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24/07/2018

Ego te absolvo, in nomine Ceo

Se potessimo racchiudere in una sola notizia, in un solo evento, lo spirito dei tempi che corriamo, questa sarebbe la vicenda Marchionne. Non si tratta, in questo momento, di prendere parte ai commenti estasiati tanto per il suo lavoro (figuriamoci) quanto per la sua prossima morte (per quanto…). Va da sé che a noi della vita di uno come Marchionne ci interessa il giusto, senza per questo sconfinare nella facile battuta che risulta, per l’appunto, fin troppo facile. Quello che non torna, persino rimanendo completamente dentro la cultura media dell’attuale crisi liberista, è l’esaltazione politica, economica, giornalistica, culturale, del manager. La beatificazione del Ceo, questa davvero ci mancava. Un tempo, neanche troppo lontano, avremmo assistito ad un più ossequioso e compiaciuto silenzio. Marchionne non è il padrone della Fiat, oggi Fca. Non assistiamo dunque all’agiografia del capitano coraggioso, dello spirito animale, dell’imprenditore visionario. Non subiamo le magnifiche sorti e progressive di un Agnelli, di uno Steve Jobs, o di qualche altro capitalista in grado di riattivare il ciclo di valorizzazione del proprio capitale al prezzo di licenziamenti, decurtazione salariale, delocalizzazioni e innovazione tecnologica. Siamo qui all’onanismo manageriale, alle laudi del tecnicismo finanziario, incarnazione dello spirito bocconiano della business school e del risk management. Questo salto di qualità descrive una trasformazione ideologica che si fa antropologica. Perché se un tempo ad essere oggetto di venerazione capitalista era il concetto di “rischio”, cioè la mobilitazione di capitali sottratti alla rendita patrimoniale, oggi siamo in presenza di qualcos’altro. Siamo all’apoteosi della gestione aziendale, punto d’incontro tra capitali sottovalorizzati e moltiplicatore finanziario. L’altra, grande ma non completamente inaspettata, novità è l’incanto manageriale dell’ex socialdemocrazia. Se il Corriere dedica otto pagine d’apertura alle condizioni di salute del Nostro, è Repubblica a farsi portavoce servile degli interessi non tanto (o non solo) del gruppo industriale Fca, quanto nell’innalzare l’edificio culturale della sua divinazione. Repubblica sa svolgere il suo compito. Se nelle pagine dello schieramento confindustriale la venerazione viene espressa per bocca dei suoi simili (altri imprenditori, politici collusi, ingegneri invidiosi), dal giornale-partito centrosinistro la divinazione procede per bocca dei suoi presunti avversari. Oscar Farinetti e Fausto Bertinotti, certamente. Ma soprattutto gli operai. Soltanto loro, chi altri d’altronde, possono intronare definitivamente Marchionne col titolo di “difensore del lavoro”, delle scelte “dure ma necessarie”, del “salvatore dell’azienda” e, nientemeno, della “italianità” di una delle ultime grandi imprese del paese. Bisogna riconoscere al manifesto il coraggio di non essersi arreso al quieto vivere, almeno in questo caso. Sta morendo un affamatore di lavoratori, qualsiasi cosa possa dire la mobilitazione ideologica schierata a difesa del management aziendale. Perché non dirlo? Si può essere civili – non sghignazzare cioè sulla morte altrui – senza venire meno alla verità. Ma è proprio questa civiltà ad essere oggetto di ricontrattazione in questo momento. Chi non si adegua all’acclamazione è posto fuori dal confronto civile. Che vede nel Ceo bilingue l’unica possibile sopravvivenza di un capitalismo senza più capitali da valorizzare.

[Così vanno le cose dalle parti di casa Marchionne]

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