In questi tempi, dopo oltre venti anni “senza ideologie” – perché ne è rimasta una sola, il pensiero unico liberista – il bisogno di dare un senso alle cose che ci accadono e a quelle che facciamo ogni giorno si presenta prepotente dai luoghi più inaspettati.
Come un fiore nel deserto, basta un angolo d’ombra e una goccia d’acqua trattenuta dalla sabbia, perché sbocci.
Sintomi, certo. Piccoli, indubbiamente. Ma continui, inattesi, illuminanti. Non possiamo vivere nel cono di luce artificiale segnato dal profitto come unico fine e dall’arricchimento come scopo della vita. Anche perché quelli che si arricchiscono sono proporzionalmente sempre meno e “i perdenti” sempre di più. E anche quelli partiti con le migliori intenzioni di “competere duramente” si accorgono – sempre più spesso – di non trovare soddisfazione in questa lotta belluina senza senso.
Il bisogno di una visione, di una lettura organica del mondo (di una weltanschauung, o “concezione del mondo”), emerge con forza là dove si incontrano una massa senza futuro, diritti, reddito dignitoso, e una intellettualità anche solo minimamente critica. Nasce insomma dall’incontro tra chi ha bisogno di cambiare urgentemente la propria esistenza quotidiana, e quindi ha bisogno anche di capire come farlo, e quanti – per motivi professionali, cultura, studi, letture, riflessioni – sono in grado di fornire anche solo brandelli di informazione strutturata che ricostruiscono i legami tra fenomeni apparentemente sconnessi e quindi conferiscono un senso alla realtà, non più vista come singoli frammenti.
Quello che sorprende sempre i micro-intellettuali del potere costituito – gli analisti ed editorialisti dei media mainstream – è che questo incontro ripropone sempre elementi di visione, contenuti politici, forme organizzative, programmi e rivendicazioni tipiche del movimento operaio storico. In termini e forme adeguate ai tempi, naturalmente, ma contenutisticamente identiche. La talpa continua a scavare, insomma, anche quando la “soggettività organizzata” – come negli Stati Uniti – è stata più volte spianata, sconfitta, dissolta in mille rivoli litigiosi e inconcludenti.
Questo articolo di Massimo Gaggi, che vorrebbe essere ironico ma non ci riesce, mostrando al contrario una forte preoccupazione, “si stupisce” per la nascita di organizzazioni sindacali chiaramente di orientamento “socialista” addirittura nel tempio della cosiddetta new economy. La mitica Silicon Valley dei Bill Gates, dei “ragazzi di Cupertino” (Apple), dei fantastici inventori di algoritmi per Google, Facebook, Instagran, Twitter, mostra da qualche tempo un fervore conflittuale certo non stradaiolo, ma acutamente critico.
Il presunto paradosso è che queste “imprese altamente innovative” (ed è vero, se si guarda ai prodotti) sono dirette da manager magari giovanissimi, ma con la mentalità degli antichi padroni delle ferriere. Non è “colpa” loro, è il funzionamento del capitale che li ha fatti così, selezionandoli tra i più vivaci quanto a intelligenza e i più morti quanto a rigore morale, rispetto delle persone, capacità autocritiche. Se uno ha presente la faccia di Zuckerberg durante una delle sue cento audizioni in cui è chiamato a render conto delle infamie commesse dalla sua azienda (per il caso Cambridge Analytica, per esempio) non fa fatica a capire di che stiamo parlando.
Si può anche definire – come fa Gaggi – “scarsa sensibilità sociale dei capi delle imprese di big tech”, ma la sostanza non cambia: la crescita delle disuguaglianze reddituali e sociali innescata da un quarto di secolo di liberismo senza freni, lavoro senza diritti, compressione salariale, sta generando la sua conseguenza logica. Chiamatela come volete – Gaggi si ferma a “polarizzazione politica” – ma sempre di conflitto si tratta.
Per cambiare modello sociale e modo di produzione, non solo i commi di qualche contratto di lavoro.
E’ una buona notizia. Anche per Potere al Popolo, non vi pare?
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Se Marx resuscita nella Silicon Valley
Favorita dalla scarsa sensibilità sociale dei capi delle imprese di big tech, la polarizzazione politica che scuote l’America rischia di raggiungere anche le sue aziende più preziose
di Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 19/7/2018)
Sepolto in Europa, Karl Marx resuscita nella Silicon Valley? Ipotesi bizzarra, ma qualche indizio c’è e del resto, in America come in Europa, di cose bizzarre in politica ne stiamo vedendo parecchie, tra colpi di spugna sul concetto di Occidente e il riemergere di movimenti fascisti. Distratti dal ribellismo anti-establishment esploso nella destra americana, abbiamo prestato poca attenzione alle rivolte spuntate lungo la West Coast tra le imprese dell’alta tecnologia. Abbiamo registrato l’incredulità dei dipendenti dopo l’elezione di Trump e il malessere per la scoperta del ruolo involontariamente svolto dai social media. E abbiamo raccontato le tensioni sociali legate alla crescita delle diseguaglianze economiche che hanno scavato fossati profondi a San Francisco e in Silicon Valley tra vincitori e vinti della rivoluzione tecnologica.
Fino a una curiosa rinascita dei sindacati, tornati come organizzatori dei lavoratori più deboli: quelli che si occupano di manutenzione, trasporti, alimentazione e sicurezza del personale delle sedi dei giganti di big tech. Poi sono cominciate le crisi di coscienza e i pentimenti di ingegneri e altri dipendenti di queste imprese che hanno preso a interrogarsi sulle implicazioni etiche di quello che stavano facendo soprattutto riguardo al rispetto della privacy dei cittadini-utenti e le interferenze nei loro meccanismi decisionali. Davanti alla scarsa reattività delle imprese, dipendenti fin lì politicamente non impegnati, sono diventati attivisti pronti ad accusare le loro aziende di maschilismo o di connivenza coi militari e le polizie anti-immigrati ai quali cedono il loro software.
Questi movimenti, che hanno continuato a moltiplicarsi ovunque, da Google ad Amazon (ora le rivolte a Salesforce e a Microsoft contro la cessione di servizi all’Amministrazione delle frontiere e all’Ice, i cacciatori di clandestini), hanno ancora dimensioni limitate, ma si stanno consolidando sotto l’ombrello ideologico di due organizzazioni: la Tech Workers Coalition e la Dsa (Democratic Socialists of America), come racconta anche la rivista Fast Company.
Dentro c’è di tutto, anche la sinistra radicale che vuole eliminare le corporation private sostituendole con società statali o cooperative di dipendenti. Favorita dalla scarsa sensibilità sociale dei capi delle imprese di big tech, la polarizzazione politica che scuote l’America rischia di raggiungere anche le sue aziende più preziose.
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