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25/07/2018

25 luglio. La prima caduta del fascismo in Italia


Il 25 Luglio 1943, settanta cinque anni or sono, cadde il regime fascista. E’ necessario ricordare questa data (come altre della nostra storia più recente) perché la memoria non può essere smarrita, ma coltivata per avere sempre presente, noi che abbiamo già raggiunto quella che si definiva “una certa età” e soprattutto per i giovani, le motivazioni di fondo su cui è sorta la nostra democrazia repubblicana.

Democrazia repubblicana al riguardo della quale è necessario nuovamente lanciare segnali di pericolo circa la sua tenuta nell’ambito della Costituzione: respinto un ennesimo assalto grazie all’esito del voto popolare il 4 dicembre 2016, adesso siamo addirittura – da parte di esponenti di un partito di governo – ai proclami di “inutilità del Parlamento”.

Per questo motivo ogni richiamo possibile alla lotta antifascista e per la democrazia deve essere tenuto in gran conto, coltivato, espresso ogni qualvolta possa essere possibile.

Un resoconto schematico, quello compilato per l’occasione, che principia ricordando come, tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943, quando le sorti della guerra fascista apparivano ormai definitivamente compromesse, gli antifascisti fossero ancora troppo deboli per rappresentare una concreta alternativa politica.

I partiti democratici (PCI, PSI, DC, Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione, PLI) ancora in clandestinità in Italia in quei mesi erano privi di strutture organizzative, senza poter comunicare con il paese: soltanto i comunisti avevano conservato una presenza organizzata, in particolare nelle grandi fabbriche del triangolo industriale, dove nel mese di Marzo 1943 erano riusciti a organizzare scioperi basati, essenzialmente, sul grande malcontento scatenato dalla guerra, che aveva ridotto in miseria e portato nel pericolo, per via delle incursioni aeree, le grandi masse popolari.

Gran parte dei quadri dirigenti delle formazioni politiche si trovavano ancora in galera, al confino o in esilio.

La monarchia godeva, invece, di maggiore libertà d’azione, avendo conservato per tutto il ventennio il suo potere legittimo grazie ad una totale compromissione con la dittatura.

Quando il carro del dittatore si fece traballante, il Re disponeva ancora dell’autorità e della forza per abbatterlo.

Soprattutto, all’interno di casa Savoia (in particolare da parte della principessa ereditaria Maria Josè del Belgio) si sentiva l’urgenza di distaccarsi dal fascismo, nel timore che un suo crollo rovinoso trascinasse nel medesimo destino anche la dinastia regnante.

Era stato Vittorio Emanuele III, infatti, nel lontano 1922, al momento della Marcia su Roma, a nominare Capo del Governo il Duce; era stato lui, nel 1924, a respingere l’appello degli antifascisti che chiedevano le dimissioni di Mussolini dopo la scoperta del delitto Matteotti; e sempre lui, non aveva elevato alcuna protesta, allorquando nel 1925 – '26 il fascismo aveva compiuto la distruzione delle fondamenta dello Stato liberale.

Per tutti gli anni seguenti il Re aveva avallato ogni scelta del regime, comprese le leggi razziali nel 1938, dopo aver accettato il titolo di Imperatore d’Etiopia a seguito della banditesca impresa (con tanto di uso dei gas asfissianti) tra il 1935 e il 1936.

Si arrivò così all’alleanza con la Germania, fino alla precipitazione dell’Italia nel secondo conflitto mondiale (10 Giugno 1940).

Vittorio Emanuele III si mosse, allora, soltanto nel 1943, quando la sconfitta bellica appariva ormai ineluttabile, rischiando di trascinare la monarchia nel crollo della dittatura fascista.

Il crescente distacco del Paese dal Regime, l’opposizione sempre più evidente della Chiesa che, a partire dalla svolta razzista del ’38 aveva preso le distanze dal dittatore dopo aver stipulato con esso il Concordato nel 1929, il formarsi, all’interno delle gerarchie fasciste, di un consistente movimento di fronda da parte di un gruppo di gerarchi deciso a garantirsi un futuro anche senza Mussolini, infusero al Re il coraggio necessario per arrivare alla resa dei conti.

Lo sbarco in Sicilia degli anglo – americani e il primo bombardamento di Roma, il 19 Luglio 1943, fecero rompere gli indugi.

Nella notte tra il 24 e il 25 Luglio, al Gran Consiglio del Fascismo, passò a maggioranza l’ordine del giorno Grandi contro Mussolini che, il pomeriggio seguente, fu fatto arrestare dal Re nel cortile di Villa Savoia.

A poche ore di distanza (l’annuncio fu dato alla radio alle 10:45 del 26 Luglio) l’intera popolazione scese per le strade plaudendo al colpo di Stato della Monarchia e cancellando i simboli del Regime, dalle strade e dai palazzi.

Il Re, dunque, sembrava uscire vincitore da questo primo rimescolamento di carte: aveva abbattuto il dittatore e formato un governo di militari e tecnici fedeli alla Monarchia, presieduto dal maresciallo Badoglio.

Il nuovo Governo si preparò, così, nonostante gli annunci formali (la guerra continua...) a trattare la resa, con gli anglo americani.

La successione al fascismo si venne, però configurando come assai meno radicale del previsto.

Il nuovo Regime, infatti, apparve incamminarsi sulla strada dell’autoritarismo, non escludendo una volta patteggiata la resa alcune caute aperture democratiche, ma sempre nell’ambito del patrimonio di ordine, di pace sociale, di autorità centralizzata che, agli occhi della Monarchia e degli esponenti del nuovo Governo, rimaneva in ogni caso il maggior pregio del fascismo.

Insomma, la prospettiva della democrazia continuava a far paura nel 1943, come nel 1922.

La tumultuosa ascesa delle classi subalterne nella vita dello Stato, che aveva ripreso corpo con gli scioperi del Marzo 1943, terrorizzavano i ceti dominanti.

L’obiettivo della monarchia restava, sostanzialmente, una volta usciti dalla guerra, quello di un fascismo senza Mussolini.

Un disegno complicato da due variabili fondamentali: da un lato rimaneva irrisolto il problema della pace; contemporaneamente il nuovo Governo dichiarava di voler continuare la guerra al fianco dei Tedeschi e apriva trattative per la resa agli alleati. Una situazione di ambiguità, che causò danni enormi al Paese.

Dall’altro lato l’antifascismo, ancora privo al 25 Luglio della forza necessaria per abbattere il Regime, nei giorni immediatamente successivi compì un vero e proprio balzo in avanti, rappresentando un punto di riferimento per le manifestazioni di protesta che si succedettero in tutto il Paese, maledicendo i fascisti e chiedendo con forza la pace.

Il piano di successione al fascismo, così come casa Savoia lo aveva progettato nel luglio del 1943, durò soltanto quarantacinque giorni.

Di fronte alla mobilitazione delle masse, Badoglio fu, nei fatti, costretto al dialogo con le opposizioni antifasciste, cercando di convincerli a un atteggiamento più benevolo verso la Monarchia, impegnata nella delicatissima questione della resa: un argomento che trovò i capi dell’antifascismo sensibili, ben consapevoli che la fine della guerra doveva avere la priorità assoluta.

Terrorizzato dalle possibili rappresaglie tedesche Vittorio Emanuele III trascinò il dialogo con gli alleati, nella speranza di chiudere in tutta sicurezza il patteggiamento, dopo uno sbarco degli anglo – americani a Sud di Roma.

Fermato però lo sbarco ad Anzio da una forte resistenza dei tedeschi, gli Alleati (il cui fronte era fermo alla Linea Gustav) non riuscirono a marciare immediatamente verso la Capitale.

Per il governo Badoglio svanita la speranza di trovare uno scudo negli alleati, fu firmato l’armistizio (dal generale Castellano, a Cassibile in Sicilia, l’8 Settembre 1943).

In preda al terrore delle rappresaglie da parte dei nazisti, il Re, la famiglia reale, il Governo e lo Stato maggiore abbandonarono Roma in gran fretta, per cercare rifugio a Brindisi, dove gli eserciti inglese e americano disponevano del pieno controllo della situazione.

In questa fuga indecorosa la Monarchia apparve dimentica del suo ruolo e dei suoi doveri verso la Nazione, lasciata indifesa nelle mani dei tedeschi, senza che l’esercito italiano ricevesse neppure le istruzioni su come affrontare il nemico in casa.

Il peso di questa viltà, sommato alle vecchie e più recenti complicità del Sovrano con la dittatura fascista, cancellarono il merito del colpo di Stato del 25 Luglio, facendo pendere il piatto della bilancia nettamente a sfavore della continuità monarchica.

In quel tragico momento furono, invece, i partiti antifascisti a farsi carico dei destini del Paese, con l’appello alla lotta armata contro i nazisti, che li legittimò come i protagonisti della Liberazione nazionale.

Trasformato il Comitato delle Opposizioni in Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) fin dal 9 settembre 1943 il giorno dopo l’annuncio dell’armistizio, gli antifascisti si sforzarono di organizzare qualche forma di difesa contro i nazisti, ormai padroni d’Italia.

Era però troppo tardi: i pochi fuochi di Resistenza che si riuscirono ad accendere, in quel momento in qualche città italiana (si pensi alla difesa di Roma, tentata a Porta San Paolo: primo episodio di partecipazione di civili volontari a eventi bellici), furono immediatamente spenti dagli invasori, mentre l’esercito italiano, abbandonato dai generali monarchici, si rese protagonista di un drammatico sbandamento generale.

Ma la sconfitta subita non significò rinuncia: segnò, anzi, l’inizio di una lunga e sanguinosa fase di Resistenza, che dal settembre 1943 fino all’aprile del 1945, divenne l’imperativo categorico e l’impegno prioritario delle forze antifasciste, decise a battersi per l’indipendenza dell’Italia e per la pace fino alla conclusione vittoriosa del 25 aprile quando i partigiani liberarono finalmente le grandi città del Nord.

La guerra si concluse il 7 maggio 1945 con la resa incondizionata dei nazisti.

Si apriva così, per l’Italia, la strada alla stagione della Repubblica scelta come forma dello stato con il voto popolare del 2 giugno 1946, della Costituente, della Costituzione.

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