di Roberto Prinzi
Da quando eletto alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump
ha più volte rilasciato nel corso dei mesi (se non dei giorni)
dichiarazioni contraddittorie. Quanto detto ieri, durante la conferenza
stampa congiunta con il premier italiano Conte, rientra in questa
“tradizione” ormai consolidata: il leader repubblicano si è detto pronto a incontrare il suo pari iraniano senza precondizioni
per discutere di come migliorare i rapporti con Teheran dopo l’uscita
americana a maggio dall’accordo sul nucleare siglato con la Repubblica
islamica nel 2015. È stato ieri a tratti un The Donald diverso da quello
che conosciamo: “Io incontrerei chiunque, credo negli incontri”
soprattutto in quelli dove sono in ballo potenziali guerre ha precisato
ai giornalisti stupiti.
Con il suo solito fare da spaccone, il presidente ha poi aggiunto:
“Non so se tuttavia loro sono pronti [a farlo]. Io ho posto fine
all’intesa con l’Iran [sul nucleare], era un accordo ridicolo. Credo che
loro probabilmente vorranno alla fine incontrarmi e sono pronto a farlo
in qualunque momento lo desiderano. Senza precondizione”. La risposta da Teheran è arrivata immediata:
“Rispettare i diritti della nazione iraniana, ridurre le ostilità e
ritornare all’accordo sul nucleare sono i passi che devono essere
compiuti per aprire la strada sconnessa del dialogo tra Iran e
l’America” ha twittato stamattina Hamid Aboutalebi, un consigliere di
Rouhani.
Certo, se un incontro dovesse esserci tra le due parti sarebbe clamoroso:
intanto perché nessun inquilino della Casa Bianca ha incontrato un
presidente iraniano da quando Washington ha interrotto le relazioni
diplomatiche con Teheran un anno dopo la Rivoluzione islamica del 1979
che ha deposto lo shah. Solo nel 2013 l’ex presidente Usa Obama provò a
rompere il gelo delle relazioni diplomatiche parlando con Rouhani a
telefono, un gesto simbolico che forse aprì le porte a quella intesa sul
nucleare raggiunta due anni dopo, ma di cui, però, Trump ha fatto carta
straccia due mesi fa. In secondo luogo perché giunge dopo che
Washington ha più volte intimato agli iraniani di smettere di sostenere i
gruppi armati pro-iraniani attivi in Yemen e Siria e di minacciare
l’alleata di ferro americana (Israele).
Che le parole di Trump restino carta morta, almeno nel breve
termine, non c’è alcun dubbio. La Casa Bianca, infatti, si è subito
affrettata a precisare che la volontà di Trump di incontrare Rohani non
cambia di una virgola l’intenzione dell’amministrazione repubblicana di
imporre nuovamente il 6 agosto e il 4 novembre tutte le
sanzioni contro la Repubblica islamica per il suo programma nucleare,
né impedirà agli Usa di continuare a “cercare cambiamenti
nell’atteggiamento del governo iraniano”. Washington ha sì
spiegato che Trump “è aperto al dialogo e ai negoziati”, ma che questo
non significa la rimozione delle sanzioni o ristabilire relazioni
diplomatiche e commerciali. Ancora più netto è stato il commento del falco della sua amministrazione, il Segretario di Stato Mike Pompeo.
Pompeo non ha usato giri di parole: intervistato dalla Cnbc, ha detto
infatti che “se gli iraniani dimostreranno un impegno a compiere
fondamentali cambiamenti su come trattano il loro popolo, ridurranno il
loro atteggiamento maligno e concorderanno su una intesa sul nucleare
che impedirà la proliferazione, allora il presidente si è detto pronto a
sedersi a discutere con lui [Rouhani]”.
Per quanto dunque poco credibili, tuttavia le parole di Trump
di ieri abbassano i toni dello scontro con l’Iran che aveva raggiunto
un apice molto pericoloso la scorsa settimana quando il ricco
presidente Usa aveva twittato alla sua controparte iraniana di non
“minacciare mai gli Usa” perché altrimenti “subirete conseguenze che
pochi nella storia hanno sofferto”. Il cinguettio giungeva come risposta
alle parole di Rouhani che, il 22 luglio, aveva avvertito gli americani
che le politiche ostile degli Usa avrebbero potuto causare la “madre di
tutte le guerre”.
Se le dichiarazioni di Trump lasciano per ora il tempo che trovano, molto
più significativa è stata invece la decisione del Consiglio supremo
della Sicurezza nazionale iraniano di liberare Mir-Hossein Mousavi (76
anni), sua moglie Zahra Rahnavard (66) e Mehdi Karrubi (80), i tre
leader del Movimento verde d’opposizione. Un rilascio –
annunciato due giorni fa dal figlio di Karrubi, Houssein – che ero stato
una delle promesse elettorali del presidente Rouhani nel 2013 e nella
campagna elettorale dello scorso anno.
Ora la palla passa alla Guida suprema Khamenei che, come
sempre accade quando bisogna prendere decisioni importanti, dovrà
stabilire se approvare la decisione o esercitare il diritto di veto. Che
la decisione del Consiglio supremo (organismo formato da figure
governative e militari nominate dal presidente e dalla Guida Suprema)
possa essere letta all’interno delle crescenti pressioni americane e al
peggioramento della crisi economica pare essere fuori di dubbio. La
mossa sembrerebbe essere il tentativo di abbassare il tono dello
scontro interno e di cercare di ricompattare le file in una fase quanto
mai delicata per gli iraniani.
I tre leader del Movimento verde d’opposizione sono agli arresti domiciliari dal 14 febbraio 2011,
da quando cioè avevano chiesto l’autorizzazione per dimostrare il loro
sostegno alle proteste che allora sconvolgevano il mondo arabo. Ma la
loro richiesta fu giudicata troppo rischiosa dalla leadership iraniana:
il loro appoggio alle cadute del regimi si sarebbe potuto trasformare in
una battaglia contro le istituzioni governative iraniane. Uno scenario
possibile visti i precedenti di due anni prima quando cortei di
proteste improvvisati affollarono le strade iraniane dopo la riconferma
(con brogli) dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza
del Paese.
Correva l’anno 2009 e migliaia di iraniani scesero in piazza
chiedendo “dov’è il mio voto”? e indossando ai polsi e alle fronti
braccialetti e bandane verdi. Già il verde: il colore che richiama il
profeta Mohammed e la sua famiglia a cui appartiene anche Mir-Hossein
Mousavi, il cui titolo Mir-Hossein è destinato a chi proviene dalla
regione dell’Azerbaigian ed è l’equivalente di Seyed (che vuol dire
appunto discendente del messaggero Mohammad).
L’apertura verso i tre leader d’opposizione giungeva nelle ore in cui la valuta locale continuava a crollare.
Domenica, infatti, è stato registrato un nuovo record negativo: un
dollaro equivaleva a 102.000 rial. In pratica in soli 4 mezzi il valore
della valuta iraniana si è dimezzato rispetto alla moneta statunitense.
Proprio la crisi finanziaria aveva spinto la scorsa settimana il
presidente Rouhani a sostituire il direttore della Banca centrale,
Valiollah Seif.
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