Negli ultimi anni si sono formate due
opinioni contrapposte sulle cause della decadenza economica e
industriale italiana. Schematizzando drasticamente, una riconduce tali
cause all’integrazione economica e valutaria europea (Uem), l’altra
assolve quest’ultima, escludendo di conseguenza l’utilità di una uscita
del nostro Paese dall’euro e dalla Ue. Secondo quest’ultima visione il
declino italiano sarebbe imputabile esclusivamente alla mancanza di una
politica industriale, collegata alla fragilità della struttura
industriale italiana, caratterizzata da imprese nane, poco orientate
all’export, scarsamente innovative e concentrate in settori produttivi
maturi (agroalimentare, turismo, beni di lusso).
Il declino italiano, tempi e cifre
Il primo aspetto da chiarire è se e in
quale misura il declino italiano, nel Pil e nella manifattura, si sia
manifestato nel periodo precedente all’introduzione dell’euro
nel 2002. La dinamica del Pil non denota una marcata tendenza al
declino, almeno in confronto alla Germania e alla Ue, prima dell’euro
(Fig.1). La crescita media annua dell’Italia tra 1995 e 2007 è analoga a
quella della Germania (1,5% contro 1,6%), mentre è inferiore, ma non di
molto, rispetto a quella della Ue tra 1995 e 2001 (1,7% contro 2,4%).
La divergenza tra l’Italia, da una parte, e la Ue e soprattutto la
Germania, dall’altra, inizia dopo l’introduzione dell’euro, accelera con
lo scoppio della crisi nel 2007-2008, ma si approfondisce solamente a
partire dal 2011. Ad ogni modo, tra 2007 e 2017, l’Italia decresce
mediamente per anno dello 0,6%, mentre la Ue cresce dello 0,8% e la
Germania dell’1,2%.
Fig. 1 – Andamento del Pil di Italia, Germania, e Ue (2010=100, dati a prezzi concatenati; 1995-2017)
Fonte: database Eurostat
La divergenza successiva al 2011 fu
dovuta all’impossibilità, di fronte alla maggiore crisi dal dopo guerra,
a manovrare sui tassi di cambio e sui tassi d’interesse, e
all’imposizione di una rigidissima austerità da parte del governo di
Mario Monti e di quelli successivi, in ottemperanza ai trattati europei
ed in particolare al Fiscal compact.
Inoltre, il regime di cambi fissi introdotto con l’euro ha favorito la
Germania – che ha registrato una sottovalutazione del tasso reale di
cambio nel 2014 tra il 5% e il 15%[i]
– spingendone le esportazioni. L’Italia, invece, ne è stata
svantaggiata, e ha dovuto procedere a una drastica contrazione della sua
base produttiva e occupazionale e alla riduzione del costo del lavoro
per poter recuperare competitività nelle esportazioni. Sono state
proprio la forte ristrutturazione e l’austerity, combinate insieme, a
deprimere pesantemente il mercato interno, che a sua volta ha inciso sul
crollo del Pil dopo il 2011.
Fig. 2 – Performance relativa di
industria e manifattura italiana su quella tedesca (valore aggiunto a
prezzi costanti italiano in% quello tedesco)
Fonte: database Unctad
Tuttavia, se osserviamo la performance
relativa della manifattura italiana nei confronti di quella tedesca,
l’impatto negativo dei cambi fissi, sebbene sia stato più marcato dopo
la crisi, appare evidente anche in precedenza (Fig.2). L’incidenza del
valore aggiunto italiano su quello tedesco cresce quasi
ininterrottamente dal 1970 (31%) fino al 1997 (57,5%), anno in cui il
cambio della lira verso il marco viene portato ai livelli che saranno
fissati con l’euro. Dopo il 1997 inizia il declino, che porta
l’incidenza della manifattura italiana su quella tedesca a livelli non
molto superiori a quelli del 1970 (38,3%). Quanto abbiano pesato i cambi
fissi sui livelli di produzione della manifattura è evidente dal
confronto con l’industria, che cresce fino al 2005, subendo un vero e
proprio crollo solo a partire dal 2010. Infatti, nell’industria hanno un
peso importante le costruzioni, che non hanno risentito
dell’introduzione dei cambi fissi, perché, a differenza della
manifattura, non sono rivolte all’export. Le costruzioni, invece, hanno
risentito del crollo del mercato interno, dovuto soprattutto alla brusca
riduzione degli investimenti pubblici, imposti dalla Ue. Infatti, si
può osservare come la curva dell’industria declini bruscamente a partire
dal 2010-2011.
Fig. 3 – Andamento degli investimenti fissi lordi Italia, Germania e Ue (2010=100; dati a prezzi concatenati; 1995-2017)
Fonte: database Eurostat
L’impatto combinato sull’Italia della
ristrutturazione del sistema produttivo e del venire meno dello stimolo
della spesa pubblica risulta evidente anche nel divario, creatosi dopo
il 2010, tra gli investimenti fissi di Germania e Ue, da una parte, e
dell’Italia, dall’altra parte, che è ancora più marcato di quello
osservabile nel Pil (Fig. 3).
Fig. 4 – Andamento della spesa pubblica di Italia, Germania e Ue (2010=100, valori nominali, 1995-2016)
Fonte: database Eurostat
Del resto, la spesa pubblica italiana
risulta congelata durante tutto il periodo successivo allo scoppio della
crisi (Fig. 4). La crescita media annua della spesa pubblica italiana
passa dal 4,1% del periodo 1995-2007 all’1,1% del periodo 2007-2017. Ciò
significa che, considerando l’inflazione, la spesa rimane in termini
reali quantomeno ferma ai livelli pre-crisi. Viceversa la crescita della
spesa pubblica tedesca aumenta dal -0,1% al 2,9%, mentre quella
francese rallenta ma in modo molto più ridotto dell’Italia, dal 3,6% al
2,4%[ii].
L’euro – cioè i cambi fissi e
l’alienazione alla Bce dell’emissione di liquidità e della
determinazione dei tassi di interesse – nonché i vincoli imposti al
bilancio pubblico dai trattati europei rendono rigida una economia e
incapace della necessaria flessibilità in caso di shock esterni, come è
avvenuto proprio dopo il 2007-2011 nell’area euro in occasione di una
crisi globale. Tale rigidità strutturale si manifesta inevitabilmente
proprio in concomitanza con lo scoppio di crisi strutturali, portando
alla deflazione salariale e alla drastica contrazione della base
produttiva.
Mancanza di politica industriale, c’entra qualcosa la Uem?
Quanto detto sopra non significa che l’Italia non sconti la mancanza di una politica industriale
da prima che l’euro venisse introdotto. Dobbiamo, però, considerare che
l’indirizzo di politica economica dei governi italiani è stato
condizionato dal “vincolo esterno” europeo (privatizzazioni comprese)
sin dagli anni ’80 e ’90, prima mediante lo Sme e poi con l’obiettivo di
realizzare le condizioni per poter entrare nella moneta unica. Ma la
domanda giusta da farsi è un’altra: è possibile, all’interno dell’euro,
mettere in pratica una politica industriale, soprattutto se questa è
basata sul ruolo centrale del pubblico e sulle specificità di un singolo
Stato? La risposta non può che essere negativa. Senza la possibilità di
utilizzare gli strumenti di politica monetaria, alienati alla Bce, non è
possibile sviluppare una politica economica, tantomeno una politica di
massiccio intervento pubblico, che, fra l’altro entrerebbero in
contrasto con l’articolo 107 sugli aiuti di stato del Trattato sul
funzionamento dell’Ue (TFUE). Del resto, la politica economica dei
singoli stati è di competenza dell’Unione, come stabilito all’articolo
119 del TFUE:
“L’azione degli Stati membri e
dell’Unione comprende, alle condizioni dei trattati, l’adozione di una
politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle
politiche economiche degli stati membri (…). Parallelamente, alle
condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione
[quella di definire una politica economica] comprende una moneta
unica, l’euro, nonché la definizione di una politica monetaria e di
cambio uniche che abbiano l’obiettivo principale di mantenere stabili i
prezzi (…). Queste azioni dell’Unione e degli stati membri implicano
il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze
pubbliche e condizioni monetarie sane affinché la bilancia dei pagamenti
sia sostenibile.”
La fragilità industriale italiana e l’euro
L’economia e le imprese italiane certamente presentano delle fragilità, soprattutto nei confronti della Germania,
che nella manifattura ha oltre 4mila imprese sopra i 250 addetti,
contro le 1200 italiane, le cui dimensioni medie per valore aggiunto
sono appena il 70% delle tedesche[iii].
Ma l’economia e la manifattura italiane sono davvero così fragili? È
vero che le imprese italiane non esportano? La verità è che la bilancia
commerciale italiana realizza surplus crescenti dal 2012, mentre quelle
di Francia, Spagna e Regno Unito sono sempre in deficit. Il surplus
commerciale italiano nel 2017 è in valore assoluto il terzo della Ue
(dopo quello tedesco e quello dei Paesi Bassi, che però è gonfiato dalle
riesportazioni, soprattutto tedesche, dal porto di Rotterdam). Il
valore dell’export italiano sul Pil è passato dal 27,4% del 2007 al 30%
del 2016; il suo incremento medio annuo tra 2002 e 2017 è del 3,2%, cioè
oltre il doppio di quello francese, in particolare la sua crescita tra
2009 e 2017 raggiunge il 4,9% annuo.
Altra questione: l’Italia ha bisogno
della Uem e della Ue mentre la Germania ne ha molto meno bisogno, avendo
sostituito l’export intra-Ue con quello extra-Ue, specialmente verso la
Cina? In realtà, tutti i paesi della Uem hanno diminuito la loro quota
di export di beni intra-Ue, a causa del crollo dei mercati domestici,
determinata dalla austerity. La quota dell’export intra-Ue sul totale
dell’Italia è diminuita tra 2002 e 2017 (55,6%) di circa 6 punti
percentuali analogamente alla Germania, la cui quota di export intra-Ue
però rimane superiore a quella dell’Italia (58,5%). È vero che le
imprese italiane concentrano la produzione in settori arretrati o
comunque tradizionali come l’alimentare e i beni di lusso? Tra 2007 e
2016 il maggiore incremento della produzione di valore aggiunto nel
manifatturiero si è realizzato nel settore alimentare, in effetti maturo
e a bassa tecnologia, ma un forte incremento si è registrato anche nei
macchinari, a medio-alta tecnologia, e nei settori ad alta tecnologia
della chimica, del farmaceutico e della produzione di Pc, strumenti
ottici e elettronici. Nell’export la crescita maggiore, tra 2015 e 2016,
si registra nel farmaceutico (con una quota sul totale del 5,1%) e nei
mezzi di trasporto (11,4%). Il settore più importante dell’export è
quello dei macchinari e apparecchi, sia come quota (18,2%), sia come
contributo al surplus commerciale (48 miliardi di euro su circa 51
totali nel 2016), non certo l’alimentare, che raggiunge una quota del
7,6%[iv].
Soprattutto, bisognerebbe chiedersi se e
come l’introduzione dell’euro ha aiutato a affrontare le fragilità,
vere o presunte, della struttura delle imprese italiane. La manifattura
(non i servizi) ha raggiunto una maggiore competitività, ma non certo
perché l’euro ha permesso di far ricorso, attraverso l’eliminazione
delle svalutazioni competitive, a strumenti competitivi più “sani”. La
competitività è stata incrementata più che mediante l’innovazione e la
tecnologia, soprattutto mediante una feroce ristrutturazione del tessuto
imprenditoriale che ha distrutto, insieme al mercato interno,
moltissime imprese e posti di lavoro. Tra 2008 e 2015, nella manifattura
il 15,3% delle imprese (il 22,3% delle piccole imprese) e il 18% dei
loro addetti è stato eliminato dal mercato, mentre il valore aggiunto è
rimasto quasi stabile (+0,6%), sebbene solo in termini nominali. In
questo modo, cioè a causa della espulsione di massa di lavoratori dalla
produzione, la produttività apparente per addetto tra 2007 e 2016 è
aumentata del 20,6% (più che in Francia, Spagna e Germania)[v];
le dimensioni aziendali – che vanno viste in termini di valore aggiunto
più che in termini di addetti (dato il peso delle espulsioni dal lavoro
e l’aumento dei settori ad alta intensità di capitale) – delle
sopravvissute sono aumentate tra 2008 e 2015 del 18,8%.
Le esportazioni italiane dipendono solo
dalla qualità e non dai costi e quindi dal prezzo? In effetti, alcuni
settori hanno persino potuto aumentare i prezzi relativi dell’export,
come l’abbigliamento e soprattutto la pelletteria, riducendo la loro
quota mondiale. Però, i crescenti saldi della bilancia commerciale
italiana derivano, oltre che dalla diminuzione della crescita
dell’import, a causa della contrazione della capacità di acquisto di
famiglie e imprese, dall’incremento della crescita dell’export, a causa
dell’aumento della produttività e della riduzione del costo del lavoro,
dovuto alle controriforme del mercato del lavoro e alla realizzazione di
un esercito di riserva industriale[vi].
Ciò ha permesso un aumento della competitività di prezzo, mediante una
riduzione del valore unitario dell’export, il cui indice generale è
sceso da 201 nel 2008 a 176,5 nel 2016[vii]. Il calo è più evidente nel tessile, nell’elettronica (componenti e di consumo), nel chimico-farmaceutico e nei macchinari[viii].
Proprio questi ultimi due settori hanno non solo ridotto il loro valore
unitario relativo ma lo hanno fatto più della media Ue, migliorando le
loro quote di mercato mondiale e fornendo il maggiore contributo alla
formazione e all’ampliamento del surplus commerciale italiano (Fig. 5).
Fig. 5 – Variazione del valore unitario relativo dell’export di Italia e Ue (mondo=1)
Fonte: ITC, Trade competitiveness map
Inoltre, il calo del costo del lavoro ha
permesso il miglioramento della redditività delle imprese
sopravvissute. Tra le imprese della manifattura al di sopra dei 250
addetti il margine operativo lordo sul fatturato è passato dal 5,8% del
2008 al 7,5% del 2015, rimanendo superiore a quello delle omologhe
tedesche[ix].
Euro e crisi dell’accumulazione capitalistica
L’euro rappresenta, in questa fase
storica e nelle condizioni dell’Europa occidentale, uno strumento
decisivo nella riorganizzazione della produzione di profitto. Sergio
Marchionne ha individuato le cause della sovraccapacità produttiva
dell’industria europea nella resistenza alla eliminazione, durante le
crisi precedenti, di imprese e impianti ridondanti[x].
Tali resistenze furono favorite dai meccanismi di riequilibrio monetari
(ad esempio le svalutazioni) e dall’intervento statale, incluso il
welfare, che attutì l’effetto depressivo dei licenziamenti sul costo del
lavoro. Questo discorso vale in particolar modo per l’Italia, in cui
l’incidenza di piccole e medie imprese è maggiore. In occasione
dell’ultima crisi, invece, questi fattori di resistenza alla distruzione
di mezzi di produzione e forza lavoro sono stati neutralizzati
dall’euro e dall’austerity. L’euro è certamente servito ad affrontare
alcuni limiti competitivi del capitale italiano, ma nel modo sbagliato
o, più precisamente, nel modo che ha favorito la ripresa dei profitti
dello strato di vertice del capitale, quello di grandi dimensioni e
multinazionale, scaricandone i costi sul lavoro salariato e sulle
imprese più piccole o che lavorano sul mercato domestico.
L’euro ha favorito l’applicazione di
tutte quelle misure che storicamente il capitale impiega per contrastare
il calo di redditività degli investimenti: la creazione di un ampio
esercito di riserva (disoccupati, precari e sottoccupati), il taglio del
salario – diretto, indiretto (welfare) e differito (pensioni) –,
l‘aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro, la
centralizzazione dei capitali, l’export di merci e investimenti
produttivi. Questo, però, non sarebbe stato realizzabile senza la
modifica dei rapporti di forza fra le classi all’interno dello Stato e
quindi senza la rimodulazione del funzionamento dello Stato nazionale
mediante la delega di alcune sue funzioni strategiche al livello
sovranazionale europeo. In questo modo, l’integrazione europea ha
consegnato al capitale una capacità di riorganizzazione dei rapporti
sociali complessivi inedita nel periodo successivo alla Seconda guerra
mondiale. Il risultato è la ripresa dell’accumulazione, almeno per il
momento, guidata dallo strato superiore del capitale, quello
maggiormente integrato a livello sovranazionale, al costo, però, della
maggiore distruzione di capacità produttiva manifatturiera dal ’29, di
una economia nazionale in stagnazione strutturale e in presenza di
livelli occupazionali e salariali permanentemente depressi.
Note
[i] Imf, Germany. Country Report n. 14/216, July 2014.
[ii] Elaborazioni su dati Eurostat, General government expenditure by function (COFOG).
[iii] Elaborazioni su dati Eurostat, Annual enterprise statistics for special aggregates of activities (NACE Rev. 2).
[iv] Istat, Annuario 2017, cap. 15, Tav. 15.2.
[v] Istat, Rapporto annuale 2018, Cap. 1, Fig. 1.31.
[vi] Istat, Rapporto sulla competitività dei settori,
2017, p. 6. “A partire dal 2014 si osserva un sostanziale recupero
della competitività di prezzo attraverso il costo del lavoro, favorito
anche dai provvedimenti di decontribuzione attuati nel 2015. Ciò ha
portato a una parziale riduzione del cospicuo differenziale con la
Germania accumulato negli anni precedenti. Nell’ultimo biennio, la
crescita del valore aggiunto manifatturiero (quasi +5 per cento) è stata
la più sostenuta tra le economie Eur4.”
[vii]
Indice 2000=100. Unctad, Merchandise: Trade value, volume, unit value,
terms of trade indices and purchasing power index of exports, annual,
1980-2016.
[viii] ITC, Trade competitiveness map, Trade performance index, Relative unit value of export.
[ix] Eurostat, Industry by employment size class, (Nace Rev.2, B-E).
[x] J. Ewing and B. Vlasic, Europe’s auto industry has reached day of reckoning, “The New York Times”, July 25 2012.
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