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09/03/2020

Traiettorie: percorsi critici su The Irishman di Martin Scorsese

Quarto appuntamento con lo speciale dai molteplici e multiformi punti di vista redazionali: "The Irishman". Traiettorie offre un mosaico di interventi eterogenei su un film specifico, frammenti critici che approfondiscono la lettura, moltiplicano i punti di vista e mettono in discussione i temi che lo compongono

Se di Scorsese "Mean Streets" era stato il film fondativo, quello che della poetica del cineasta americano aveva anticipato le coordinate umane, antropologiche e ambientali dei futuri capolavori, "The Irishman" sembra svolgere una funzione opposta nel suo presentarsi come testamento (non finale) di un modo di intendere e di fare il cinema, a cominciare da quello  - familiare - di radunare nello stesso set attori e tecnici che a vario titolo avevano partecipato ai precedenti lavori del regista.

"The Irishman" però non è solo un film rispettoso della tradizione perché la cinefilia di Scorsese - e la collaborazione con la Cineteca di Bologna nel restauro di importanti opere cinematografiche è li a dimostrarlo - non disdegna l’impiego delle più moderne tecniche. Così fa "The Irishman" quando si tratta di ringiovanire i vari De Niro, Pesci e Pacino ricorrendo agli effetti della Industrial Light & Magic di George Lucas, così si comporta Scorsese nel momento in cui per sostenerne i costi - per lui a dir poco esorbitanti - decide di approdare su Netflix, dopo essere stato uno dei grandi sostenitori del cinema nella sale (e non sulla piattaforma). Questo per dire che la complessità dell'ultimo lungometraggio di Scorsese è tale da non potersi esaurire con un unico punto di vista: da qui il coro a più voci di uno speciale che ci è parso doveroso se non addirittura necessario.

Introduzione di Carlo Cerofolini

Il piano sequenza della bottega del barbiere

 

La filmografia di Scorsese lo colloca di diritto tra i grandi maestri del piano sequenza. In "Goodfellas" la serpentina di Henry e Karen nei meandri del Copacabana allude al potere occulto della malavita dietro l’amena facciata di decoro che caratterizzava la società americana di quegli anni. In "Casinò" la steadicam penetra nella count room del Riviera e illustra il (ri)ciclo vitale del denaro mentre Ace e Nicky, coinvolti come voci narranti, sono significativamente esclusi dal profilmico. Infine, in "The Irishman" un piano sequenza ricostruisce l’omicidio del boss Albert Anastasia, compiuto a Manhattan il 25 ottobre 1957 presso la bottega del barbiere dello Sheraton Hotel, tra la 56° e la 7°.

La scena si apre con un primo piano del boss sulla poltrona del barbiere, zoom out a inquadrare la bottega. Focus sui movimenti dell’autista di Anastasia (dx), un uomo alto e calvo con un soprabito nero. Dolly out, l’uomo avanza verso la telecamera malinconico e assorto, la mdp compie una rotazione di 180° mettendosi alle sue spalle e lo segue nel corridoio gremito di gente e negozi. L’autista incrocia lo sguardo di due uomini che salgono le scale, altra rotazione di 180° e seguiamo i due uomini indietro, fino alla bottega del barbiere. La mdp passa oltre, si sofferma su un mazzo di fiori in vetrina. Spari, urla, vetri infranti mentre la traccia in sottofondo (l’allegro baião "Delicado" composto da Valdir Azavedo ed eseguito da Percy Faith) aumenta di volume. Taglio, foto d’epoca dell’omicidio. Taglio, bottega di Russell Bufalino (Drapes & Curtains).

Diktat, malinconia, obbedienza, tradimento, assassinio, cronaca (la fotografia) e copertura (drapes, curtains). La storia di Frank Sheeran, storia di Cosa Nostra, è già riassunta e prefigurata in questo memorabile piano sequenza.

Rudi Capra

Silenzio



Se, occhi chiusi, evochiamo un suono da legare ai gangster scorsesiani allora ecco partire una canzone d’annata degli amati Rolling Stones. Il gesto, l’impeto del personaggio è calato in una ritmica all’interno della quale dialogano blocchi sovente legati l’un l’altro da elettroshock sonori.

La predilezione di Martin Scorsese per il melodramma lavora con eccitatato passo anche quando i criminali sono non più giovani ("Casinò"), sempre intenti a mangiare i vizi della vita.

La somma di questi assaliti audiovisivi trovano in "The Irishman" un risultato finale non scontato, che risponde al nome di silenzio.

