di Flavio Bacchetta
Non sapremo mai cosa accadde realmente quel 20 ottobre 2019 in Bolivia, quando lo spoglio delle schede alla fine del primo turno di votazioni che opponeva il presidente uscente Evo Morales a Carlos Mesa, leader dell’opposizione, venne bruscamente interrotto. Alla ripresa del conteggio Morales risultò vincente per il 47% dei voti contro il 37% di Mesa. Uno scarto che negava il secondo turno al suo principale oppositore.
La contestazione iniziò il giorno dopo, propagandosi lungo tutto il paese, con picchi di violenza estrema tra Cochabamba e Santa Cruz, dove l’opposizione al Mas (Movimento per il Socialismo, il partito di Morales) era più forte. Nel frattempo, il governo aveva già convocato una delegazione dell’Oas (Organizzazione degli Stati Americani) con il compito di verificare se ci fossero state frodi elettorali. Da allora in poi, gli eventi precipitarono con una velocità tale che lasciò attoniti anche i più smaliziati osservatori di fatti e misfatti sudamericani.
Malafede o semplice codardia?
L’operato dell’Oas divenne con il passare dei giorni sempre più ambiguo: all’inizio il suo portavoce espresse “profonda preoccupazione per la drastica interruzione dello spoglio e la repentina chiusura delle urne, un cambiamento anomalo della normale procedura elettorale”.
Dopo che gli scontri tra opposte fazioni causarono le prime vittime, la delegazione di Washington sentenziò che “gli ufficiali preposti allo spoglio avevano manipolato deliberatamente i risultati del turno preliminare, alterando gli stessi in senso partigiano” e favorendo di conseguenza la vittoria di Morales.
In realtà, Oas non esibì alcuna prova a supporto di tale asserzione, e una successiva inchiesta del quotidiano inglese The Guardian concluse che ci fu solo “una pausa nella conta veloce dei voti, ai fini di consentire un controllo quando già era stato esaminato l’84% delle schede, e Morales conduceva per quasi 8 punti in percentuale. Alla ripresa, arrivati al 95% dello spoglio, aveva raggiunto il 10% di vantaggio; ciò gli consentiva la vittoria al primo turno”. Il giornale esibisce anche un grafico che corrobora la sua tesi.
Ciononostante, dopo le conclusioni Oas, Morales ordinò lo scioglimento del comitato elettorale e la ripetizione del primo turno, evitando la repressione violenta dei disordini, così come due anni prima aveva preferito non calcare la mano sugli uccisori del suo ministro degli Interni, linciato durante la rivolta dei minatori, anche lì fomentata dai suoi oppositori. In quel caso furono i padroncini delle cooperative, che vedevano minacciati i loro privilegi dai controlli governativi, a orchestrare i tumulti.
Fatto sta che la polizia, forse interpretando tale posizione come debolezza, ne ha approfittato per ammutinarsi. Il colpo di grazia lo ha dato però l’esercito, imponendo le dimissioni a Morales, il quale, insieme al vice-presidente Álvaro García Linera, le ha presentate il giorno seguente. Oltretutto il governo ad interim presieduto dalla conservatrice Jeanine Áñez, cristiana intransigente, gli ha ufficialmente proibito di candidarsi alle prossime elezioni, la cui data è ancora da decidere.
L’ex capo di Stato il 12 novembre è partito in esilio per il Messico, il cui premier si era reso disponibile ad accoglierlo, dopo il prevedibile rifiuto di Jair Bolsonaro in Brasile. Successivamente una sanguinosa repressione – a seguito di una legge ad hoc promulgata dal governo provvisorio che concedeva poteri speciali all’esercito – mieteva altre vittime, elevando a 32 il numero delle persone uccise, mentre nel Parlamento i rappresentanti indigeni venivano estromessi, decretando de facto la fine dello Stato Plurinazionale, istituito da Evo Morales negli anni passati a tutela dei diritti degli indios, più volte calpestati prima della sua ascesa al potere.
Gli abusi militari sono stati comprovati e denunciati da un rapporto della sezione latinoamericana di Amnesty International, che l’ufficio stampa mi ha gentilmente messo a disposizione. Un turbinio di eventi in meno di un mese ha interrotto bruscamente, dopo 13 anni, il percorso del socialismo indigenista. Il suggello finale al cambiamento è stato il ripristino dell’ambasciata boliviana negli Stati Uniti dopo 11 anni dal ritiro della precedente, e l’espulsione dei diplomatici venezuelani ordinata da Jeanine Áñez, che ha riconosciuto Juan Guaidó come presidente del Venezuela.
Bilancio a posteriori
La candidatura di Evo Morales al quarto mandato di governo è avvenuta in seguito a una forzatura della Costituzione boliviana, che non lo prevede consecutivamente per la stessa persona.
Esistono anche degli accentuati dislivelli a causa dei privilegi di cui gode l’etnia Aymara (quella di Morales) rispetto al resto dei 40 gruppi indigeni che compongono la metà della popolazione.
Il commercio ha arricchito a tal punto le élite che vivono nella capitale governativa La Paz (concentrate nella frazione di El Alto) che un nuovo stile architettonico è stato creato apposta per loro: una fusione di arte Naïve e tradizione india. I detrattori chiamano questi edifici cholets (neologismo sarcastico e razzista che comprende il termine chalet e cholo, dispregiativo del campesino indio). Anche Morales era soprannominato El Cholo. I costi oscillano tra 200 e 500 mila dollari, a seconda della loro grandezza.
Tuttavia il bilancio finale è in attivo: dal suo insediamento, il Pil è cresciuto del 5% con picchi del 6,5% nel 2014, mentre la disoccupazione è scesa al 3% e il tasso di povertà si è ridotto dal 38% al 18%. Soprattutto, il merito di Evo è stato quello di aver rivalutato il miserrimo salario minimo nazionale del 400%: da 500 a 2122 Bob (valuta boliviana) in 13 anni. Un dollaro Usa equivale a 6,84 Bob, per cui il salario minimo in Bolivia è oggi circa 310 dollari. Superiore, anche se di poco, a quello peruviano, brasiliano e argentino. Se la storia assolverà l’ex presidente in esilio, sarà anche per questo.
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