Se di Scorsese "Mean Streets" era stato il film fondativo, quello che della poetica del cineasta americano aveva anticipato le coordinate umane, antropologiche e ambientali dei futuri capolavori, "The Irishman" sembra svolgere una funzione opposta nel suo presentarsi come testamento (non finale) di un modo di intendere e di fare il cinema, a cominciare da quello - familiare - di radunare nello stesso set attori e tecnici che a vario titolo avevano partecipato ai precedenti lavori del regista.
"The Irishman" però non è solo un film rispettoso della tradizione perché la cinefilia di Scorsese - e la collaborazione con la Cineteca di Bologna nel restauro di importanti opere cinematografiche è li a dimostrarlo - non disdegna l’impiego delle più moderne tecniche. Così fa "The Irishman" quando si tratta di ringiovanire i vari De Niro, Pesci e Pacino ricorrendo agli effetti della Industrial Light & Magic di George Lucas, così si comporta Scorsese nel momento in cui per sostenerne i costi - per lui a dir poco esorbitanti - decide di approdare su Netflix, dopo essere stato uno dei grandi sostenitori del cinema nella sale (e non sulla piattaforma). Questo per dire che la complessità dell'ultimo lungometraggio di Scorsese è tale da non potersi esaurire con un unico punto di vista: da qui il coro a più voci di uno speciale che ci è parso doveroso se non addirittura necessario.
Introduzione di Carlo Cerofolini
Il piano sequenza della bottega del barbiere
La filmografia di Scorsese lo colloca di diritto tra i grandi maestri del piano sequenza. In "Goodfellas" la serpentina di Henry e Karen nei meandri del Copacabana allude al potere occulto della malavita dietro l’amena facciata di decoro che caratterizzava la società americana di quegli anni. In "Casinò" la steadicam penetra nella count room del Riviera e illustra il (ri)ciclo vitale del denaro mentre Ace e Nicky, coinvolti come voci narranti, sono significativamente esclusi dal profilmico. Infine, in "The Irishman" un piano sequenza ricostruisce l’omicidio del boss Albert Anastasia, compiuto a Manhattan il 25 ottobre 1957 presso la bottega del barbiere dello Sheraton Hotel, tra la 56° e la 7°.
La scena si apre con un primo piano del boss sulla poltrona del barbiere, zoom out a inquadrare la bottega. Focus sui movimenti dell’autista di Anastasia (dx), un uomo alto e calvo con un soprabito nero. Dolly out, l’uomo avanza verso la telecamera malinconico e assorto, la mdp compie una rotazione di 180° mettendosi alle sue spalle e lo segue nel corridoio gremito di gente e negozi. L’autista incrocia lo sguardo di due uomini che salgono le scale, altra rotazione di 180° e seguiamo i due uomini indietro, fino alla bottega del barbiere. La mdp passa oltre, si sofferma su un mazzo di fiori in vetrina. Spari, urla, vetri infranti mentre la traccia in sottofondo (l’allegro baião "Delicado" composto da Valdir Azavedo ed eseguito da Percy Faith) aumenta di volume. Taglio, foto d’epoca dell’omicidio. Taglio, bottega di Russell Bufalino (Drapes & Curtains).
Diktat, malinconia, obbedienza, tradimento, assassinio, cronaca (la fotografia) e copertura (drapes, curtains). La storia di Frank Sheeran, storia di Cosa Nostra, è già riassunta e prefigurata in questo memorabile piano sequenza.
Rudi Capra
Silenzio
It’s what it is: il lungo addio dell’epopea gangster
Pittori senza tavolozza
Se, occhi chiusi, evochiamo un suono da legare ai gangster scorsesiani allora ecco partire una canzone d’annata degli amati Rolling Stones.
Il gesto, l’impeto del personaggio è calato in una ritmica all’interno
della quale dialogano blocchi sovente legati l’un l’altro da
elettroshock sonori.
La predilezione di Martin Scorsese per il
melodramma lavora con eccitatato passo anche quando i criminali sono non
più giovani ("Casinò"), sempre intenti a mangiare i vizi della vita.
La somma di questi assaliti audiovisivi trovano in "The Irishman" un
risultato finale non scontato, che risponde al nome di silenzio.
Non che nella sua testamentaria opera manchi una colonna sonora, della
canzoni capaci di evocare un’epoca; musica che però accompagna, che
resta prevalentemente un sottofondo e che raramente genera e si fa
azione. Ma non è soltanto questo. Il sonoro vive di esecuzioni e colpi
di pistola secchi, striduli fulminei, lamenti gracchianti e patetici,
laddove in passato voci e spari elettrici scrosciavano lungo le
pellicole.
