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27/07/2018

Panagiotis Sotiris: “Grecia in ginocchio, Tsipras ha fallito”

Per l’intellettuale ellenico malgrado i toni trionfalistici sull’uscita dai memorandum, la situazione economica e sociale nel Paese resta tragica: “Quella che il governo greco vanta come una vittoria è una sconfitta del popolo: è la totale imposizione di un’aggressiva combinazione di austerità e neoliberismo”. L’errore sarebbe stato accettare l’accordo con la Troika dopo la vittoria referendaria dell’OXI: “La natura intrinsecamente anti-democratica dell’Ue rende impossibile una sua riforma”.

intervista a Panagiotis Sotiris di Giorgio Cesarale e Giacomo Russo Spena

“La concezione stessa dell’europeismo di sinistra, l’insistenza sulla necessità di cambiare la UE dall’interno, l’incapacità di pensare il cambiamento sociale come processo di rottura, l’illusione di poter contare semplicemente sulle procedure parlamentari – tutti questi elementi, che da decenni costituiscono il fondamento della strategia riformista di sinistra in Europa, hanno contribuito all’incapacità di SYRIZA di affrontare il compito che aveva di fronte. In questo senso la vera sfida è l’autocritica collettiva di tutta la Sinistra europea, che porti a un cambiamento radicale nel proprio orientamento”. L’intellettuale ellenico Panagiotis Sotiris non utilizza iperboli né fa sconti a nessuno. Muove pesanti accuse al governo Tsipras, andando controcorrente, e guarda con interesse ai recenti movimenti del francese Melenchon: “Lasciando la Sinistra Europea ha preso una decisione importante”.

«Il peggio è chiaramente passato»: così si è espresso Alexis Tsipras che, dopo aver risolto la crisi debitoria della Grecia, prepara adesso la rinascita del paese. Quindi Tsipras ha vinto?

Prima di tutto non ha affatto risolto la crisi greca. Il debito nazionale resterà altissimo ancora per molti anni. La recente decisione dell’Eurogruppo ha semplicemente differito al 2032 l’inizio del ripianamento di parte del debito. Allo stesso tempo, il governo greco ha accettato un programma pluriennale di spietata austerità esemplificato dall’impegno a garantire un ampio avanzo primario. Da questo punto di vista siamo ancora in piena crisi del debito e subiamo le conseguenze dei programmi di austerity. Per di più, il governo greco ha accettato di mantenere in vigore tutte le manovre, le politiche pubbliche neoliberiste e le riforme istituzionali che facevano parte dei famigerati Memorandum of Understanding. Ovvero, l’ondata di privatizzazioni, la riforma del diritto del lavoro, quella delle pensioni e gli ulteriori tagli che ne fanno parte. Queste cose non cambieranno. Inoltre, l’economia greca sarà sottoposta alla costante supervisione delle “istituzioni” (Ue, Bce, Mes e Fmi). In questo senso, malgrado i riferimenti trionfalistici sulla “uscita dai memorandum”, stiamo assistendo al prolungamento dei memorandum stessi e alla trasformazione di queste misure – che si presumevano collegate a uno “stato di emergenza economica” – in quella che per molti decenni a venire sarà la nuova normalità. Questo non ha niente a che vedere con il “rilancio della Grecia” o con la reintroduzione della giustizia sociale.

Secondo Yannis Varoufakis, Tsipras in Grecia ha prodotto il deserto sociale, non una vittoria. È d’accordo? E come giudica la sua traiettoria politica?

Sono d’accordo con questo commento, ma non necessariamente con Varoufakis e con la sua posizione in generale. È vero che quella che il governo greco vanta come una vittoria è di fatto una vittoria della Troika e una sconfitta del popolo: è la totale imposizione di un’aggressiva combinazione di austerità e neoliberismo che comporterà soltanto un aumento dei costi sociali per le classi subalterne. Tsipras promette un futuro di crescita nominale unito però a una persistente disoccupazione (l’attuale diminuzione significa che avremo comunque un tasso molto più alto rispetto alla media europea ancora per molti anni), alla riduzione dei salari e delle tutele sociali, a un settore privato che divora le infrastrutture. Non è un futuro luminoso. Varoufakis ha dimostrato più integrità di Tsipras e degli altri ministri di SYRIZA che hanno partecipato alla capitolazione del 2015. Però ci sono dei limiti anche nella sua posizione. Accusa la UE dell’austerity ma al contempo insiste sulla possibilità di trovare una soluzione europea al problema greco. Questo è possibile, in teoria, ed è vero che la UE dispone di tutti i meccanismi politici e delle risorse che consentirebbero di affrontare la crisi greca in modo diverso, offrendo solidarietà anziché austerità. È anche possibile pensare che l’Europa avrebbe potuto avere un’architettura politica ed economica diversa, capace di attuare la solidarietà e la ridistribuzione della ricchezza. Ma sono tutte possibilità in astratto. Oggi è evidente che la UE, con il suo radicato neoliberismo disciplinare, non può essere “riformata”, sia perché la sua stessa costituzione non è riformabile, sia perché il rapporto tra le forze non può andare in questa direzione. Da questo punto di vista, una strategia di rottura tanto con l’Eurozona quanto con la UE è il punto di partenza indispensabile di qualsiasi progetto di cambiamento in senso radicale o progressista in Europa. Varoufakis si rifiuta di prenderne atto, e il suo europeismo, il suo “salveremo l’Europa dal suo stesso atteggiamento”, costituisce il suo limite, per quanto sincero possa essere nella sua posizione.