Non che nella sua testamentaria opera manchi una colonna sonora, della canzoni capaci di evocare un’epoca; musica che però accompagna, che resta prevalentemente un sottofondo e che raramente genera e si fa azione. Ma non è soltanto questo. Il sonoro vive di esecuzioni e colpi di pistola secchi, striduli fulminei, lamenti gracchianti e patetici, laddove in passato voci e spari elettrici scrosciavano lungo le pellicole.

Ci rimane l’assenza di suoni, di voci. Silenzio che si annida in capitali fasi di Storia degli Stati Uniti d’America del Novecento (l'omicidio di Kennedy) e che fragoroso diviene per questi personaggi quando si cala nelle ossa della vita che resta.

Se nell'asciugare la componente meló la parola diviene un mezzo sempre più di stanco rigetto, il comparto femminile finge di fare da tappezzeria per poi impugnare e rivelare la risposta definitiva da consegnare ai padri che furono, a quelli mai riconosciuti tali. Frank Sheeran zoppica sempre più, si aggrappa al suo bastone e poi cade mentre accoglie, ormai impotente, i non detti della figlia Peggy, che si fanno naturalmente portatori di ulteriori e passati mutismi, fuori e dentro la sua vita criminale, fuori e dentro le mura domestiche.

Ancora parole taciute. Al collega, all’amico, ai giovani agenti della polizia dell’oggi.

Nelle traiettorie che attraversano stanze e corridoi della casa di cura che ospita il Frank anziano, dalla terminale porta socchiusa che precede i titoli di coda fuoriesce uno dei lampi sonori più assordanti di tutto il cinema di Martin Scorsese: il Silenzio.

Diego Capuano

Il crepuscolo degli idoli


"The Irishman" e "Once Upon a time... in Hollywood". Due film che escono nel 2019, forse casualmente ma sicuramente non per caso. Nel ventennio appena concluso il Cinema è stato letteralmente ossessionato dal concetto di mito e non esclusivamente con accezione cinematografica.

Sono stati infatti gli anni del rilancio di fortunati franchise del passato e in cui icone come Han Solo vengono trafitte a morte, gli anni della proliferazione dei remake, i quali hanno spesso avuto il pregio di problematizzare ulteriormente gli originali di riferimento, e anche gli anni in cui molti autori hanno ricalibrato la propria grammatica tornando a ripensare a periodi cruciali della nostra storia recente.

Su quest'onda Scorsese, coadiuvato da Tarantino, propone inconsciamente di chiudere questa complessa riflessione sul mito proprio a partire da quegli anni ’60 che hanno su più livelli marchiato a fuoco l’immaginario collettivo. Lo fa proponendo tutto quel corollario di elementi che hanno reso il suo Cinema così iconico: il genere gangster movie, volti fondamentali alla New Hollywood come De Niro e Al Pacino, un'impalcatura tecnica imponente. Tutto in "The Irishman" concorre a questa messa in discussione del ruolo mitopoietico della Settima Arte nel panorama contemporaneo.

Un panorama così mutato che questa stessa lunghissima seduta di analisi del Cinema è possibile solo grazie a quel mezzo, cioè Netflix come epitome del piccolo schermo in generale, che sta prendendo il suo posto diventando la vera fucina di mitologie del XXI secolo; proviene proprio dalla TV, ad esempio, l’ultimo grande esempio di narrativa alternativa dei roboanti anni '60, con quel Mad Men che ha ridefinito l'iconografia di quel periodo.

E al Cinema cosa rimane? Non rimane che riscrivere la Storia, plasmarla a piacimento e donare una fine lieve a Sharon Tate e Jimmy Hoffa, e con loro a sé stesso, chiedendo però di lasciare la porta aperta e di essere guardato un'ultima volta.

Cristiano Ciliberti

It’s what it is: il lungo addio dell’epopea gangster



La bussola morale di "The Irishman" oscilla tra i due poli di lealtà e tradimento inscritti nelle regole di Cosa nostra a cui Frank Sheeran, il passivo e opaco protagonista, aderisce affidandosi al mentorato del boss Russell Bufalino.

L'incontro con Jimmy Riddell Hoffa, che negli anni 50 era uno degli uomini più potenti d'America, rappresenta una seconda svolta nella vita di Frank che gli permette di fare carriera all'interno del Sindacato di cui il suo amico è presidente. Nel momento della caduta di Hoffa che si sviluppa nella terza parte (virtualmente di quattro) dell’epopea delineata da Martin Scorsese, Frank si trova a mediare tra Jimmy, deciso a riprendere le redini del sindacato, e i boss che iniziano a temerne le intemperanze e la risonanza mediatica. L'anello che Bufalino dona a Frank è il simbolo della sua immunità e al contempo monito a rassegnarsi alle sue responsabilità di affiliato: "It's what it is". Se Frank prende alla lettera il messaggio in codice, Hoffa lo derubrica a semplice minaccia ("Non oseranno" risponde).

