di Michele Giorgio – Il Manifesto
Chi volesse misurare in un modo originale l’andamento della guerra in Siria dovrebbe considerare il controllo che l’esercito siriano ha ripreso, pezzo dopo pezzo, dei 450 km dalla M5, l’autostrada che attraversa il paese da nord a sud, da Aleppo al confine con la Giordania. Un’arteria di comunicazione vitale che i siriani chiamano “strada internazionale”, che attraversa regioni rurali, aree industriali e quattro grandi città. Seguendo questa strada, le forze armate governative hanno strappato alle formazioni islamiste e jihadiste “ribelli” gran parte della Siria. «Appare chiaro che l’approccio militare è stato rivolto alla riconquista della M5», spiegava qualche giorno fa all’agenzia Afp Emile Hokayem dell’International Institute for Strategic Studies. «La principale ricchezza, le aree industriali, infrastrutturali e urbane si trovano lungo questa linea... (Damasco) ha sempre voluto mantenere il controllo di tutti questi nodi». E se alla fine del 2016 era stata la liberazione di Aleppo a segnare la svolta a favore di Damasco, ora è Deraa a delimitare dall’altra parte del paese l’ampiezza della vittoria militare ottenuta dal presidente Bashar Assad.
La resa, non completa, nel sud del paese di quella galassia di gruppi e formazioni che i governi occidentali si sono ostinati a descrivere per sette anni come “ribelli al regime di Assad”, senza considerare la loro ideologia e la loro idea della Siria futura, ha riconsegnato al governo centrale più di 2/3 della Siria. Certo la guerra non è finita, le sacche di resistenza dell’Isis, ad esempio, sono una spina nel fianco del governo, ma il suo corso è segnato. Ha vinto Damasco con l’aiuto determinante della Russia e dei combattenti sciiti libanesi di Hezbollah e il contributo dell’Iran. Francia, Usa e le monarchie sunnite del Golfo hanno investito invano risorse finanziarie immense per far crollare Bashar Assad che invece sette anni dopo è al suo posto. Israele gioca ancora la sua partita, nel sud della Siria, ma è svanito il suo sogno di poter usare i “ribelli” per il controllo di una zona-cuscinetto a protezione del Golan (territorio siriano che occupa dal 1967). Per tre anni, da quando Mosca è intervenuta in Siria, Benyamin Netanyahu ha provato a persuadere Vladimir Putin a garantirgli una Siria meridionale senza “forze ostili” iraniane a ridosso del Golan. E ha rischiato anche di scatenare una guerra regionale nei mesi scorsi lanciando continui attacchi in Siria contro presunte postazioni dell’Iran e del movimento sciita libanese. Adesso che Assad controlla tutta la M5 fino al confine di Nassib con la Giordania – un valico strategico per la ripresa dei commerci tra Siria e Giordania –, il premier israeliano deve accontentarsi di vedere nel sud della Siria solo l’esercito governativo. E può solo sperare che a fargli questo regalo siano Putin e Trump nel corso del vertice che avranno a metà mese.
Decine di migliaia dei circa 320mila siriani, sfollati nelle scorse settimane in seguito all’offensiva dell’esercito a Deraa e nel sud, sono tornati a casa in 13 diverse località riprese dai governativi. Un rientro, destinato ad intensificarsi, che è stato possibile grazie alla tregua e all’accordo, mediato dai russi e da attuare in tre fasi, tra forze governative e gruppi jihadisti e islamisti che si stanno arrendendo e che sono pronti a consegnare le loro armi pesanti. Sarà la polizia locale a garantire la sicurezza delle aree liberate. I “ribelli” che rifiutano l’accordo potranno andare con le loro famiglie nella provincia di Idlib dove si sono già diretti i miliziani sconfitti nei mesi scorsi dall’esercito a Ghouta e in altri sobborghi di Damasco.
Resta il nodo della ripresa di Quneitra, a ridosso del Golan. Israele potrebbe prendere di mira di nuovo l’esercito siriano accusandolo di essersi avvicinato troppo alle linee armistiziali. Mentre è risolto quello di Sweida e di altri centri popolati da siriani drusi, rimasti fuori dal conflitto ma di fatto alleati del governo. L’esercito avrà il controllo pieno di quelle aree, in cambio i drusi riceveranno l’amministrazione civile dei loro centri. Continuano anche le trattative tra Damasco e i curdi decisi a sganciarsi dagli Usa dopo il sostegno di Washington all’offensiva turca contro Afrin e il Rojava. Secondo il quotidiano al Watan i curdi avrebbero accettato di trasferire al governo i giacimenti petroliferi settentrionali che controllano e la città di Raqqa. In cambio riceveranno uno status politico e l’autonomia del Rojava, i loro combattenti saranno riconosciuti e associati all’esercito siriano e la loro lingua sarà insegnata nelle scuole pubbliche nelle aree curde. Da parte curda però non ci sono ancora conferme.
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