Ci rimane l’assenza di suoni, di voci. Silenzio che si
annida in capitali fasi di Storia degli Stati Uniti d’America del
Novecento (l'omicidio di Kennedy) e che fragoroso diviene per questi
personaggi quando si cala nelle ossa della vita che resta.
Se
nell'asciugare la componente meló la parola diviene un mezzo sempre più
di stanco rigetto, il comparto femminile finge di fare da tappezzeria
per poi impugnare e rivelare la risposta definitiva da consegnare ai
padri che furono, a quelli mai riconosciuti tali. Frank Sheeran zoppica
sempre più, si aggrappa al suo bastone e poi cade mentre accoglie, ormai
impotente, i non detti della figlia Peggy, che si fanno naturalmente
portatori di ulteriori e passati mutismi, fuori e dentro la sua vita
criminale, fuori e dentro le mura domestiche.
Ancora parole taciute. Al collega, all’amico, ai giovani agenti della polizia dell’oggi.
Nelle traiettorie che attraversano stanze e corridoi della casa di cura
che ospita il Frank anziano, dalla terminale porta socchiusa che
precede i titoli di coda fuoriesce uno dei lampi sonori più assordanti
di tutto il cinema di Martin Scorsese: il Silenzio.
Diego Capuano
Il crepuscolo degli idoli
"The Irishman" e "Once Upon a time... in Hollywood".
Due film che escono nel 2019, forse casualmente ma sicuramente non per
caso. Nel ventennio appena concluso il Cinema è stato letteralmente
ossessionato dal concetto di mito e non esclusivamente con accezione
cinematografica.
Sono stati infatti gli anni del rilancio di
fortunati franchise del passato e in cui icone come Han Solo vengono
trafitte a morte, gli anni della proliferazione dei remake, i quali
hanno spesso avuto il pregio di problematizzare ulteriormente gli
originali di riferimento, e anche gli anni in cui molti autori hanno
ricalibrato la propria grammatica tornando a ripensare a periodi
cruciali della nostra storia recente.
Su quest'onda Scorsese,
coadiuvato da Tarantino, propone inconsciamente di chiudere questa
complessa riflessione sul mito proprio a partire da quegli anni ’60 che
hanno su più livelli marchiato a fuoco l’immaginario collettivo. Lo fa
proponendo tutto quel corollario di elementi che hanno reso il suo
Cinema così iconico: il genere gangster movie, volti fondamentali alla
New Hollywood come De Niro e Al Pacino, un'impalcatura tecnica
imponente. Tutto in "The Irishman" concorre a questa messa in
discussione del ruolo mitopoietico della Settima Arte nel panorama
contemporaneo.
Un panorama così mutato che questa stessa lunghissima
seduta di analisi del Cinema è possibile solo grazie a quel mezzo, cioè
Netflix come epitome del piccolo schermo in generale, che sta prendendo
il suo posto diventando la vera fucina di mitologie del XXI secolo;
proviene proprio dalla TV, ad esempio, l’ultimo grande esempio di
narrativa alternativa dei roboanti anni '60, con quel Mad Men che ha
ridefinito l'iconografia di quel periodo.
E al Cinema cosa
rimane? Non rimane che riscrivere la Storia, plasmarla a piacimento e
donare una fine lieve a Sharon Tate e Jimmy Hoffa, e con loro a sé
stesso, chiedendo però di lasciare la porta aperta e di essere guardato
un'ultima volta.
Cristiano Ciliberti
Cristiano Ciliberti
It’s what it is: il lungo addio dell’epopea gangster
La
bussola morale di "The Irishman" oscilla tra i due poli di lealtà e
tradimento inscritti nelle regole di Cosa nostra a cui Frank Sheeran, il
passivo e opaco protagonista, aderisce affidandosi al mentorato del
boss Russell Bufalino.
L'incontro con Jimmy Riddell Hoffa, che
negli anni 50 era uno degli uomini più potenti d'America, rappresenta
una seconda svolta nella vita di Frank che gli permette di fare carriera
all'interno del Sindacato di cui il suo amico è presidente. Nel momento
della caduta di Hoffa che si sviluppa nella terza parte (virtualmente
di quattro) dell’epopea delineata da Martin Scorsese, Frank si trova a
mediare tra Jimmy, deciso a riprendere le redini del sindacato, e i boss
che iniziano a temerne le intemperanze e la risonanza mediatica.
