di Michele Paris
La quasi certa candidata alla Casa Bianca per il Partito Democratico,
Hillary Clinton, ha rimediato una pessima figura anche nelle primarie
di questa settimana negli stati di Oregon e Kentucky, nonostante in
quest’ultimo sia riuscita a imporsi letteralmente per una manciata di
voti. La prestazione di martedì del senatore del Vermont, Bernie
Sanders, ha fatto così in modo che la corsa alla nomination Democratica
prosegua ancora per qualche settimana, fino almeno all’appuntamento del 7
giugno in vari stati, tra cui quello con il maggior numero in assoluto
di delegati in palio, la California.
Non solo l’ex segretario di
Stato di Obama non è riuscita nemmeno in questa occasione a dare la
spallata decisiva al suo rivale, ma per certi versi ha addirittura visto
aggravarsi i segnali di debolezza già emersi in questa tornata
elettorale. Sanders ha infatti vinto con un comodo margine di vantaggio
in Oregon (54% a 45%) e ha sostanzialmente pareggiato in Kentucky (46,8%
a 46,3%) malgrado entrambe le primarie fossero limitate ai soli
elettori registrati come Democratici.
Negli stati con questa
regola, Sanders non aveva mai vinto, tranne che nel Vermont, mentre i
suoi successi erano giunti in “caucuses” e primarie “aperte”, cioè nelle
quali possono votare per il candidato Democratico anche gli
“indipendenti” e i Repubblicani.
Il team di Hillary nella nottata
di martedì si è affrettato a dichiarare vittoria in Kentucky, facendo
trasparire l’ansia di mettersi al sicuro dalle conseguenze di
un’umiliante doppia sconfitta. La Clinton aveva recentemente annunciato
lo stop delle iniziative elettorali nelle primarie, così da risparmiare
denaro per le elezioni di novembre, ma la prospettiva di una sconfitta
in uno stato come il Kentucky l’ha convinta a tornare sulla propria
decisione.
Qui sembravano sussistere tutte le condizioni per
un’affermazione convincente di Hillary. La sua nettissima vittoria su
Barack Obama nel 2008 doveva ad esempio testimoniare della popolarità
della ex first lady nello stato. Allo stesso modo, com’è quasi sempre
accaduto nei mesi scorsi, Hillary si era assicurata il sostegno di
praticamente tutto l’establishment Democratico locale, compresa la
“Segretaria dello stato”, Alison Lundergan Grimes, la quale ha per legge
alcune responsabilità nel processo elettorale.
Lo scarso
entusiasmo per la favorita Democratica è dimostrato anche dal fatto che
martedì Hillary ha ottenuto meno della metà dei voti rispetto a otto
anni fa e ha ceduto a Sanders tutte le contee carbonifere del Kentucky
orientale, imponendosi invece nei principali centri urbani,
caratterizzati da una forte presenza di afro-americani.
Questa
realtà era sembrata chiara già alla vigilia del voto, con le apparizioni
pubbliche di Hillary che avevano attirato quasi sempre poche centinaia
di persone, contro le migliaia mobilitatesi per Sanders. La Clinton ha
alla fine deciso di non organizzare nessun evento nella serata di
martedì, al contrario del suo rivale che ha tenuto un comizio a Carson,
nei pressi di Los Angeles, in California, di fronte a una folla di 10
mila sostenitori.
Proprio
in questa occasione, Sanders ha pronunciato un discorso tra i più di
sinistra di tutta la sua campagna elettorale, sottolineando le sue
origini operaie, attaccando i poteri forti e Wall Street e invitando il
Partito Democratico ad aprire le porte alla “working-class” americana.
Un cambiamento di tono e una sorta di appello di classe evidenziati
soprattutto dall’insolito riferimento esplicito alla “working-class”
come forza sociale ben definita, solitamente ignorata dalla classe
politica americana se non per dipingerla come irrimediabilmente razzista
e retrograda.
La ritrovata combattività di Sanders è
probabilmente dovuta almeno in parte alla crescente e sempre più aperta
ostilità dell’apparato di potere Democratico nei suoi confronti. Oltre
alla campagna mediatica già in corso da tempo per convincerlo ad
abbandonare la corsa alla nomination visto il vantaggio insormontabile
di delegati accumulato da Hillary Clinton, nei giorni scorsi è partita
una nuova offensiva che intende screditare i sostenitori di Sanders.
