Michael J. Glennon, su Le Monde Diplomatique, svernicia senza pietà la “rivalutazione democratica” della Cia e dell’Fbi, negli Usa, che si è fin qui basata su un unico elemento: queste due servizi più o meno segreti sono entrati in conflitto con Donald Trump, a partire dall’indagine chiamata Russiagate. Un po’ come è avvenuto in Italia, con la magistratura e una parte dei “servizi”, tra Mani Pulite e gli scandali pubblico-privati di Berlusconi.
La debolezza e smemoratezza dei liberal statunitensi sono da questo punto di vista speculari ai deficit intellettuali della cosiddetta “sinistra” italiana, e il guardarle da lontano consente di far risaltare, senza troppa fatica, anche le illusioni degli “ingenui” che ci stanno intorno.
Il punto debole è evidente: incapaci di battere politicamente il mostro fuori dalle regole, emerso nonostante quelle regole, si spera che il vecchio orco antidemocratico – la Cia! – faccia il lavoro che i liberal non riescono a fare. Gli spioni incaricati di distruggere ogni parvenza di movimento o gruppo politico progressista improvvisamente rivalutati come “scudi della democrazia”. Nemmeno nel peggiore incubo...
La via giudiziaria sembra una scorciatoia, ma ha ovviamente le sue pesanti controindicazioni. In Italia (già dai tempi delle “leggi d’emergenza” contro la lotta armata) la magistratura è venuta a un “ruolo politico” – scrivere le leggi al posto del Parlamento, decidere quali fenomeni contrastare e come, ecc. – parecchio fuori dai limiti indicati dalla Costituzione.
Negli Usa – dove la magistratura inquirente è elettiva, spesso primo gradino della carriera politica – “l’autonomia operativa” è diventata abituale per le innumerevoli “agenzie”.
Non può sfuggire a nessuno il fatto che, se dei “corpi operativi” dello Stato si muovo indipendentemente o in sostituzione della volontà politica espressa dagli elettori, abbiamo fatto un passo oltre e fuori degli ambiti della democrazia parlamentare. Nella quale, secondo i teorici, la decisione politica spetta agli organi eletti, mentre l’esecuzione viene ordinata/delegata agli apparati amministrativi. E quindi sperare che la Cia o l’Fbi “ci liberino” da Trump è altrettanto stupido dello sperare che un Di Pietro o un Davigo ci liberino da Berlusconi o Salvini (la storia dei 49 milioni della Lega è giudiziariamente piuttosto fragile, visto che riguarda soprattutto Bossi, ma alla speranza è inutile chiedere equilibrio logico).
In Italia, per non farci mancare nulla, abbiamo avuto anche un altro processo di sostituzione decisivo. Negli anni ‘90, l’immagine dell’Unione Europea aveva raccolto le simpatie della stragrande maggioranza degli italiani in base a poche ma decisive questioni: la libertà di movimento nel continente, una moneta che sembrava facilitare circolazione e scambi (evitandoci di dover fare complicati calcoli sul cambio di giornata) e – per la “sinistra” strapazzata da Berlusconi e il suo codazzo di fascisti (Fini, Gasparri, Storace, ecc) – la convinzione immotivata che “la civiltà europea” ci avrebbe emancipato da storici vizi nazionali che, per l’appunto, portavano ad attribuire il consenso politico ai peggiori tra noi.
Sappiamo com’è andata. L’Unione Europea ha progressivamente assunto molte delle funzioni centrali dello Stato (politica di bilancio, scrittura della legge finanziaria o di stabilità, decisioni sui tagli della spesa pubblica e lo smantellamento del welfare, ecc.), senza mettere mai bocca sulla feccia che strabordava nelle istituzioni nazionali. Solo nel 2011 “i mercati” e la Troika intervennero davvero per rimuovere il Cavaliere da Palazzo Chigi, facendo volare lo spread e precipitare il valore azionario di Mediaset; ma solo per imporre quella botta d’austerità che il Caimano, da solo, non riusciva a far passare (basti ricordare i tentativi d’assalto, sempre respinti, all’art. 18).
Siccome la Storia è cattiva ed ironica, le politiche europee – massacrando il blocco sociale che aveva storicamente sostenuto “la sinistra” – hanno seminato impoverimento, disorientamento, paura esistenziale e contrattuale, diffidenza verso “la politica” e quindi anche il populismo generico o reazionario che ora governa questo paese. Del resto, cosa ci si poteva aspettare da un “sistema di trattati” indifferente ai cambi di governo locali, che assorbe progressivamente “sovranità nazionali” e poteri decisionali sulla vita di centinaia di milioni di persone, senza mai passare per la validazione democratica?
