di Michele Paris
Il momento della conquista della nomination Repubblicana per le
elezioni presidenziali americane da parte di Donald Trump, previsto da
pochissimi fino a qualche mese fa, è arrivato nella serata di martedì al
termine delle primarie nello stato dell’Indiana. La vittoria molto
netta e il ritiro del suo unico vero rivale, il senatore del Texas, Ted
Cruz, lo hanno rispettivamente avvicinato alla maggioranza assoluta dei
delegati del partito conquistati e messo al riparo da colpi di mano alla
convention di luglio per ribaltare i risultati elettorali di questi
mesi.
In Indiana, Trump ha ancora una volta superato il 50% dei
consensi, attestandosi al 53%, così da intascare tutti e 57 i delegati
in palio nello stato. A Trump servirebbero teoricamente meno di 230 dei
445 delegati che restano da assegnare nelle primarie ancora in
calendario, quasi tutte con il sistema maggioritario. L’addio anche del
governatore “centrista” dell’Ohio, John Kasich, annunciato mercoledì
rende però ormai il prosieguo della corsa in casa Repubblicana una pura
formalità.
Se tra i leader e i finanziatori Repubblicani
rimangono forti riserve nei confronti di Trump, da qualche settimana
sono giunti vari segnali di un probabile accomodamento del partito
all’ormai quasi certo candidato alla Casa Bianca. Dopo gli scontri
verbali dei mesi scorsi, ad esempio, il presidente del Comitato
Nazionale Repubblicano, Reince Preibus, ha affermato martedì che Trump è
ora il “probabile” candidato del partito ed esso deve unirsi attorno al
suo nome.
I giornali americani hanno sottolineato
l’eccezionalità della corsa e del successo di Trump, il primo candidato
alla Casa Bianca di uno dei due principali partiti dai tempi di
Eisenhower a non avere mai ricoperto cariche elettive. Trump, inoltre,
ha aderito ufficialmente al Partito Repubblicano solo nel 2012, mentre
in precedenza aveva donato centinaia di migliaia di dollari a politici
Democratici, inclusi i Clinton.
Per trionfare nelle primarie,
inoltre, Trump non ha avuto bisogno di ricorrere all’appoggio
finanziario di ricchi donatori, avendo in buona parte pagato di tasca
propria le spese della campagna elettorale, mentre ha condotto le
operazioni nei vari stati non con un’organizzazione imponente ma con un
team ridotto all’osso, trasgredendo così a due condizioni che sembravano
imprescindibili fino a pochi mesi fa.
La singolarità della sua
più che probabile vittoria è legata però soprattutto alla natura del
candidato Trump, un populista di destra che non ha avuto scrupoli a
offrire proposte apertamente fasciste, e al travolgente sentimento
anti-establishment che sta caratterizzando questa stagione elettorale
negli Stati Uniti. Uno scenario di certo sgradito a molti Repubblicani
ma che è in definitiva il risultato della promozione di forze
reazionarie da parte del loro partito e, più in generale, di tutto il
panorama politico americano.
La corsa alla nomination
Repubblicana è stata segnata dall’emergere, in maniera decisamente
fugace, dei candidati sostenuti dall’apparato di potere del partito e,
una volta incassato questo sostegno, dal loro puntuale crollo. Ciò è
accaduto per Jeb Bush, poi per Marco Rubio e, infine, per Ted Cruz.
Proprio
il senatore ultra-conservatore del Texas aveva provato in tutti i modi a
fermare Trump, da ultimo attraverso un patto con Kasich, peraltro mai
decollato, per ottenere i voti dei sostenitori di quest’ultimo in
Indiana e con l’annuncio insolito della scelta del suo candidato alla
vice-presidenza, l’ex amministratore delegato di HP, Carly Fiorina.
Cruz
ha alla fine pagato un calendario delle primarie che, dopo il suo
momento migliore in Wisconsin un mese fa, ha proposto il voto in una
serie di stati favorevoli a Trump. Cruz aveva però già perso molte sfide
sul suo terreno all’inizio della competizione, cioè nel sud degli Stati
Uniti, e soprattutto le sue posizioni di estrema destra e ispirate al
fondamentalismo cristiano sono risultate troppo estreme anche per gli
elettori Repubblicani.
