacciato da Mogadiscio nel 2011 rimane però una minaccia costante, anche in Kenya dove compie attacchi regolari.
Al Qaeda perciò mantiene una rete ampia cinque anni dopo l’uccisione di Osama Bin Laden. Il
suo punto debole è il vertice dell’organizzazione, incapace di opporre
efficaci politiche di reclutamento all’appeal dell’Isis sui giovani
musulmani convertiti al salafismo in Occidente e Asia. I jihadisti
stranieri si sono uniti in massa ai ranghi dello Stato Islamico in Iraq e
Siria snobbando in buona parte quelli di al Qaeda. Il medico
egiziano Ayman al Zawahiri, che ha preso il posto di Osama bin Laden nel
giugno 2011, resta un ideologo salafita di primissimo piano che, prima
con la lotta al comunismo sovietico e poi agli Stati Uniti, ha inscritto
il jihad in una prospettiva escatologica globale. Allo stesso tempo al
Zawahiri non possiede le doti di leader del “califfo” dell’Isis Abu Bakr
al Baghdadi.
Mentre due anni fa il successore di bin Laden rivolgeva i suoi
appelli all’ummah islamica e minacce al resto del mondo registrando
occasionali messaggi video e audio nel suo rifugio segreto, al
Baghdadi ha prima preso le distanze da al Qaeda e poi è passato
all’azione cancellando in un solo colpo i confini coloniali tracciati
dall’Accordo Sykes-Picot e proclamando subito il “Califfato” che al
Zawahiri riteneva prematuro. Al Baghdadi e i suoi uomini hanno
usato, con abilità, le nuove tecnologie della comunicazione mettendo in
piedi una temibile macchina da guerra mediatica. E hanno anche saputo
intercettare le generose “donazioni” dei ricchi wahabiti del Golfo
interessati più a conseguire obiettivi immediati – come la caduta del
nemico Bashar Assad in Siria e la fine del potere sciita in tutto l’Iraq
– che a rimanere ancorati alla realizzazione sul lungo (a dir poco)
periodo dei “disegni divini” ai quali fa sempre riferimento al Zawahiri.
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