Il breve viaggio in macchina dove Frank e Jimmy stanno sui sedili posteriori può ricordare per antitesi l'ultimo dialogo tra Charley e Terry Malloy in "Fronte del porto": la sequenza, in larga parte improvvisata da Rod Steiger e Marlon Brando, è un saggio di recitazione e contiene lo struggimento per un sentimento fraterno tradito e l'inevitabile catarsi del perdono (Terry sposta la pistola, Charley lo lascia andare consegnandogli l'arma); in "The Irishman" le linee di dialogo sono poche, un chit-chat di circostanza che acuisce quella tensione perfettamente incarnata dal volto di pietra di Robert De Niro. Lo sguardo dispiaciuto e gli occhi lucidi iniziali lasciano il passo alla fermezza e alla freddezza del soldato che fu. Scorsese inchioda un genere che ha forgiato la mitologia americana, il gangster movie, al tema dell'amicizia virile mostrandone la realtà ipocrita di una mera lotta per la sopravvivenza scambiata per alleanza. Dopodiché, "The Irishman" prosegue nella senescenza dei suoi personaggi, nell'irreversibile oblio che avvolge le loro parabole.

Con uno stile asciugato e lapidario, Scorsese consegna il suo protagonista all'attesa di una tumulazione priva di catarsi, al fatale arrivo della morte che passerà da quella porta lasciata socchiusa.

Giuseppe Gangi

Pittori senza tavolozza



Non si ridipinge una casa per niente. Il cinema gangster ci ha abituati a un'esasperazione delle "tre S" narratologiche: motivazioni viscerali che portano a gesti ignobili giustificati da ricompense ghiotte. Quantomeno, prima che un bellimbusto d’irlandese mandasse in crisi l'ultimo paradigma sopravvissuto al più postmodernizzato dei generi.

Cosa cerca Frank Sheeran? In tre ore e mezzo di film non se ne viene a capo: mai un mazzo di banconote conteggiato, un capezzolo strizzato, una sostanza psicotropa a scuotere quella tragica apatia. L'irlandese volante plana in perenne trance sulle storie e sulla Storia, privo di un obiettivo che esuli dal lavoretto di turno. La stessa modalità con cui sprofonda nel sottobosco malavitoso è anomala, come se lo facesse senza pensarci troppo né potesse fare altrimenti. A muovere questo scabro antieroe pare essere solo la cieca fedeltà a un boss che diventa padre adottivo e, in second’ordine, a un sindacalista che "sembra il generale Patton". Basta l'obbedienza assimilata in caserma a giustificare una simile rassegnazione, o dobbiamo scomodare il determinismo cattolicheggiante tanto caro al cinema italoamericano (un nome su tutti: Abel Ferrara)?

Anche vero che non parliamo di un mafioso in doppiopetto, ma di un sicario: una macchina per uccidere fabbricata per strada e temprata in guerra, poco coinvolto dai gingilli edonistici che accompagnano la scalata del potere. Un professionista implacabile, eppure tutt’altro che gelido: quante esitazioni, prima di freddare il suo migliore amico; quanti rimorsi dopo, davanti alla bara verde acqua; e quanto sincero dolore, per una figlia più spietata di lui nel negargli la parola. Cose che non tornano: non le uniche, in questo imperfetto e inattaccabile film-fiume.

Per rendere più straniante la marcia verso e attraverso il nulla, Scorsese architetta un'ulteriore apostasia stilistica: nessun tratto riconoscibile (un'insegna, un capo d'abbigliamento, una canzone) a marcare il susseguirsi dei decenni, che fluiscono indistinti e insensati come l'esistenza del protagonista. Sheeran non sa perché ha vissuto ma, una volta venuti meno i suoi mandanti, sa quando lasciarsi morire, in una maniera che più dimessa non si potrebbe.

"Sono tutti morti. E' finita, se ne sono andati. Chi vuole proteggere?", chiede il federale al Nostro in una delle ultime scene. Non lo sa nemmeno lui, e davvero non sapremmo cosa suggerirgli. Un silenzio solenne, che accompagna l’uscita di scena di un intero modo di intendere il cinema.

Massimiliano Speri

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