di Alberto Negri
A 20 dollari al barile è la serrata di un mondo, quello del
petrolio, per la guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia e per il
calo drastico della domanda internazionale depressa dalla crisi
pandemica ed economica: in poche settimane da 100milioni di barili al
giorno di consumi si è passati a 75, il 20% in meno.
All’orizzonte, mentre un Trump disorientato e sull’orlo di una crisi
impensabile ha telefonato ieri a Putin, si profila la rovina delle
società petrolifere americane dello shale oil ma soprattutto di
interi popoli e nazioni che campano sulle esportazioni di oro nero. Il
mondo arabo e il Golfo sono in tilt, l’Iran ha l’acqua alla gola per le
sanzioni Usa e in Nordafrica, dall’Egitto all’Algeria, alla Tunisia, si
profila una recessione senza precedenti, accompagnata da conflitti che
non si fermano e da crisi di legittimità dei regimi che devono almeno
far mangiare la propria gente. Una destabilizzazione che investe Iraq,
Siria, Iran, Libano, Giordania e milioni di profughi che vagano dentro e
ai margini di stati sempre più poveri e ora anche devastati
dall’epidemia del coronavirus.
Questo è un mondo che più o meno direttamente dipende, per far
quadrare i conti e sopravvivere, dall’oro nero e dagli investimenti
legati all’industria petrolifera. Se i Paesi del Golfo, i più ricchi,
stringono i cordoni della borsa anche per gli altri le prospettive sono
plumbee. Basti pensare che il Qatar ha appena donato 150 milioni di
dollari a Gaza.
Neanche troppo sullo sfondo ci sono gli Stati Uniti che non
rinunciano al regime change a Teheran, epicentro mediorientale del
Covid-19, mentre la Turchia regola i conti con i curdi uccidendo Nazife
Bilen, la donna più alta in grado nelle fila dei combattenti del Pkk:
perché le crisi, anche le peggiori, non fermano le guerre e neppure i
volonterosi carnefici di popoli come Erdogan che è sempre in battaglia
anche contro Assad nell’inferno umanitario di Idlib.
Succede così quello che non era accaduto con la Grande Depressione
del 1929: essere pagati per portare via il petrolio in eccedenza. Non si
era mai visto. I produttori non sanno dove stoccarlo e per questo
alcuni Paesi e diverse multinazionali hanno cominciato a chiudere i
pozzi e pure le raffinerie. Quando la crisi da coronavirus finirà
potrebbe anche accadere il contrario: che non ci sarà abbastanza oro
nero sui mercati.
La guerra del petrolio è stata innescata dal gran rifiuto della
Russia di tagliare la produzione come aveva chiesto l’Arabia Saudita
all’”Opec +1″, l’accordo dello storico Cartello petrolifero con Mosca
che finora aveva tenuto a galla le quotazioni. Trump adesso si aggrappa a
Putin per far rialzare i prezzi dopo avere convinto il “principe nero”
Mohammed bin Salman a tagliare la produzione. Mosca pur di non cedere e
mettere fuori mercato le società Usa, gravate dai debiti, è pronta a
bruciare le riserve del Fondo sovrano russo (150 miliardi di dollari)
per coprire le entrate mancate. In palio c’è la leadership del mercato
dell’energia, non solo quello del petrolio ma anche del gas dove la
Russia domina le forniture in Europa sia direttamente sia tramite l’hub
della Turchia di Erdogan.
Ecco perché la battaglia ha risvolti strategici formidabili: si
tratta anche di influenzare gli eventi in una vasta area dal Mediterraneo
al Medio Oriente al Nordafrica. Ma anche lo zar potrebbe ripensarci: il
gioco al ribasso può diventare una partita mortale.
Le compagnie americane dello shale oil sono in coma. Avevano
cominciato la loro ascesa nel 2008 quando il costo del barile flirtava
con quota 150 dollari, un’enormità che aveva spinto le società a
investire a raffica nell’innovazione ma anche a indebitarsi. Già erano
entrate in difficoltà nel 2016 quando era cominciato il calo del greggio
e ora non sanno come ripagare i debiti, i loro titoli ormai sono quasi
spazzatura. Da allora nel settore ci sono stati dozzine di fallimenti
con debiti oltre i 120 miliardi di dollari.
Sono lacrime e sangue per tutti. Gli effetti dei ribassi possono
essere prevedibili dal punto di vista economico ma assai più oscuri da
quello strategico: se la situazione dovesse perdurare nel tempo i
bilanci di paesi produttori, già in difficoltà per motivi interni e
internazionali – come l’Iran sotto embargo, l’Algeria in una fase di
transizione assai critica, l’Iraq delle rivolte e la Libia strangolata
dalla guerra civile – possono subire colpi fatali. In questi Paesi il
petrolio paga tutto o quasi: dal pane sulla tavola della gente comune ai
ricatti di milizie che nessuno tiene a freno.
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