In primo luogo, devo chiedere scusa per una mia imperdonabile sovrapposizione di ricordi, che mi ha fatto scrivere
che nell’elezione del Presidente della Repubblica intervengono anche i
delegati regionali che, invece, non ci sono più: forse per la mia
ostilità a questa riforma, o forse perché ogni volta che incontro il
nome di Bersani e della “sinistra” Pd vado in bestia, fatto sta che
avevo rimosso l’abrogazione del primo capoverso dell’art. 83 della
Costituzione, per cui i 58 delegati regionali non ci sono più. Ringrazio
Nicola Colaianni che me lo ha segnalato.
Dunque, il plenum dei grandi elettori è
di 730 e il quorum richiesto per l’elezione del Presidente è di 366, per
cui alla maggioranza servono solo 26 voti da prendere fra i 100
senatori cioè, poco più di un quarto, il che rafforza ulteriormente il
ragionamento che facevo. Chiedo comunque scusa, d’altra parte la
vecchiaia non migliora nessuno e qualche colpo a vuoto si prende. Ma ora
veniamo al merito.
Diversi giuristi del comitato per il No
(spesso amici della “sinistra” Pd) si stanno dando da fare per trovare
il modo tecnico per poter “spacchettare” il referendum costituzionale in
più quesiti. Impresa per nulla facile che ha molti ostacoli tecnici.
Partiamo da quello che dice il 2° comma dell’art 138:
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quindi dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Ne si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.
Dunque, il primo problema è di ordine letterale:
il testo del 138 dice “La legge sottoposta a referendum” usando il
singolare tanto per l’oggetto (la legge) quanto per la consultazione in
sé (il referendum) e non fa cenno alla possibilità di referendum su
singole parti della stessa legge. Peraltro, non lo vieta nemmeno, ma
questo basta a dire che lo spacchettamento è possibile? Il problema non è
di lettera ma di sostanza.
Le Costituzioni, per convenzione, sono
sistemi chiusi e coerenti, per cui la modifica di singole parti non deve
dar luogo a disfunzioni sistemiche. Se alcune modifiche del testo
dovessero risultare incoerenti con il testo nel suo insieme, si
cercherebbe di sanare l’aporia interpretando il testo in modo da
renderlo coerente con il resto. Questo, però, potrebbe non essere
sempre possibile. Ad esempio, non posso abrogare gli articoli che
istituiscono il Senato e poi lasciare quelli che parlano di “Parlamento
in seduta comune”, perché, in un sistema reso unicamerale, l’espressione
non avrebbe più senso, né posso lasciare un articolo che dice che il
Presidente del Senato è Capo dello Stato provvisorio in caso di morte,
dimissioni o impedimento permanente del Presidente della Repubblica,
perché non essendoci più un Senato, non c’è più un suo Presidente. Dunque, occorre che le leggi di revisione abbiano ben presenti i limiti di carattere sistemico che debbono rispettare.
E, infatti, una dottrina molto autorevole (MORTATI) sostiene che le
leggi di revisione sono sotto ordinate rispetto al testo ordinario
emanato dall’Assemblea Costituente, che rappresenterebbe una entità
“assolutamente originaria” rispetto al titolare del potere di revisione.
Ma, anche se questa dottrina non è generalmente condivisa, è però
teoria di indirizzo largamente comune quella dei “limiti impliciti”
della revisione costituzionale, per cui essa non può ledere i principi
generali sanciti nella prima parte della Costituzione ed assimilati alla
“forma repubblicana dello Stato” non sottoponibile a revisione (art.
139). Tesi fatta propria anche dalla Corte costituzionale in una sua
nota sentenza (n 1146/1988). Per cui la Consulta ha riservato a sé
stessa il potere di sindacare le eventuali leggi di revisione, potere
che ovviamente si estende anche a quelle riforme che risultino
incompatibili funzionalmente all’insieme del testo. Ovviamente, si
immagina che il Parlamento abbia presenti questi limiti di funzionamento
complessivo della norma ed eviti di incorrere in questi errori e,
infatti, alla votazione degli articoli uno per uno, succede la
votazione sul testo generale della legge, che funge da verifica della
sua organicità. E questo a maggior ragione per un testo di rilievo
costituzionale che riceve appunto doppia lettura. Altrettanto
ovviamente, la Corte interverrebbe su eventuali incoerenze residue, ma
solo nei casi strettamente necessari, per evitare di assumere un ruolo
di controllore di merito del processo di revisione, quel che
trasformerebbe un organo tecnico in un organo politico.