L’Italia è stata spesso il “laboratorio degli orrori” che poi, sperimentati qui, sono dilagati anche altrove. Fossimo insomma nei panni dei liberal statunitensi, toccheremmo ferro...
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Le cure amorevoli della Cia
MICHAEL J. GLENNON *
Quando i democratici si affidano allo Stato nello Stato. Nella sua battaglia contro Donald Trump, la sinistra statunitense si è ritrovata degli alleati inaspettati: i servizi di intelligence. In guerra aperta con il presidente, che accusano di collusione con la Russia, questi ultimi si presentano come l’estremo baluardo della democrazia. Bisogna aver perso la memoria per credere a questa versione...
Con l’elezione di Donald Trump alla Casa bianca, gli statunitensi avrebbero potuto essere più prudenti nel cantare le lodi del loro sistema politico. Non è stato così. Il discorso sull’eccezionalità degli Stati Uniti ha semplicemente cambiato di forma: ormai c’è chi si compiace nel ripetere che i meccanismi di controllo dei poteri previsti dalla Costituzione – il principio dei «pesi e contrappesi», o «checks and balances» – aumentati grazie alla potente burocrazia della sicurezza nazionale, offrono una capacità di resistenza unica alla minaccia dell’autoritarismo. Per loro, la Central Intelligence Agency (Cia), il Federal Bureau of Investigations (Fbi) o anche la National Security Agency (Nsa) costituiscono degli argini contro la potenziale deriva di Trump. Nel progetto dei padri fondatori la burocrazia non era di loro competenza. Quando Thomas Jefferson viene eletto presidente nel 1801, il potere esecutivo si limita a 132 funzionari e il gabinetto del presidente è composto da un solo membro – il suo segretario personale. Inoltre, prima di lui, George Washington e i suoi colleghi non avevano previsto l’emergere delle formazioni politiche, il partito Democratico-Repubblicano nasce solo nel 1791, quattro anni dopo la redazione della Costituzione. Nell’ordine politico che man mano si va imponendo l’interesse dei membri del Congresso è quello di far vincere un candidato del loro schieramento. Sin da allora, il solo rimedio costituzionale contro gli eventuali guasti del potere esecutivo – la procedura di «messa in stato di accusa» (impeachment), che permette al potere legislativo di destituire un membro del governo – si rivela poco adatto per punire i crimini e i delitti minori commessi dagli amici e dagli alleati del presidente.
«Ci siamo dal 1908»
Una soluzione per colmare questa carenza viene trovata alla fine del XIX secolo: i «procuratori speciali» o «indipendenti», che rimpiazzano il Dipartimento di giustizia quando su un’inchiesta relativa a uno dei rami del potere aleggia il sospetto di un conflitto di interesse.
Il primo fu John B. Henderson, nominato nel 1875 per indagare sullo scandalo Whiskey Ring, un caso di sottrazione di fondi pubblici che riguardava alcuni produttori di whiskey, dei funzionari del tesoro e dei responsabili politici. L’ultimo in ordine di tempo si chiama Robert Mueller, che dal maggio 2017 si interessa a una ipotetica collusione tra la campagna elettorale di Trump e il governo russo.
Si potrebbero menzionare ugualmente William Cook, incaricato nel 1881 di una questione di corruzione nel servizio postale; Atlee Pomerone e Owen Roberts, che nel 1924 tentarono di far luce su uno scandalo di tangenti nell’attribuzione di concessioni petrolifere; o ancora Archibald Cox. Nominato nel maggio del 1973 nell’ambito del Watergate, un affare di spionaggio politico che implicava la Casa bianca, venne congedato nel mese di ottobre dal presidente Richard Nixon.
In effetti, i procuratori «indipendenti» sono una soluzione insoddisfacente: la loro nomina dipende dal benvolere del Dipartimento di giustizia e non c’è nessuna barriera istituzionale per prevenire la loro destituzione. L’indipendenza amministrativa del resto è un’arma a doppio taglio. Necessaria nel caso dei procuratori speciali, è ugualmente molto apprezzata dai burocrati della sicurezza nazionale che da qualche anno non fanno che reclamare più autonomia. Prima, quand’erano scontenti di una decisione presidenziale, manifestavano la loro opposizione in modo passivo, per esempio con un aumento della lentezza amministrativa. Ora manifestano apertamente la loro opposizione moltiplicando i pubblici rimproveri e le fughe di notizie alla stampa.