Per di più è stato proprio questo suo europeismo a indurlo a credere che il primo governo Tsipras potesse avere uno spazio di trattativa con la UE, mentre l’accordo del 20 febbraio 2015 lo ha costretto ad accettare termini durissimi dai creditori.

Prima di tutto quando il governo greco fa riferimento agli investimenti, parla di una definizione statistica degli investimenti stranieri diretti, definizione che include anche i proventi delle privatizzazioni. Dal punto di vista nominale, la vendita di 14 aeroporti regionali a un consorzio composto da FRAPORT, l’azienda tedesca che gestisce l’aeroporto di Francoforte, e un imprenditore greco del settore energia, è stato uno tra i maggiori di questi “investimenti”, ma di fatto si è trattato di una svendita per fare cassa in funzione del debito.

Quella che è stata descritta come “crescita” in Grecia è invece la lenta ripresa di un’economia che aveva toccato il fondo dopo sette anni consecutivi di recessione, che avevano portato a una contrazione complessiva dell’economia del 27%. Lo stesso vale per la riduzione della disoccupazione. È probabile che nel 2019 la disoccupazione rientrerà sotto la “barriera” del 20%, ma all’attuale, lentissimo tasso di crescita ci vorranno moltissimi anni per tornare all’8%, il livello pre-crisi. Inoltre la riduzione della disoccupazione si deve anche alla riduzione della forza lavoro provocata dalla migrazione all’estero di un gran numero di cittadini, in quella che possiamo definire la più ingente fuga di cervelli nella storia della Grecia moderna.

Ancora, l’impegno del governo greco per un programma di austerità “post-Memorandum”, esemplificato dall’impegno a produrre un ampio avanzo primario, significa che qualsiasi prospettiva di crescita sarà sempre minata dall’austerity. Questa è l’essenza del cosiddetto processo di “svalutazione interna”. In questo senso i segnali di crescita, seppure ci sono, saranno pagati a caro prezzo dalle classi subalterne, a fronte di un regime neoliberale di accumulo estremamente aggressivo.

La questione dell’Europa è cruciale. Lei pensa che non sia possibile cambiare l’Unione Europea dall’interno? Non crede che il problema principale sia quello dei rapporti di forza – a livello europeo – tra le classi sociali e tra forze progressiste e conservatrici?

Penso sia impossibile cambiare l’Europa dall’interno. La concezione istituzionale stessa dell’Unione, la sua natura intrinsecamente anti-democratica, l’impossibilità di avere un “demos” europeo: tutto questo testimonia l’impossibilità di modificare i rapporti di forza a livello europeo. Per di più l’Unione Europea non è uno stato sovranazionale, bensì una forma molto avanzata di integrazione di varie formazioni sociali nazionali. Le borghesie europee hanno ceduto alcuni aspetti della propria sovranità, in particolare quelli che consentirebbero loro di fare concessioni alle classi subalterne, ma questo non significa che l’unico possibile terreno di lotta sia quello europeo. L’aspetto cruciale è ancora ciò che accade all’interno dei singoli stati membri. In questo senso direi che l’unico modo di modificare i rapporti di forza si trova sostanzialmente al livello di ciascuna singola formazione sociale. Credo inoltre che questo significhi una strategia di rottura con l’Eurozona e con la UE. L’architettura monetaria, economica, finanziaria e istituzionale dell’Eurozona e della UE presenta una forma di guerra preventiva permanente contro ogni possibilità di affermazione reale delle classi subalterne. Soltanto se si esce da questa struttura sarà possibile assistere a un effettivo cambiamento in direzione progressista.

La settimana scorsa Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise, ha abbandonato la Sinistra Europea dichiarando la propria incompatibilità con Syriza. Lei come vede questa decisione?

È stata una decisione importante, che va nella direzione giusta. Il partito della Sinistra europea è dominato proprio da quella concezione di europeismo di sinistra che ha alimentato l’illusione di una possibile soluzione interna alla UE, e che ha portato alla débacle di SYRIZA. Esiste una incompatibilità assoluta tra una linea come quella di SYRIZA e qualsiasi tentativo di ricomporre la possibilità di una politica radicale di sinistra. Ma limitarsi a denunciare SYRIZA non basta. I suoi leader non sono traditori. La loro resa è la conseguenza dei limiti della strategia dominante all’interno del partito della Sinistra europea.