La Costituzione descrive un sistema di garanzie per la sua revisione che investe tre diversi soggetti:
il Parlamento, cui è affidata in primo luogo la potestà di revisione
attraverso particolari procedure e maggioranze, poi l’eventuale
intervento della Corte se investita, secondo la teoria dei limiti
impliciti, infine, al corpo elettorale, nel caso si dia luogo al
referendum. Ma, ovviamente, ciascuno dei tre organi che intervengono nel
processo di formazione della legge di revisione lo fa entro i limiti
che gli sono propri. Il Parlamento ha il potere di elaborazione ed
approvazione, ma entro i limiti della forma repubblicana e dei
conseguenti limiti impliciti. La Corte Costituzionale può intervenire,
ma entro limiti molto stretti, per emendare gravi difetti altrimenti non
sanabili, il corpo elettorale per confermare la riforma o, al contrario
bocciarla, ma non per modificarla.
Infatti, al corpo elettorale non è
riconosciuto il potere di manipolare il testo (come accade per le leggi
ordinarie), chiedendo l’abrogazione di singole parti di esso o anche
esprimersi per singoli quesiti: “Il referendum costituzionale si rivolge
necessariamente all’intera deliberazione legislativa” (Tania GROPPI in
“Commentario alla Costituzione” a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO e M.
OLIVETTI p.2714) anche se un’altra dottrina (essenzialmente PIZZORUSSO)
ritiene che, invece, sia ammissibile la consultazione su quesiti
parziali. Questa seconda posizione (sembra minoritaria) non convince
essenzialmente per una ragione riconducibile al principio di organicità
della legge: una consultazione per parti potrebbe portare
all’approvazione di alcune parti ed al respingimento di altre, con un
risultato complessivo che potrebbe risultare contraddittorio o non
organico. Adesso lasciamo da parte se questo in discussione sia il caso o
meno, il punto è che una volta stabilito un precedente, questa
procedura potrebbe essere applicata anche in altri casi in cui questo
risultato controintuitivo poterebbe manifestarsi. In Parlamento, per
evitare questa possibilità, come abbiamo detto, il regolamento prevede
la pronuncia finale sull’intera legge; ma nel Referemdum questo è
impossibile, perché il voto è unico e non c’è un ulteriore pronuncia sul
testo complessivo così come modificato dai voti precedenti.
In secondo luogo, non è affatto detto che “spacchettare” i referendum sia una operazione semplice,
univoca o auto evidente: potrebbe benissimo darsi che si presentino più
quesiti ritagliati in modo diverso e parzialmente sovrapposto, a quel
punto, toccherebbe alla Corte decidere quale ammettere e quali
respingere, non essendo possibile votare su quesiti in parte
intersecati, per cui una disposizione potrebbe risultare insieme
approvata e respinta nello stesso tempo. Ma, nel decidere su una cosa
del genere, la Corte assumerebbe un ruolo di decisore politico che non
le spetta. E, nel nostro caso, la situazione è complicata dal fatto che
c’è già un quesito, sottoscritto dai parlamentari Pd che chiede la
pronuncia sull’intera legge, mentre potrebbero essercene diversi su
singole parti da parte del gruppo M5s o di altri settori politici.
“Spacchettando” il referendum, la Corte interverrebbe nel merito della
legge modificandola, quel che non è nei suoi poteri. D’altra parte, se
il legislatore – cui appartiene il potere di revisione – avesse voluto
procedere per parti separate, avrebbe potuto approvare distinte leggi di
revisione, al contrario, votandone una sola ha espresso la volontà di
elaborare un unico progetto organico e questo è nelle sue esclusive
competenze e nessuno può intervenire in merito.
Il punto è che il referendum è un mezzo
inidoneo ad intervenire nelle singole parti di una legge costituzionale
(cosa ben diversa di una legge ordinaria, su cui il Parlamento può
intervenire entro 90 giorni per sanare eventuali incongruenze, cosa non
prevista assolutamente nel caso di riforme costituzionali).
Ma, qualcuno dirà, in questo modo il
referendum diventa un plebiscito sul governo: questo dipende dal fatto
che, del tutto irritualmente, la proposta di revisione è partita dal
governo e non dall’interno del Parlamento, ora la frittata è fatta e non
si può tornare indietro. D’altra parte, questa è una valutazione
politica che deve restare indifferente alla Corte. E, per la verità i
referendum hanno per loro natura un elemento plebiscitario connaturato.
Così fu anche per il referendum-colpo di Stato del 1993 di cui parleremo
in altra occasione.
E pertanto, non perdiamo tempo su questioni di lana caprina che complicano inutilmente una partita già difficile come questa.
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