L'anello che Bufalino dona a Frank è il simbolo della sua immunità e al
contempo monito a rassegnarsi alle sue responsabilità di affiliato:
"It's what it is". Se Frank prende alla lettera il messaggio in codice,
Hoffa lo derubrica a semplice minaccia ("Non oseranno" risponde).
Il breve viaggio in macchina dove Frank e Jimmy stanno sui sedili posteriori può ricordare per antitesi l'ultimo dialogo tra Charley e Terry Malloy
in "Fronte del porto": la sequenza, in larga parte improvvisata da Rod
Steiger e Marlon Brando, è un saggio di recitazione e contiene lo
struggimento per un sentimento fraterno tradito e l'inevitabile catarsi
del perdono (Terry sposta la pistola, Charley lo lascia andare
consegnandogli l'arma); in "The Irishman" le linee di dialogo sono
poche, un chit-chat di circostanza che acuisce quella tensione
perfettamente incarnata dal volto di pietra di Robert De Niro. Lo
sguardo dispiaciuto e gli occhi lucidi iniziali lasciano il passo alla
fermezza e alla freddezza del soldato che fu. Scorsese inchioda un
genere che ha forgiato la mitologia americana, il gangster movie,
al tema dell'amicizia virile mostrandone la realtà ipocrita di una mera
lotta per la sopravvivenza scambiata per alleanza. Dopodiché, "The
Irishman" prosegue nella senescenza dei suoi personaggi,
nell'irreversibile oblio che avvolge le loro parabole.
Con uno stile asciugato e lapidario, Scorsese consegna il suo protagonista all'attesa
di una tumulazione priva di catarsi, al fatale arrivo della morte che
passerà da quella porta lasciata socchiusa.
Giuseppe Gangi
Pittori senza tavolozza
Non si ridipinge una casa per niente. Il cinema gangster ci ha abituati a
un'esasperazione delle "tre S" narratologiche: motivazioni viscerali che
portano a gesti ignobili giustificati da ricompense ghiotte.
Quantomeno, prima che un bellimbusto d’irlandese mandasse in crisi
l'ultimo paradigma sopravvissuto al più postmodernizzato dei generi.
Cosa
cerca Frank Sheeran? In tre ore e mezzo di film non se ne viene a capo:
mai un mazzo di banconote conteggiato, un capezzolo strizzato, una
sostanza psicotropa a scuotere quella tragica apatia. L'irlandese
volante plana in perenne trance sulle storie e sulla Storia, privo di un
obiettivo che esuli dal lavoretto di turno. La stessa modalità con cui
sprofonda nel sottobosco malavitoso è anomala, come se lo facesse senza
pensarci troppo né potesse fare altrimenti. A muovere questo scabro
antieroe pare essere solo la cieca fedeltà a un boss che diventa padre
adottivo e, in second’ordine, a un sindacalista che "sembra il generale
Patton". Basta l'obbedienza assimilata in caserma a giustificare una
simile rassegnazione, o dobbiamo scomodare il determinismo
cattolicheggiante tanto caro al cinema italoamericano (un nome su tutti:
Abel Ferrara)?
Anche vero che non parliamo di un mafioso in
doppiopetto, ma di un sicario: una macchina per uccidere fabbricata per
strada e temprata in guerra, poco coinvolto dai gingilli edonistici che
accompagnano la scalata del potere. Un professionista implacabile,
eppure tutt’altro che gelido: quante esitazioni, prima di freddare il
suo migliore amico; quanti rimorsi dopo, davanti alla bara verde acqua; e
quanto sincero dolore, per una figlia più spietata di lui nel negargli
la parola. Cose che non tornano: non le uniche, in questo imperfetto e
inattaccabile film-fiume.
Per rendere più straniante la marcia
verso e attraverso il nulla, Scorsese architetta un'ulteriore apostasia
stilistica: nessun tratto riconoscibile (un'insegna, un capo
d'abbigliamento, una canzone) a marcare il susseguirsi dei decenni, che
fluiscono indistinti e insensati come l'esistenza del protagonista.
Sheeran non sa perché ha vissuto ma, una volta venuti meno i suoi
mandanti, sa quando lasciarsi morire, in una maniera che più dimessa non
si potrebbe.
"Sono tutti morti. E' finita, se ne sono
andati. Chi vuole proteggere?", chiede il federale al Nostro in una
delle ultime scene. Non lo sa nemmeno lui, e davvero non sapremmo cosa
suggerirgli. Un silenzio solenne, che accompagna l’uscita di scena di un
intero modo di intendere il cinema.
Massimiliano Speri
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