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10/07/2018

Barbara Balzerani: la scrittura porosa della storia

Dal realismo magico della Ortese al rigore filosofico e semantico, intriso di essenza femminile, della de Beauvoir. Dalle ferite dell’Angelus Novus di Walter Benjamin, portatore di una storia “porosa” e da ri/scrivere, al documento “Nuovo Realistico” che fa i conti col post-modernismo dominante e con le derive ermeneutiche del pensiero debole e post ideologico. Dalla rabbia poetica ed iconoclasta della drammaturga inglese Sarah Kane, agli accenti elegiaci della poetessa araba Zhabiya Khamis. Fino all’immediato e scarno lirismo fotografico di Salgado. Sono queste le tracce implicite – a parer mio, ben inteso, perché se ne potrebbero intravedere tante altre, come quelle del femminismo della Lonzi – su cui sembrano muoversi, con passo lento ma inesorabile, impietoso ma appassionato, i romanzi di Barbara Balzerani. Romanzi in cui la politica e l’ideale marxista sono il controcanto, tacito e imprescindibile, attraverso cui lasciar risuonare le note tragiche di un’esistenza in lotta.

Qui, di seguito, un passaggio, tra i più significativi, del suo terzo “Perché io perché non tu”:
«Esistono momenti che si stampano nella memoria e rimangono lì a bruciare dovesse passare una vita. Clic, come uno scatto nella messa a fuoco e il mondo cambia faccia. Se fossi stata zitta avrei prolungato ancora per un po’ l’innocenza ma quelle parole mi uscirono dalla bocca da sole, inconsapevole peccato di tale immodestia da meritare l’immediato castigo. Se ne incaricò la padrona del negozio che, guardandomi come una larva che si crede farfalla, mi fece notare la differenza tra i due vestiti. Portavo uno straccetto da pochi soldi e neanche stavo zitta.

Con un colpo solo mi aveva rivelato che ero povera, che si vedeva e che quindi era meglio che non mi facessi troppo notare il giorno del cerimoniale. Davanti ci sarebbero state quelle come la mia amica, vaporose e abbondanti. Per me, un posto un po’ più indietro, che anche i sacramenti esigono il rispetto dei prezzi e delle stoffe».
Dunque, parola piena, per dirla con Lacan. Parola che storicizza, e linguaggio – nella sua valenza di struttura simbolica – che evoca e non informa, non gioca con sé stesso, confondendo e mischiando le carte. Linguaggio che fa ri/nascere Verità e Storia nell’altro e dell’Altro. Parola che è come un grido nella notte. Quel grido del bambino che chiama l’Amore e lo rende partecipe, pur sotto le bombe al fosforo bianco, sganciate da un’aviazione incurante e chirurgicamente asettica, nella sua atroce potenza devastatrice. Parola di una grande scrittrice, capace di lavorare una materia fatta di volatili, vulnerabili segni, con le mani nude della poesia, solcata dal dolore umano e masticata nella lotta per la sopravvivenza.

“Compagna Luna” “La sirena delle cinque” “Perché io, perché non tu” “Cronaca di un’attesa” “Lascia che il mare entri”. E ora, uscito alcuni mesi or sono, edito sempre da DeriveApprodi, il sesto libro: “L’ho sempre saputo”.

Chi sia Barbara Balzerani, quale sia la sua storia, è o dovrebbe essere noto. Guerrigliera, membro dell’esecutivo delle Brigate Rosse, fece parte del commando che portò a termine il rapimento e l’uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Ha scontato, con una detenzione trentennale ed il carcere duro, i suoi ideali marxisti e il suo sogno – condiviso con un’intera generazione – di cambiare il mondo e quelle regole economiche, quelle sovrastrutture sociali e culturali, fondate su un illusorio e sperequativo contratto sociale.

Uscita di galera, Barbara ha però trovato quel mondo – un mondo in cui il conflitto degli interessi contrapposti era, non solo possibile ma addirittura alla base del sistema democratico, ancorché liberal-borghese; quel mondo, percorso da una secolare Lotta di Classe, che vedeva in netto vantaggio i padroni, e che lei intendeva cambiare, sovvertendo i rapporti di forza e di produzione a vantaggio, questa volta, degli sfruttati – geneticamente mutato. Non lo riconosceva più, quel mondo. Non poteva riconoscerlo. Nulla le apparteneva, se non sé stessa. Il proprio corpo, che pure avevano cercato di spossessarle. La sua voce chiara. La sua intelligenza, che avevano tentato di addomesticare, senza riuscirci. La sua trama, le sue vicende, le sue esperienze da rintracciare, ricostruire, donare.