James Comey, quando dirigeva l’Fbi, non ha esitato a rivelare una conversazione nel corso della quale il presidente Trump gli avrebbe, a suo dire, domandato di abbandonare le inchieste che riguardavano Michael Flynn, accusato di avere mentito sui legami con la Russia. Philip Mudd, che è stato sia nella Cia sia nell’Fbi, ha giustificato l’iniziativa del suo ex capo. «Quelli dell’Fbi hanno rialzato la testa» avvertiva sulla Cnn il 3 febbraio 2018, «ed ecco cosa le diranno, signor Presidente: “se lei pensa di farci desistere da questa indagine cercando di intimidire il direttore, è meglio che ci pensi due volte. Lei è lì da tredici mesi, noi ci siamo dal 1908 [anno della nascita dell’Fbi], se vuole continuare con questi giochini, saremo noi a vincere”».
Samantha Power, ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite durante la presidenza Obama, ha affermato su Twitter, il 17 marzo 2018, che «non era una buona idea contrariare John Brennan», giustificando così le dichiarazioni ostili nei confronti di Trump dell’ex capo della Cia (dal 2013 al 2017). Come precisa infatti Charles Schumer, capo della minoranza democratica al senato, «chi lavora nei servizi di intelligence ha mille modi per vendicarsi» (1).
Dichiarazioni simili lasciano basiti. La Costituzione prevede certamente alcuni meccanismi di contropotere per impedire agli eletti di sragionare, ma di sicuro non includono i funzionari della sicurezza nazionale. Al contrario: se i cittadini fanno affidamento sulle agenzie di intelligence è perché queste devono rendere conto ai rappresentanti politici eletti. Nel momento in cui questo legame con il voto popolare viene spezzato sparisce pure la legittimità costituzionale delle agenzie.
Molti statunitensi detestano Trump, ma al contrario del detto popolare, in politica il nemico del mio nemico non è per forza mio amico. Bisogna ignorare tutto della storia recente degli Stati Uniti per considerare i servizi di intelligence come dei bastioni in difesa delle libertà civili e politiche.
Immergersi nel rapporto della commissione Church, dal nome del senatore democratico dell’Idaho, permette di ritrovare la memoria. Pubblicato nel 1976 (2), questo rapporto espone in modo dettagliato una serie di macchinazioni dissimulate sotto dei nomi dagli accenti hollywoodiani. Queste macchinazioni non concernono crimini occasionali, commessi da cowboy solitari, ma operazioni pensate minuziosamente, elaborate da quei responsabili dei servizi che ispirano oggi tanta fiducia ad alcuni. Per più di un decennio questi servizi hanno, secondo le parole del politologo Loch Johnson, «impiegato la propria astuzia contro le persone che dovevano proteggere» (3), mostrando come agenti zelanti che agiscono in segreto possano rovesciare progressivamente l’equilibrio tra libertà e sicurezza.
Il programma Cointelpro (Counter Intelligence Program) fu condotto dall’Fbi dal 1956 al 1971, e doveva individuare i gruppi e gli individui «sovversivi» vale a dire gli oppositori alla guerra del Vietnam, i militanti dei diritti civili, per porre fine alla loro attività. Per far questo l’Fbi ha sollecitato e ottenuto la collaborazione del servizio di riscossione delle imposte. Si è infiltrato in numerose organizzazioni religiose, dentro le università e nei media. Si è adoperato per alimentare la violenza in seno ai gruppi afroamericani o per screditare i loro dirigenti, in particolare inviando lettere anonime, di cui una a Martin Luther King con l’intenzione di spingerlo al suicidio.
Tutte queste iniziative violavano la legge. E tutto sembra indicare che il programma fosse stato approvato solo dall’Fbi, e persino il vicedirettore ne ignorava l’esistenza.
Anche la Cia ha preso di mira il movimento pacifista con l’operazione Caos, un vasto piano di spionaggio portato avanti tra il 1967 e il 1973. Ha stilato allora una lista di 100 organizzazioni e di 7.200 persone che intendeva sorvegliare, sebbene svolgessero attività perfettamente legali negli Stati Uniti. Inoltre, grazie all’operazione HT Lingual, la Cia ha aperto e letto decine di migliaia di lettere (provenienti dall’estero o dirette all’estero) aventi per mittente o destinatario cittadini statunitensi. Istituito nel 1952 questo programma è durato più di vent’anni. Nessuna sottocommissione di controllo varata dal Congresso ne aveva mai sentito parlare. All’inizio degli anni ’70, i direttori della Cia e dell’Fbi hanno mentito al presidente Nixon affermando che il programma era stato interrotto.
