Osservando la ‘guerra dei dazi’ dalla sponda ovest dell’Atlantico è ragionevole aspettarsi che, grazie all’introduzione di misure protezionistiche, le imprese statunitensi trarranno un qualche vantaggio in termini di quote di mercato e profitto. Resta tuttavia da chiarire se, con la conseguente crescita della produzione delle imprese nord-americane, anche i lavoratori statunitensi avranno o meno dei benefici.
“Proteggo i lavoratori americani, proteggo la sicurezza nazionale” dichiarò Trump apponendo la firma sulla legge che impone, per l’appunto, dazi sull’importazione di acciaio e alluminio. Non c’è tuttavia traccia nell’operato del presidente degli Stati Uniti che suggerisca un’azione a difesa dei lavoratori statunitensi. Il fatto che le imprese americane possano conquistare maggiori quote di mercato, e quindi aumentare la produzione, non implica necessariamente un aumento dell’occupazione negli Stati Uniti. I dazi in sé, infatti – senza essere accompagnati da altre fondamentali misure protezionistiche – non sono sufficienti a tutelare i lavoratori, come abbiamo già avuto modo di vedere in riferimento alla millantata guerra commerciale tra Stati Uniti e Europa.
Iniziamo dal constatare come il commercio internazionale sia sempre più caratterizzato dal crescente volume degli scambi di beni intermedi rispetto a quelli finali. Il bene intermedio è una merce che viene prodotta e viene utilizzata, a sua volta, per la produzione di un’altra merce. Facciamo un esempio per chiarire questo concetto: un motore è una merce che viene prodotta, e che può essere acquistata, ma che viene poi utilizzata ad esempio per la produzione di una macchina. Il motore, inoltre, può essere prodotto in modo completamente indipendente dalle altre componenti che, una volta assemblate, costituiscono poi la macchina, che rappresenta il bene finale. Questo esempio ci fa capire come il processo produttivo della maggior parte dei beni manifatturieri sia frammentato in tantissime fasi, separate le une dalle altre, che possono essere svolte in modo indipendente, cioè in luoghi diversi. Il crescente peso dei beni intermedi sul commercio internazionale ci dice dunque che molte componenti dei beni finali sono effettivamente prodotte in Paesi diversi.
Non a caso infatti, parallelamente al crescente volume di scambi commerciali che riguardano i beni intermedi, risulta sempre più evidente il ricorso alle delocalizzazioni – ossia lo spostamento di una fase della catena produttiva in un altro paese – da parte delle imprese americane. Si tratta di un fenomeno comune a tutti i paesi ad industrializzazione matura: le multinazionali occidentali delocalizzano le fasi produttive ad alta intensità di lavoro e basso grado di qualificazione nei Paesi dove la manodopera costa di meno, mentre mantengono nei paesi più sviluppati le fasi finali della produzione a più alto valore aggiunto e alta intensità di capitale. Tale fenomeno ha fatto crollare il livello occupazionale nel settore manifatturiero di molti Paesi avanzati, crollo che è stato particolarmente marcato negli Stati Uniti (dal 2000 ad oggi si sono persi 4,5 milioni di posti di lavoro nella manifattura, passata da 17,284 a 12,713 milioni di occupati) a dispetto di un fatturato del comparto che si mantiene costante come quota sul PIL. Questo dato è la prova che le delocalizzazioni servono principalmente ad accrescere i profitti a discapito dei salari dei lavoratori a parità di produzione.
I dazi introdotti da Trump non riducono in alcun modo le delocalizzazioni perché quelle misure non colpiscono le imprese aventi residenza fiscale negli Stati Uniti: ciò significa che le imprese statunitensi operanti all’estero non subiscono alcun dazio quando importano un bene intermedio da un paese estero per completare il processo produttivo del bene finale all’interno degli Stati Uniti. Un’impresa americana che delocalizza, ad esempio, la produzione della scocca di un’automobile in Malesia non deve poi pagare un dazio per portarla negli Stati Uniti, dove verrà poi montata. Quindi, in conclusione, i dazi di Trump sono perfettamente compatibili con le delocalizzazioni, e per questa ragione non produrranno alcun significativo stimolo all’occupazione interna.
È chiaro quindi come la sola introduzione dei dazi non sia una misura in grado di portare benefici ai lavoratori. Risulta infatti fondamentale prendere provvedimenti specifici sulla delocalizzazione delle singole fasi di produzione. Sebbene Trump abbia dichiarato in campagna elettorale che avrebbe preso seri provvedimenti al riguardo tramite un dazio del 35% per quelle imprese statunitensi che avrebbero delocalizzato la produzione, dopo un anno e mezzo, di questa misura protezionistica non vi è alcuna traccia.
L’assenza di misure protezionistiche generali contro la delocalizzazione delle imprese nonché l’esclusione dal pagamento dei dazi delle multinazionali statunitensi che reintroducono beni intermedi nel mercato interno per la lavorazione finale dopo aver gestito le fasi a monte in paesi a basso costo del lavoro, rendono in definitiva i dazi trumpiani un mero strumento per l’accrescimento dei volumi di profitti delle imprese statunitensi con effetti occupazionali interni nulli. Altro che difesa dei lavoratori e dell’occupazione!
Abbiamo visto come i dazi possano rappresentare un chiaro strumento di competizione inter-capitalistica nella continua guerra senza esclusione di colpi tra potenze per il dominio dei mercati internazionali. Da che capitalismo è capitalismo, le grandi potenze alternano scaltramente un liberoscambismo ideologico imposto ai paesi più deboli e un protezionismo di fatto finalizzato a difendere sui mercati globali la propria posizione di dominio.
Tuttavia è importante ricordare che il protezionismo, oltre ad essere strumento di guerra tra capitali, può assumere, e storicamente ha spesso assunto, una veste progressiva e di emancipazione quando orientato alla difesa degli interessi delle classi subalterne. E’ accaduto ad esempio in modo sistematico nel secondo dopoguerra.
Un protezionismo finalizzato allo sviluppo del sistema produttivo nazionale e locale nelle sue specificità, delle industrie nascenti, dei settori strategici – e soprattutto chiaramente orientato alla difesa dei livelli salariali interni dal rischio di competizione al ribasso con sistemi economici dai salari più bassi – è un protezionismo teso alla promozione degli interessi della classe lavoratrice e allo sviluppo economico di un paese in un’ottica internazionale solidaristica e non competitiva.
Mentre infatti il liberoscambismo è per definizione un terreno favorevole ai capitalisti che sfruttano la pressione esterna sui sistemi economici per imporre un vincolo esterno che limita drasticamente ogni lotta rivendicativa dei subalterni, il protezionismo può assumere alternativamente due volti opposti a seconda dei suoi obiettivi e dell’uso specifico che se ne fa. Nell’America di Trump i dazi hanno il ruolo di tutelare il profitto delle imprese statunitensi all’interno di uno scontro tra capitali a livello globale. Ma ciò non ci deve impedire di rivendicare un uso diametralmente opposto delle misure protezionistiche: entro un quadro di rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori, limiti ai movimenti delle merci possono essere funzionali alla disarticolazione di quella gabbia internazionale dei vincoli esterni che in Europa costringe la lotta di classe all’impotenza da molti decenni.
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