A fare il resto sono stati i sentimenti non esattamente benevoli dei
leader del partito nei suoi confronti e il conseguente sostegno troppo
tiepido ottenuto da questi ultimi per costruire una strategia
sufficiente a impensierire Trump.
Molti commentatori negli USA,
in particolare sulla stampa “liberal”, già da mercoledì hanno rilevato
come Trump parta ora da una posizione di netto svantaggio nella sfida di
novembre con Hillary Clinton. I sondaggi indicano un distacco in media
di dieci punti percentuali dall’ex segretario di Stato e addirittura in
alcuni stati tradizionalmente Repubblicani Trump sarebbe in difficoltà.
Alle
presidenziali mancano però parecchi mesi e la storia delle elezioni
americane non è priva di rimonte in un periodo di tempo così lungo.
Soprattutto, poi, Hillary resta una candidata estremamente debole,
disprezzata in misura solo leggermente inferiore rispetto a Trump dagli
americani e con un lungo elenco di vulnerabilità, determinate in
sostanza dai suoi legami inestricabili con i grandi interessi
economico-finanziari e dalle tendenze marcatamente guerrafondaie
mostrate in decenni di carriera politica.
Ponendo la questione in
altri termini, inoltre, pur avendo entrambi livelli negativi di
gradimento tra i potenziali elettori, la sfida di novembre potrebbe
assumere i contorni dell’outsider contro la quintessenza stessa
dell’establishment di Washington, vale a dire una posizione non
invidiabile per Hillary alla luce della disposizione degli americani.
Del
genere di candidato che il Partito Democratico presenterà a novembre se
ne è avuta un’idea ancora martedì. Dopo i successi in cinque delle
ultime sei primarie, tra cui a New York, e almeno due settimane di
incessante campagna mediatica incentrata su una nomination ormai in
tasca, Hillary è riuscita a farsi battere in Indiana da un Bernie
Sanders ormai quasi in modalità post-elettorale.
Ai fini della
nomination, la sconfitta non avrà ripercussioni, visto che il senatore
del Vermont recupererà solo una manciata di delegati senza intaccare
l’ampio margine di vantaggio di Hillary. Tuttavia, la favorita
Democratica potrebbe giungere all’incoronazione nella convention di
Philadelphia a luglio sull’onda di una serie di sconfitte imbarazzanti,
rese ancora più gravi dal fatto che arriverebbero insolitamente dopo
essersi di fatto garantita la nomination.
Come ha fatto notare lo
stesso Sanders recentemente, è possibile poi che Hillary ottenga la
maggioranza assoluta dei delegati solo grazie all’appoggio dei
cosiddetti “super-delegati”, ovvero quei membri del partito che hanno
diritto di voto alla convention ma senza essere vincolati al risultato
delle primarie nei loro stati di origine. Se ciò si verificasse, sarebbe
un ulteriore segnale del debole consenso popolare per la candidata alla
Casa Bianca, in grado di raggiungere questo status solo grazie al
massiccio sostegno dell’apparato del partito.
Sanders,
da parte sua, appare deciso a rimanere in corsa, nonostante abbia
ridimensionato il suo team in maniera drastica e le donazioni a suo
favore abbiano fatto segnare una brusca discesa. Il suo obiettivo
sembrerebbe essere diventato però quello di coltivare l’illusione che il
Partito Democratico possa essere spinto ad adottare una piattaforma
“progressista” in vista del voto di novembre.
Il candidato
“perdente”, in ogni caso, martedì sera ha salutato il successo nelle
primarie dell’Indiana tenendo un comizio in Kentucky, dove si voterà il
17 maggio. Qui, Sanders è dato per favorito su Hillary Clinton, così
come almeno negli altri due stati chiamati alle urne nei prossimi
quindici giorni: l’Oregon e il West Virginia.
Fonte
Anche Sanders finirà per fare da camera di compensazione del poco di buono che ha generato lo scazzo popolare in USA verso il sistema.
Sarebbe cosa buona, auspicabile e giusta che il "movimento" creatosi alle sue spalle si smarcasse in tempo dalla sua figura, prima di essere nuovamente normalizzato nella cloaca "democratica". In questo senso 8 anni di presidenza Obama dovrebbero aver insegnato qualcosa.
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