Un cane da guardia poco feroce
Nell’ambito del progetto Shamrock, avviato l’indomani della seconda guerra mondiale, la NSA ha raccolto illegalmente milioni di telegrammi internazionali, ricevuti o inviati da cittadini statunitensi. Secondo la commissione Church si trattava allora del «più vasto programma di intercettazione delle comunicazioni». Queste intercettazioni non furono autorizzate da nessuna istanza giuridica e non è certo che siano state approvate dal presidente, o che ne fosse stato informato.
Nixon sembrava peraltro avere una conoscenza molto vaga della Nsa. Il 16 marzo del 1973, durante una conversazione nello studio Ovale l’avvocato del presidente, preoccupato, gli fa notare che autorizzando il piano Huston (portato avanti da Cia, Fbi ed Nsa contro i militanti di estrema sinistra), ha spinto illegalmente la Nsa a prendere di mira dei cittadini statunitensi. Nixon risponde: «Che cos’è la Nsa? Che tipo di azioni conduce?».
Queste violazioni risalgono certo a diversi decenni fa. Da qui l’idea che non possano riprodursi, poiché il controllo giudiziario e la sorveglianza esercitate dal Congresso oggi sono diventate più rigorose. Un tale ottimismo non è giustificato. Sebbene esistano delle eccezioni – nel maggio del 2015, per esempio, una corte di appello federale ha giudicato illegale uno dei programmi di intercettazioni telefoniche della Nsa reso pubblico da Snowden – di solito i tribunali respingono le denunce che vengono depositate contro i programmi di sicurezza nazionale, in quanto non risultano di loro competenza, ma senza mai affrontare veramente la questione.
Khaled al Masri può darne una testimonianza. Scambiato per uno dei quadri dirigenti di al Qaeda, questo cittadino tedesco è stato arrestato dalla Cia in Macedonia nel 2003. Trasferito in Afghanistan tramite i «voli segreti», è stato torturato e imprigionato per mesi. Una volta rilasciato sporge denuncia negli Stati Uniti, ma il tribunale la respinge. Il motivo? Un’inchiesta potrebbe rivelare segreti di Stato.
La fermezza del Congresso si è manifestata nuovamente durante l’inchiesta sul programma di detenzione e sugli interrogatori della Cia. La più vasta mai realizzata su questa questione. Il rapporto di oltre seimila pagine, pubblicato nel 2014 dalla commissione di inchiesta del Senato, ha stabilito che la Cia ha sistematicamente mentito al Congresso e alla Casa bianca sulla gravità e sull’efficacia delle «tecniche di interrogatorio potenziato» inflitte ai detenuti (4).
Il documento non mette però in discussione la legalità di queste tecniche, né raccomanda qualche riforma destinata ad evitare che si ripetano. Inoltre una nota discreta a piè di pagina precisa che la commissione si è vista rifiutare l’accesso a 9.400 documenti ritenuti rilevanti per le indagini. Ne ha sollecitato la consultazione in tre successive lettere dirette al presidente Barack Obama, che non ha mai risposto. La reazione della commissione è stata di abbandonare l’inchiesta. E la commissione è il cane da guardia più feroce del Congresso...
Ecco a cosa assomigliano oggi le agenzie salutate come il baluardo della democrazia statunitense. Come essere certi che un giorno esse non riprenderanno le vecchie abitudini invocando magari questioni «urgenti» per lo Stato? I servizi di intelligence non hanno l’abitudine di controllare le decisioni dei dirigenti eletti. È piuttosto vero il contrario. Così, quando Trump rimprovera all’Fbi di non avere impedito la sparatoria di Parkland, nella quale sono morte diciassette persone, in un liceo della Florida lo scorso febbraio, abbiamo il diritto di domandarci perché il presidente non abbia fatto niente. Dopo tutto l’Fbi dipende dal Dipartimento di giustizia e lavora quindi per lui. Comey stesso l’ha riconosciuto «in quanto membri del potere esecutivo, siamo tutti posti sotto l’autorità diretta del presidente». Quando la funzione pubblica interviene per sostituirsi all’arbitrato degli elettori finisce per erodere quella democrazia che deve proteggere.
Note
(1) «The Rachel Maddow Show», Msnbc, 4 gennaio 2017.
(2) «Intelligence activities and rights of Americans», Commissione del Senato incaricata di esaminare le operazioni del governo, Libro II, 1976. www.intelligence.senate.gov
(3) Loch Johnson, Spy Watching: Intelligence Accountability in the United States, Oxford University Press, 2018
(4) «Senate Intelligence Committee study on CIA detention and interrogation program», Commissione di inchiesta del Senato, 2014, www.feinstein.senate.gov (Traduzione di Riccardo Corsi)
* Professore alla Fletcher School of Law and Diplomacy, Università di Tufts (Medford, Massachusetts), autore di National Security and Double Government, Oxford University Press, 2014.
Fonte
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