Ciò
è coinciso con i disordini registrati alla convention locale andata in
scena settimana scorsa a Las Vegas, dove il Partito Democratico dello
stato doveva nominare un certo numero di delegati da inviare alla
convention nazionale di luglio a Philadelphia. Il caos del Nevada
potrebbe prefigurare, secondo alcuni, le divisioni che rischiano di
emergere la prossima estate anche tra i Democratici e che erano finora
rimaste in secondo piano, anche per l’attenzione della stampa
concentrata in larga misura sui problemi interni al Partito
Repubblicano.
A Las Vegas, l’organizzazione di Sanders si era
meticolosamente adoperata per la nomina di un numero consistente di
delegati favorevoli al senatore, in modo da compensare la sconfitta di
misura subita nei “caucuses” del mese di febbraio. Quando i vertici del
partito hanno però di fatto escluso la maggior parte dei delegati
pro-Sanders, i sostenitori di quest’ultimo hanno protestato
animatamente, finché l’intervento delle forze dell’ordine ha riportato
la calma nell’assemblea.
I giornali americani hanno poi dato
ampio spazio alle accuse della numero uno del Partito Democratico del
Nevada, Roberta Lange, protagonista di un’accesa denuncia contro i
sostenitori di Sanders per avere diffuso il suo numero di telefono
privato, sul quale avrebbe ricevuto centinaia di telefonate e SMS
intimidatori. La vicenda è stata subito raccolta dai leader del partito
vicini a Hillary per invitare Sanders a condannare l’accaduto e, più o
meno velatamente, a chiedergli di farsi da parte per evitare ulteriori
divisioni interne.
Sanders, da parte sua, ha rilasciato una
dichiarazione per denunciare eventuali violenze ma ha ribadito le accuse
alla leadership Democratica di utilizzare “il proprio potere per
impedire un processo equo e trasparente” nella nomina del candidato alla
presidenza.
Le suppliche rivolte a Sanders per accettare il
responso delle primarie e il successo di Hillary Clinton sono tanto più
intense quanto risultano sempre più forti i timori nei confronti di una
candidata profondamente screditata e vista con ostilità da decine di
milioni di americani.
Non solo i più recenti sondaggi su base
nazionale, per quello che possono valere a questo punto della stagione
elettorale, mostrano come Trump abbia virtualmente chiuso il gap che lo
separa da Hillary, ma quotidianamente appaiono notizie che ricordano i
legami di quest’ultima con l’élite economica e finanziaria degli Stati
Uniti. Anche alcune delle stesse iniziative della “frontrunner”
Democratica per promuovere la propria immagine finiscono frequentemente
per mettere in luce i moltissimi aspetti negativi del suo curriculum
politico e personale.
Questa settimana, ad esempio, la Clinton ha
reso pubblica la propria dichiarazione dei redditi relativa al 2015
nella speranza di mettere a segno qualche punto a suo favore nelle
battute iniziali della sfida con Trump. Il candidato Repubblicano non ha
infatti ancora deciso se far conoscere o meno agli elettori i propri
redditi.
La
mossa di Hillary, comune peraltro a tutti i candidati alla Casa Bianca
nell’era moderna, rischia però di trasformarsi nell’ennesimo boomerang.
Oltre ai 5 milioni di dollari incassati dai diritti legati alla sua
biografia uscita nel 2014, la dichiarazione dei redditi di Hillary ha
elencato un’altra serie di discorsi a favore di banche e corporation che
le hanno fruttato singoli compensi anche superiori ai 200 mila o ai 300
mila dollari, per un totale di 1,5 milioni di dollari.
Infine,
in caso di vittoria contro Trump, Hillary ha prospettato l’assegnazione
al marito Bill di un ruolo di primo piano per plasmare le politiche
economiche della sua futura amministrazione. L’ipotesi dovrebbe far
suonare l’allarme tra gli elettori americani, vista l’implementazione da
parte dell’allora presidente Clinton, con il pieno sostegno della
consorte, di una disastrosa agenda economica e finanziaria neo-liberista
nel corso degli anni Novanta.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento