Erano quattro, all’inizio del suo mandato presidenziale, i “grandi nemici” di Trump a livello internazionale: l’Iran, la Corea del Nord, la Cina e la Russia. Anzi, diciamo tre e mezzo: tra Russiagate ed una malcelata ammirazione per l’immagine di “uomo solo al comando” del leader russo, il rapporto con Putin è stato ostico più a parole che a fatti, e comunque dopo il vertice di Helsinki – al momento – tra i due sembrano esserci più elementi di accordo che di divisione.
Per quel che riguarda la Corea del Nord, anche in questo caso il vertice con Kim Jong Un (introdotto da una serie di incontri tra le due diplomazie) ha raffreddato – almeno formalmente – il clima arroventato, mettendo fine ai “venti di guerra” che probabilmente erano più fumo che arrosto. Nessuno ha garanzie per quel che riguarda il futuro, sia chiaro, ma l’impressione è che la Corea del Nord fosse più un “nemico utile” che un reale problema per l’amministrazione USA.
Altro discorso per quel che riguarda la Cina, vero competitor ed ostacolo per le ambizioni di conservazione della leadership mondiale degli Stati Uniti. Con il colosso asiatico è in corso una guerra commerciale da anni, in cui la questione dei dazi è solo l’ultimo capitolo. Quella cinese è una economia in forte e continua espansione, che si sta affermando praticamente su tutti i mercati mondiali, inserendosi come sistema di riferimento in Medio Oriente ed in Africa, stringendo importanti accordi commerciali e strategici.
Al momento il confronto, aspro, è soltanto a livello commerciale: troppo potente, la Cina, per poterla aggredire con minacce di interventi militari.
Molto più semplice (almeno in teoria) guardare minacciosi all’Iran, che rimane al momento l’obbiettivo migliore per le esibizioni muscolari cui gli Stati Uniti ci hanno abituati – a prescindere dal colore dell’amministrazione – e che ovviamente piacciono molto anche a Trump.
E’ notizia recente lo scambio di minacce e offese tra il presidente degli Stati Uniti e alcuni leader iraniani: ad iniziare il botta e risposta è stato Donald Trump con uno dei suoi tweet, indirizzato direttamente al presidente iraniano, Hassad Rouhani: “Non minacciare mai più gli Stati Uniti o ne pagherete le conseguenze, come pochi nella storia ne hanno sofferte prima. Non siamo un Paese che tollererà più le vostre stupide parole di violenza e morte. Fate attenzione!”. Minaccia diretta, indirizzata attraverso Twitter, quasi un attacco personale rivolto direttamente ad un’altra persona (ed infatti prima del messaggio era citato esplicitamente il destinatario: “Al presidente dell’Iran Rouhani”).
Comunicazione ad personam, che supera di slancio ogni forma di rapporto diplomatico e riporta alla mente antiche forme di comunicazione politica, in cui a parlare e definire rapporti erano direttamente i sovrani, i re, i principi, che comunicavano tra loro senza l’intermediazione delle diplomazie e delle strutture intermedie della politica.
Una modalità cui purtroppo siamo abituati (ormai la comunicazione politica passa quasi interamente attraverso i social), ma che raramente aveva raggiunto tali livelli di personalizzazione.
Quasi immediata la risposta iraniana, affidata al responsabile della Giustizia Sadegh Amoli Larijani, la cui risposta è stata altrettanto dura: “Quelle di Trump sono affermazioni fatte da una persona incapace e stupida come lui, ogni mossa illogica e poco saggia degli Usa porterà a una risposta indimenticabile dell’Iran che rimarrà nella storia”.
Un confronto durissimo, che ricorda un po’ gli scambi tra Trump e Kim Jong Un, ma che si sviluppa in un contesto assolutamente diverso.
Perché se una guerra contro la Corea del Nord non avrebbe soddisfatto alcun tipo di interesse strategico degli Stati Uniti, dei suoi alleati (tranne Giappone e Corea del Sud, forse) e nemmeno di qualche lobby (tranne le aziende produttrici di armi, forse), con l’Iran la storia è decisamente diversa.
Gli interessi in gioco sono molto più rilevanti, e sopratutto reali: il petrolio, ovviamente, gli interessi di Israele, mai come oggi alleato di ferro degli Stati Uniti, gli obiettivi strategici delle petromonarchie arabe sunnite filoamericane (Arabia Saudita in testa), che hanno nell’Iran sciita il più acerrimo avversario nell’area mediorientale.
In più, secondo alcuni analisti, ad essere interessata ad un ridimensionamento dell’influenza iraniana potrebbe essere anche la Russia di Putin. Perché? Per rafforzare il proprio ruolo in Siria, dove ambisce ad essere elemento centrale e di riferimento nella ricostruzione del paese. Per fare questo è necessario però stabilire rapporti di collaborazione con Israele, con l’Arabia Saudita, con la Turchia, e di conseguenza limitare le pretese egemoniche dell’Iran e dell’asse sciita che da Teheran arriva fino a Damasco, passando per Iraq e Libano. La Russia è alleata e vicina all’Iran, e una visione del genere potrebbe sembrare campata in aria.
Ma la storia del Medio Oriente ci ha insegnato negli anni che l’unica certezza è l’estrema variabilità degli equilibri, e tra i “buoni risultati” del vertice di Helsinki tra Putin e Trump potrebbe esserci anche il raggiungimento di un accordo che riguarda l’Iran.
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