In quel mondo, devastato dal trionfo del neoliberismo, divenuto dittatura orwelliana del pensiero unico, era come una aliena. La celebrazione ecumenica del pensiero dominante, del turbocapitalismo, della fine della Storia, diffusa dai media e contrabbandata dai social, la rendeva estranea spettatrice di eventi che non avrebbe potuto immaginare. Non avrebbe voluto immaginare! Lei, che si era battuta per il socialismo ed il comunismo. Lei, che aveva combattuto, insieme ai suoi compagni, per la condivisione collettiva dei beni e delle risorse, contro la trincea individualistica degli Ego padronali e contro il paradigma arcaico dello sfruttamento oligarchico delle masse. Lei si trovava, ora, improvvisamente, a vagare, barcollante, tra i fasti spettacolarizzati delle megalopoli high-tech, tra i grafici borsistici della finanza selvaggia e globalizzata, tra le risacche del pensiero debole, tra i profeti del relativismo etico, tra le maglie slabbrate dell’ermeneutica afinalistica, tra le rovine post moderniste, post operaiste, post ideologiche, post industriali.

Sbalzata dalle onde gravitazionali di una perturbazione spaziotemporale, veniva trascinata a largo, in una sorta di universo parallelo, abitato da post/identità. Identità poster, affisse su un muro di facce avatar. Un muro divenuto virtuale ma non per questo meno spietato, nella sua dimensione di isolamento carcerario, “bachechico” – mi si passi la forzatura lunguistica – nell’infinito spazio quantico dell’etere.

E allora, Barbara si è messa a scrivere. A riannodare fili di memoria. Memoria politica e familiare, di luoghi e di lotte. A ricucire e tessere, attraverso la scrittura, brandelli di passato, per riconoscersi e riappropriarsi di sé stessa e della sua Storia.

Finora sono sei, i volumi scritti, che contano poco più di cento pagine l’uno. Sei gioielli di letteratura, intima e militante, storica e politica, cronachistica e magica, familiare e collettiva, che suonano come un ceffone sulle guance flaccide del moralismo e dell’intellighenzia borghese. Quella stessa intellighenzia che, attraverso lo scrittore Antonio Tabucchi, passato a miglior vita, la fece espellere dalla Feltrinelli, con modalità ricattatorie, costringendo la casa editrice – che fu di Giangiacomo, editore e guerrigliero – a scegliere tra lui stesso, affermato intellettuale, e l’ex brigatista.

Ovviamente, la scelta era scontata. Il Mercato ha le sue regole. E contro quel Mercato, e in deroga alle sue leggi, oggi Barbara scrive. I suoi libri vengono letti in mezza Europa, malgrado non occupino gli scaffali di quelle cattedrali erette alla dea Merce, che sono i Supermarket e i Megastore. Non rischieremo mai di entrare in uno di questi lunapark del consumo ed assistere alla miserevole scena, mostrata da Godard in “Crepa padrone, tutto va bene”, dove il Partito Comunista Francese vendeva, a basso costo, il suo programma politico ed elettorale.

La letteratura della Balzerani è sporca di terra e di sangue, fatta di ossa e di nervi. Non certo rimodellata dalla cosmesi plastificante, o confezionata con la carta da parati e i nastrini rosa. I suoi libri hanno l’odore dei mari e delle terre del Sud. Hanno il sapore del vino robusto, la cui uva è bruciata al sole del Mediterraneo e dei paesaggi mediorientali o africani. Raccontano la confidenziale, inconfessata, ruvida delicatezza di un ambiente familiare operaio, che a me ha sempre ricordato quello rurale, narrato da Olmi ne L’albero degli zoccoli. Grondano sudore e fatica proletaria. Ritraggono facce meticce, solcate dalla povertà. Puntano il dito contro l’odio di classe dei signori del mondo:
«La città è là, a due passi, con le sue case di mattoni e cemento, le macchine, le luci, il benessere, la politica e il potere. Organizzata a gironi che più si allontanano dal centro più non sembrano appartenere allo stesso genere umano. Non sono più i luoghi delle occasioni di incontro, di mescolanza, di scoperte, di riscatto. Sono fortini respingenti per i plebei che vi transitano solo per offrire servizi, che altro non è previsto possano fare. Che, scaduto il tempo, debbono rimettersi in marcia per i loro luoghi, oltrepassando i tanti muri alzati. Muri di diffidenza, di diversità di andatura, di padronanza di spazi. Muri controllati dalla complicità di élite aggrappate ai brandelli del privilegio di somigliarsi. Gli uni hanno bisogno degli altri ma non si mischiano, non comunicano.