Tornando a Tsipras, in cosa consisteva il piano B? Dovrebbe rifiutare l’accordo con la Troika? Non c’è forse il rischio che l’uscita della Grecia dall’Eurozona sia un salto nel vuoto, qualcosa di addirittura peggiore rispetto alla situazione attuale?

In realtà il Piano B avrebbe dovuto essere il Piano A. Il referendum ha conferito al governo greco la piena legittimazione a procedere con tutti i passi associati all’uscita immediata dall’Eurozona. Questo avrebbe comportato un breve periodo di misure eccezionali – non troppo diverse da quelle effettivamente introdotte nell’estate del 2015, come il controllo dei capitali. Tuttavia riconquistare la propria sovranità monetaria insieme a una Banca Centrale totalmente pubblica e alla nazionalizzazione delle banche sistemiche avrebbe consentito una forma iniziale e indispensabile di controllo democratico dell’economia, e avrebbe fornito gli strumenti per iniziare ad attuare una politica radicale alternativa.

Naturalmente non voglio dire che la semplice riconquista della sovranità monetaria e della possibilità di una svalutazione o di incrementare i deficit di bilancio sarebbe di per sé una strategia economica alternativa. È necessario un paradigma di crescita alternativo, basato su nuove forme di pianificazione democratica, di autogestione, di pubbliche imprese eccetera: nuove forme che esigono anche una capacità di iniziativa collettiva da parte delle classi subalterne e forme allargate di sperimentazione.

Oltre a essere uno studioso conosciuto, lei è anche membro del Partito di Unità popolare. Come mai le organizzazioni a sinistra di Syriza non hanno conosciuto una forte crescita elettorale?

È vero che nelle elezioni del 2015 Unità Popolare non è riuscita a superare lo sbarramento del 3%, ma occorre anche tenere conto della particolare congiuntura elettorale e del modo in cui SYRIZA è riuscita a convincere il pubblico che non esista un’alternativa.

Ma è vero anche che la situazione delle correnti, dei gruppi e dei fronti a sinistra di SYRIZA è alquanto problematica.

Il Partito Comunista conserva una presenza forte nel movimento operaio e tra i giovani, ma è molto settario e la sua prassi politica si basa sull’assunto che sia impossibile operare un radicale cambiamento sociale, e che finché non matureranno le condizioni non bisogna tentare una qualche forma di rottura. Questa è una linea disfattista.

Anche ANTARSYA, il fronte della sinistra anticapitalista, ha intrapreso una svolta settaria, esemplificata dalla linea politica maggioritaria al suo interno, secondo cui le formazioni come Unità Popolare sono “riformiste”. Il risultato di questo settarismo è che al momento non abbiamo un processo, o un punto unitario di riferimento, che valga per l’intero spettro – per le forze radicali, anticapitaliste, anti-austerità, anti-euro e anti-UE.

Unità Popolare ha cercato di essere attiva all’interno dei movimenti e di costituire una forza che insiste sull’unità. Unità nella lotta ma anche unità politica. Ci sono però dei limiti anche all’interno di Unità Popolare. Non siamo stati capaci di incarnare il processo di autocritica della sinistra, e non siamo riusciti fino a oggi a dare risposta alla questione aperta della strategia. Da questo punto di vista facciamo ancora parte del problema della Sinistra greca.

Quello che occorre è un processo collettivo di elaborazione e di sperimentazione, tanto a livello di programmi come di strategie, nella direzione di un “processo costituente” per una nuova sinistra radicale, un processo capace di mettere insieme le varie tendenze, correnti, organizzazioni, storicità, intellettualità, sensibilità.

Allo stesso tempo un processo così complesso e irregolare, un processo che possa condurre all’elaborazione di un “progetto egemone” radicale, ha anche bisogno della forza propulsiva di un nuovo movimento comunista, una nuova articolazione della dialettica tra classi politiche, una prospettiva rivoluzionaria, una linea per le masse, nuove forme di anti-imperialismo e internazionalismo e di lotta per l’egemonia.

Chi vincerà le prossime elezioni in Grecia? Crede che SYRIZA sarà sconfitta da Neo Demokratia?

Be’, sembra che Nuova Democrazia attualmente sia in testa, ma SYRIZA sta cercando di ridurre le distanze e di restare in gioco. Questa è la teoria dell’alternanza destra-sinistra, Nuova Democrazia vince ma SYRIZA può riprendersi. Nella realtà, stiamo assistendo a un meccanismo per cui SYRIZA cerca di occupare il posto della socialdemocrazia, di PASOK, in una nuova polarizzazione bi-partisan. Ovviamente, quello che manca è la forte presenza di una nuova sinistra radicale capace di alterare drasticamente questi rapporti di forza. Ma come ho già detto, per questo è necessario un processo di complessiva ricomposizione.

(Traduzione di Anna Tagliavini)


(26 luglio 2018)

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