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05/05/2016

USA, l’Indiana incorona Trump

di Michele Paris

Il momento della conquista della nomination Repubblicana per le elezioni presidenziali americane da parte di Donald Trump, previsto da pochissimi fino a qualche mese fa, è arrivato nella serata di martedì al termine delle primarie nello stato dell’Indiana. La vittoria molto netta e il ritiro del suo unico vero rivale, il senatore del Texas, Ted Cruz, lo hanno rispettivamente avvicinato alla maggioranza assoluta dei delegati del partito conquistati e messo al riparo da colpi di mano alla convention di luglio per ribaltare i risultati elettorali di questi mesi.

In Indiana, Trump ha ancora una volta superato il 50% dei consensi, attestandosi al 53%, così da intascare tutti e 57 i delegati in palio nello stato. A Trump servirebbero teoricamente meno di 230 dei 445 delegati che restano da assegnare nelle primarie ancora in calendario, quasi tutte con il sistema maggioritario. L’addio anche del governatore “centrista” dell’Ohio, John Kasich, annunciato mercoledì rende però ormai il prosieguo della corsa in casa Repubblicana una pura formalità.

Se tra i leader e i finanziatori Repubblicani rimangono forti riserve nei confronti di Trump, da qualche settimana sono giunti vari segnali di un probabile accomodamento del partito all’ormai quasi certo candidato alla Casa Bianca. Dopo gli scontri verbali dei mesi scorsi, ad esempio, il presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, Reince Preibus, ha affermato martedì che Trump è ora il “probabile” candidato del partito ed esso deve unirsi attorno al suo nome.

I giornali americani hanno sottolineato l’eccezionalità della corsa e del successo di Trump, il primo candidato alla Casa Bianca di uno dei due principali partiti dai tempi di Eisenhower a non avere mai ricoperto cariche elettive. Trump, inoltre, ha aderito ufficialmente al Partito Repubblicano solo nel 2012, mentre in precedenza aveva donato centinaia di migliaia di dollari a politici Democratici, inclusi i Clinton.

Per trionfare nelle primarie, inoltre, Trump non ha avuto bisogno di ricorrere all’appoggio finanziario di ricchi donatori, avendo in buona parte pagato di tasca propria le spese della campagna elettorale, mentre ha condotto le operazioni nei vari stati non con un’organizzazione imponente ma con un team ridotto all’osso, trasgredendo così a due condizioni che sembravano imprescindibili fino a pochi mesi fa.

La singolarità della sua più che probabile vittoria è legata però soprattutto alla natura del candidato Trump, un populista di destra che non ha avuto scrupoli a offrire proposte apertamente fasciste, e al travolgente sentimento anti-establishment che sta caratterizzando questa stagione elettorale negli Stati Uniti. Uno scenario di certo sgradito a molti Repubblicani ma che è in definitiva il risultato della promozione di forze reazionarie da parte del loro partito e, più in generale, di tutto il panorama politico americano.

La corsa alla nomination Repubblicana è stata segnata dall’emergere, in maniera decisamente fugace, dei candidati sostenuti dall’apparato di potere del partito e, una volta incassato questo sostegno, dal loro puntuale crollo. Ciò è accaduto per Jeb Bush, poi per Marco Rubio e, infine, per Ted Cruz.

Proprio il senatore ultra-conservatore del Texas aveva provato in tutti i modi a fermare Trump, da ultimo attraverso un patto con Kasich, peraltro mai decollato, per ottenere i voti dei sostenitori di quest’ultimo in Indiana e con l’annuncio insolito della scelta del suo candidato alla vice-presidenza, l’ex amministratore delegato di HP, Carly Fiorina.

Cruz ha alla fine pagato un calendario delle primarie che, dopo il suo momento migliore in Wisconsin un mese fa, ha proposto il voto in una serie di stati favorevoli a Trump. Cruz aveva però già perso molte sfide sul suo terreno all’inizio della competizione, cioè nel sud degli Stati Uniti, e soprattutto le sue posizioni di estrema destra e ispirate al fondamentalismo cristiano sono risultate troppo estreme anche per gli elettori Repubblicani.
A fare il resto sono stati i sentimenti non esattamente benevoli dei leader del partito nei suoi confronti e il conseguente sostegno troppo tiepido ottenuto da questi ultimi per costruire una strategia sufficiente a impensierire Trump.

Molti commentatori negli USA, in particolare sulla stampa “liberal”, già da mercoledì hanno rilevato come Trump parta ora da una posizione di netto svantaggio nella sfida di novembre con Hillary Clinton. I sondaggi indicano un distacco in media di dieci punti percentuali dall’ex segretario di Stato e addirittura in alcuni stati tradizionalmente Repubblicani Trump sarebbe in difficoltà.

Alle presidenziali mancano però parecchi mesi e la storia delle elezioni americane non è priva di rimonte in un periodo di tempo così lungo. Soprattutto, poi, Hillary resta una candidata estremamente debole, disprezzata in misura solo leggermente inferiore rispetto a Trump dagli americani e con un lungo elenco di vulnerabilità, determinate in sostanza dai suoi legami inestricabili con i grandi interessi economico-finanziari e dalle tendenze marcatamente guerrafondaie mostrate in decenni di carriera politica.

Ponendo la questione in altri termini, inoltre, pur avendo entrambi livelli negativi di gradimento tra i potenziali elettori, la sfida di novembre potrebbe assumere i contorni dell’outsider contro la quintessenza stessa dell’establishment di Washington, vale a dire una posizione non invidiabile per Hillary alla luce della disposizione degli americani.

Del genere di candidato che il Partito Democratico presenterà a novembre se ne è avuta un’idea ancora martedì. Dopo i successi in cinque delle ultime sei primarie, tra cui a New York, e almeno due settimane di incessante campagna mediatica incentrata su una nomination ormai in tasca, Hillary è riuscita a farsi battere in Indiana da un Bernie Sanders ormai quasi in modalità post-elettorale.

Ai fini della nomination, la sconfitta non avrà ripercussioni, visto che il senatore del Vermont recupererà solo una manciata di delegati senza intaccare l’ampio margine di vantaggio di Hillary. Tuttavia, la favorita Democratica potrebbe giungere all’incoronazione nella convention di Philadelphia a luglio sull’onda di una serie di sconfitte imbarazzanti, rese ancora più gravi dal fatto che arriverebbero insolitamente dopo essersi di fatto garantita la nomination.

Come ha fatto notare lo stesso Sanders recentemente, è possibile poi che Hillary ottenga la maggioranza assoluta dei delegati solo grazie all’appoggio dei cosiddetti “super-delegati”, ovvero quei membri del partito che hanno diritto di voto alla convention ma senza essere vincolati al risultato delle primarie nei loro stati di origine. Se ciò si verificasse, sarebbe un ulteriore segnale del debole consenso popolare per la candidata alla Casa Bianca, in grado di raggiungere questo status solo grazie al massiccio sostegno dell’apparato del partito.

Sanders, da parte sua, appare deciso a rimanere in corsa, nonostante abbia ridimensionato il suo team in maniera drastica e le donazioni a suo favore abbiano fatto segnare una brusca discesa. Il suo obiettivo sembrerebbe essere diventato però quello di coltivare l’illusione che il Partito Democratico possa essere spinto ad adottare una piattaforma “progressista” in vista del voto di novembre.

Il candidato “perdente”, in ogni caso, martedì sera ha salutato il successo nelle primarie dell’Indiana tenendo un comizio in Kentucky, dove si voterà il 17 maggio. Qui, Sanders è dato per favorito su Hillary Clinton, così come almeno negli altri due stati chiamati alle urne nei prossimi quindici giorni: l’Oregon e il West Virginia.

Fonte

Anche Sanders finirà per fare da camera di compensazione del poco di buono che ha generato lo scazzo popolare in USA verso il sistema.
Sarebbe cosa buona, auspicabile e giusta che il "movimento" creatosi alle sue spalle si smarcasse in tempo dalla sua figura, prima di essere nuovamente normalizzato nella cloaca "democratica". In questo senso 8 anni di presidenza Obama dovrebbero aver insegnato qualcosa.

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