Sono tutte così le città. Dal primo al quarto mondo. Le differenze sono di grado non di modello. La tanto declamata universalità delle sorti progressive mostra la sua faccia decrepita e cattiva. E’ la povertà a creare la ricchezza, col prelievo forzato delle risorse e il trucco degli interessi di un debito inesauribile. Il passato e il futuro è scritto in tutta evidenza». (L’ho sempre saputo).
Raro esempio, quello dell’autrice, di scrittura politica che sa trasformarsi – con le cadenze dolenti di chi la sofferenza e l’ingiustizia, di qualunque parte del mondo, le ha provate e le avverte sulla sua stessa pelle – in tensione poetica. E perciò stesso, scrittura etica, che riesce, attraverso lo struggente bianco e nero di immagini dai densi contrasti emotivi, a incunearsi, scavare, penetrare, come una talpa dagli occhi ben aperti, tra le contraddizioni patenti e intollerabili di un sistema – il nostro sistema – fondato su quel Capitale finanziario, mortale come le cellule killer di un cancro in metastasi e votato al Moloch di uno sviluppo (non “progresso”, avrebbe precisato Pasolini) disumano e disumanizzante.

Una bellezza letteraria asciutta, che nulla concede all’artificio della retorica, pur nella perfetta cesellatura della parola e della frase. Scabra eppure, a suo modo, musicale, con quel procedere per incursioni brevi e improvvisate nelle impervie strettoie del pensiero. Ma soprattutto, scrittura capace di divaricare la memoria, fino a renderla, riprendendo il concetto espresso in apertura, Storia porosa, come il tufo napoletano descritto da Benjamin (La cittá Porosa, appunto). Una “bellezza amara” la chiamerebbe Leo de Berardinis, fatta di immagini che squarciano improvvisamente, con dolorosa violenza metaforica, la pagina. Per citare Roland Barthes, siamo al Grado zero della scrittura. Una scrittura che però non rinuncia alla sua possibilità di farsi poesia letteraria.

Una parola dura, quella della Balzerani, dunque – appena levigata dalla umana sensibilità di chi sa trovare la tenerezza anche in mezzo alle macerie di una città distrutta o al chiuso di una cella del carcere – senza ipocrisie, netta, che non lascia scampo, e che costringe chi legge ad interrogarsi, storicamente, sul proprio ruolo, in un’epoca e in un mondo sfregiati dalla ferocia dell’avidità, dell’accumulo, del profitto. Un mondo di cui l’ex guerrigliera ci lascia ascoltare, avvertire, guardare, percepire, epidermicamente, le crudeli disuguaglianze, perpetrate dalla minoranza ricca, spesso razzista, ai danni delle masse povere e vessate. Masse costituite da donne e uomini singoli, fragili nelle loro solitudini e di fronte all’angoscia, tragicamente sofoclea, di un’umana esistenza che, oramai, sembra avergli scippato – attraverso i costruttori di incubi in cemento, di città sfavillanti alle stroboscopiche luci del consumo e di muri per tener lontano lo scarto maleodorante di carni, destinate al macero della produzione in serie – anche il sogno di un riscatto sociale, economico, politico.

Masse alle quali, la Balzerani, come una sorta di Antigone contemporanea, restituisce giustizia e dignità, con la sua forza di combattente, vomitata su una pagina che si trasforma in atto d’accusa e sentenza di condanna contro quel potere che, una volta, ha voluto accusarla, processarla e condannarla. E con lei, non solo una generazione intera, ma quelle stesse masse proletarie e popolari, di cui le élite non prevedono mai il riscatto, nella loro crudele, ferina arroganza.

Attraverso le pagine dei suoi piccoli e preziosi romanzi, piangiamo lacrime pesanti come pietre, versiamo sangue innocente per le strade, soffochiamo sotto la coltre volgare del denaro, sentiamo l’isolamento intimo del carcere, che rompe il pensiero e stupra il corpo. Quel carcere dei padroni, esteso ad ogni latitudine, astratto eppur concretissimo, che vorrebbe spezzare la nostra resistenza e renderci rassegnati.

Ma l’indignazione, pagina dopo pagina, frase dopo frase, fonema dopo fonema, monta assieme al vomito poetico, filosofico, politico, esistenziale, dell’autrice. E il desiderio di quel mondo, diverso e possibile, l’insopprimibile desiderio di Libertà dalla schiavitù del bisogno e della sussistenza salariata, torna ad affacciarsi, come un bambino, dalle sbarre di una culla.

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