Ad esser maliziosi – ma neanche troppo – ci sarebbe da sospettare che a Greenpeace Olanda quelle 248 pagine di documenti finora segreti sul contenuto dei negoziati tra le due sponde dell’oceano sul Ttip, glie le abbia fornite una delle parti in causa. Forse quella che proprio in questi giorni sta insistentemente recitando il ‘de profundis’ del Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti?
Già alla fine della scorsa settimana il ministro tedesco dell’economia e numero due del governo di Berlino, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, aveva sentenziato: “Se gli americani resteranno su questa posizione, noi non avremo bisogno di un trattato di libero scambio e il Ttip sarà destinato a fallire”.
Ma poi è arrivata la tegola dei cosiddetti “ttip leaks”, cioè dei documenti resi pubblici dalla sezione olandese di Greenpeace che hanno mostrato nero su bianco quanto molti, nonostante il carattere segreto delle trattative, sospettavano o sapevano. Il trattato, che mira formalmente a istituire una zona di libero scambio tra Usa e Ue, riducendo i dazi doganali per le aziende e approvando nuove leggi che favoriscano il mercato attraverso l’eliminazione delle differenze normative e amministrative, rappresenta un attacco senza precedenti ai diritti dei lavoratori, alla protezione dei consumatori e dell’ambiente, alla sopravvivenza di centinaia di migliaia di agricoltori, allevatori e produttori europei.
E – la cosa più importante dal punto di vista dell’establishment dell’Unione Europea – un passepartout a disposizione delle multinazionali statunitensi per invadere i mercati continentali senza freni e senza regole, producendo un danno enorme alle grandi imprese europee che pure nel Ttip vedevano uno strumento per aumentare la loro penetrazione bypassando leggi e regolamenti nazionali. E naturalmente per incrementare i profitti. Secondo uno studio del Center for Economic Policy Research di Londra, infatti, il Trattato permetterebbe un incremento dei ricavi annui di 120 miliardi di dollari per le multinazionali europee e di 95 miliardi per quelle a stelle e strisce. Ma, si accusa da più parti, si tratta di stime gonfiate, e comunque non al passo con l’evoluzione – o meglio, l’involuzione – del negoziato, che ha visto man mano aumentare le pretese statunitensi.
E così dopo i tedeschi, sono ora i francesi – l’altra gamba del processo di integrazione europeo – ad intervenire sulla questione, in maniera netta, dura. Un vero e proprio stop. «Allo stato attuale del confronto, la Francia dice di no all’intesa. Perché non siamo per un sistema di libero scambio senza regole. Non accetteremo mai che vengano messi in discussione i principi essenziali della nostra agricoltura, della nostra cultura. E che non ci sia una totale reciprocità nell’accesso agli appalti pubblici» ha tuonato ieri il presidente Francois Hollande. Prima di lui il premier Manuel Valls aveva espresso «inquietudine per l’andamento del negoziato». Lunedì il ministro al Commercio estero Matthias Fekl, figura emergente del partito socialista e titolare del dossier, era stato assai più chiaro: «L’Europa propone molto e riceve molto poco in cambio. Questo non è accettabile. Alla luce dell’atteggiamento attuale degli Stati Uniti, mi sembra che lo stop alle trattative sia l’opzione più probabile». Ma già a metà aprile lo stesso Hollande aveva avvertito che «Se non ci sarà una totale reciprocità, se non ci sarà sufficiente trasparenza, se ci sarà un pericolo per gli agricoltori, se gli europei non avranno libero accesso alle gare pubbliche mentre gli Stati Uniti potranno avere accesso a tutto in Europa, allora non lo accetterò».
In controtendenza invece il governo italiano, che per bocca del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, ha ribadito il ‘Ttip-entusiasmo’ dell’esecutivo Renzi, più sensibile ai richiami e all’influenza di oltreoceano: “Gli accordi sono una grande opportunità per le nostre imprese, ci aiuteranno a far crescere i Pil dei Paesi europei”.
Ma la diffusione degli scottanti documenti, che provano i pesanti ricatti e le pressioni da parte degli Usa per avere il via libera ai propri interessi su tutto il fronte, non poteva che legittimare chi, all’interno degli apparati dell’Unione Europea, pensa ormai di chiudere tutta la faccenda in un cassetto. I negoziati, che vanno avanti dal 2013, sono di fatto ad un punto morto. Di fronte allo scarso entusiasmo delle rispettive opinioni pubbliche sia i socialisti francesi che i socialdemocratici tedeschi potrebbero ora pensare di cavalcare lo stop al Ttip in nome di una posizione ‘protezionistica’ che potrebbe costituire un buon argomento di campagna elettorale per due partiti in crisi nera.
E anche da parte statunitense, fanno notare in molti, gli ostacoli aumentano. Se Barack Obama, come sembra scontato, non riuscirà a portare a casa il risultato – la firma del Ttip – entro la fine del suo mandato, non è detto che chi lo sostituirà nello Studio Ovale sia così propenso a riprendere i negoziati. Per motivi diversi, a volte opposti, infatti sia il repubblicano ultrà Donald Trump sia il democratico ‘socialista’ Bernie Sanders hanno espresso la propria contrarietà a proseguire la trattativa. La popolarità dell’accordo transatlantico è sempre più in ribasso, e non solo in Europa. Secondo la fondazione tedesca Bertelsmann il consenso sul Ttip sarebbe passato dal 55% al 17% in Germania e dal 53% al 15% negli Stati Uniti, le cui imprese avrebbero in realtà tutto da guadagnarci dalla costituzione di quella che in molti definiscono una ‘Nato economica’.
E’ in questo clima notevolmente sfavorevole che a giugno si terrà il prossimo round di negoziati tra la Commissione Europea e gli inviati di Washington – quello precedente si è chiuso il 29 aprile – mentre sabato prossimo a Roma è prevista una manifestazione nazionale contro il Ttip e lo strapotere delle multinazionali. Lo scatto di reni dei governi europei sembrerebbe dare ragione a chi, da sempre, si oppone ad un trattato che concederebbe ancora più potere alle imprese e alle lobby. Ma non è il caso di abbassare la guardia, dando credito a dichiarazioni come quella rilasciata poche ore fa dal ministro socialista francese Matthias Fekl: “Noi vogliamo difendere le nostre piccole e medie imprese, l’agricoltura, l’ambiente. Non avrebbe alcun senso aver partecipato al COP21 (il vertice mondiale sul clima, ndr) di Parigi a dicembre per poi, pochi mesi dopo, firmare un patto che lo contraddice”.
La verità è che i governi e l’establishment dell’Unione Europea non sono affatto preoccupati per l’ambiente, i diritti dei consumatori e dei lavoratori, bensì dalla possibilità che la firma del Ttip consenta alle multinazionali statunitensi di dilagare in Europa a danno degli interessi e dell’egemonia delle grandi imprese continentali.
Occorrerà tenerne conto adeguatamente, sabato, scendendo in piazza a Roma, consci che se pure Bruxelles metterà fine ai negoziati con una potenza competitrice come sono gli Stati Uniti, l’Unione Europea il suo ‘ttip’ lo sta già costruendo e imponendo all’interno dei propri confini.
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