Qualche anno fa Graeme Turner, una figura chiave del pensiero critico australiano, pubblicò un lavoro, Ordinary People and the Media (Routledge, 2010) che meriterebbe maggiore attenzione alle nostre latitudini. Turner è un autore fondamentale per comprendere i cultural studies australiani. Campo dove non solo si è distinto per l’opera di divulgazione ed analisi dei cultural studies omologhi britannici ma, anche, per l’analisi del significato sociale della produzione di celebrità tramite mass media. Già dall’inizio degli anni 2000, si occupava di celebrità (Fame Games, The Production of Celebrities in Australia, una antologia curata da Turner che analizzava le fasi di costruzione della celebrità), per continuare alla metà del decennio precedente (Understanding Celebrity, 2004, che entra nella funzione sociale della celebrità, nell’economia della fama e nella produzione di celebrità sia dall’alto che dal basso) per arrivare, infine, a questo Ordinary People and the Media. Un testo dove, oltre ad analizzare un populismo che in Australia non si è ancora fatto partito, si apre proprio con l’analisi del fenomeno delle ordinary celebrities, le celebrità ordinarie. Ovvero quello dove la funzione sociale della celebrità viene assegnata alle persone ordinarie (tramite trasmissioni televisive che si dedicano proprio di questo) e i personaggi celebri si occupano di evidenziare e legittimare fatti ordinari (dalla passeggiata in luoghi “di tutti”, al selfie con passanti, agli abiti e al trucco esibiti in modo ordinario).
La ordinary celebrity è quindi un importante cortocircuto comunicativo: contiene la forza, e lo status, della celebrità ma anche quella, assieme al linguaggio, dei grandi comportamenti di massa. In questo senso, nelle strategie di comunicazione politica, il passaggio da Berlusconi a Renzi è piuttosto netto: mentre dell’ammiraglio di Arcore si evidenziavano le doti straordinarie (da Mediaset al Milan fino, in tarda epoca, agli eccessi notturni) di Renzi si prova a vendere il tratto da Ordinary Celebrity. “Matteo”, a differenza di “Silvio”, è ordinario, a portata di mano: comunica con tutti, con gli stessi mezzi di tutti. Non è “Silvio” che da straordinario si trasformava in persona che parla con tutti. E’ “Matteo” che è quella sorta di personaggio ordinario nel quale i personaggi ordinari, quelli veri, si possono specchiare. Del resto Renzi, il 40 per cento alle elezioni l’ha sfondato non proponendo il “miracolo italiano”, come fece Berlusconi, ma mettendo meno di novanta euro in busta paga. Renzi usa il linguaggio dei boy-scout, per cui gli avversari sono “gufi”, fa discorsi pubblici in assoluta assenza di originalità, riuscendo giocoforza ad apparire una celebrità ordinaria. Si pone sempre dal punto di vista del “fare”, quello delle persone ordinarie e pratiche. Fa anche il tifoso, sorride, si incavola, si indigna. La straordinarietà infatti non tocca a lui, personaggio di ordinaria celebrità, ma agli atti del governo. In questo modo, guidato da una ordinaria celebrità, ogni piccolo atto del governo sembra fuori dal comune. Lui, Renzi è invece ordinario, toccabile, comunicabile. Fa gaffe e va da Giletti.
E come si comporta Renzi nei confronti del conflitto? Semplice, come una persona ordinaria. Comunica di non capire. Ad esempio perché i precari protestano contro il Jobs Act (“non si comprende perché si protesta contro qualcosa che crea lavoro” dice Renzi), gli insegnanti contro la buona scuola (“non capisco perché si protesta contro le assunzioni”, dicono in coro Renzi e Giannini). E’ il punto di vista impolitico, ordinario ripreso da una Ordinary Celebrity come è Matteo Renzi. Punto di vista che circola nei media generalisti e può diffondersi grazie ai social. E’ anche il modo, tutto renziano (o meglio, del suo staff), di governare l’opinione pubblica quando insorge il problema di classificare il conflitto: spingendolo a considerarlo come un fenomeno che sta tra l’inutile, l’assurdo e l’incomprensibile. Non si spinge a creare quindi, in caso di conflitto, un campo a favore e uno contro il governo. Piuttosto quello della gente ordinaria e quello, inesistente, di chi fa cose incomprensibili.
Se ne stia certi, accadrà anche con il referendum di ottobre. Nel tentativo di trovare, come celebrità ordinaria, sintonia con l’opinione pubblica impolitica o attenta solo alle vicende giudiziarie, ai sondaggi e ai barconi. In caso di conflitto sul campo, come avvenuto recentemente a Pisa, l’atteggiamento da presidente del consiglio, e da celebrità ordinaria, si sostanzia quindi in questo modo: sul terreno si spranga e sui media si confonde. Si fa correre la celere alla ricerca delle persone e si comunica che quanto accade “è incomprensibile”, stimolando i social e la propaganda a reti unificate. E il senso comune sulla inutilità del conflitto quando bisogna “fare” e lavorare.
Da brava celebrità ordinaria, Matteo Renzi non ha poi simboli propri. Parla parandosi dietro un Mac, ormai simbolo di governo e, all’insaputa dell’azienda con sede a Cupertino (California), dando alla mela della Apple quella sfumatura di significato antisindacale, orwelliano che è che si sedimenta involontariamente sul marchio voluto da Steve Jobs. Anche per il brand Apple un bel destino: nato come simbolo di distinzione non solo aziendale ma anche dei comportamenti, oggi usato da un presidente del consiglio di un paese in declino come marchio di una Ordinary Celebrity piatta, monotona che si agita solo per negare l’evidenza dei conflitti e dei disastri di un ceto politico predatorio, chiuso quanto nichilista.
Foto Laura Lezza/getty images
Redazione, 4 maggio 2016
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