Tra le tante vittime mietute dalla “crisi Coronavirus”, ne contiamo
una che ci sembra di poter annoverare, con l’approfondirsi delle
contraddizioni, tra le più celebri: quella del dogma neo-liberista. Una
“vittima ideale” – facciamo attenzione – e non reale, come le ormai
migliaia di vite scomparse dall’inizio della propagazione del virus
nella nostra traballante società. Società che sembra assumere sempre di
più le sembianze di un edificio marcio, irrimediabilmente danneggiato
alle fondamenta. Solo che, in questo caso, a rendere la struttura
fragile e prossima a rovinare non è un’imprevedibile emergenza
sanitaria, quanto un ciclo di riforme economiche ben definito nel tempo –
le riforme del sistema sanitario attuate a partire dagli anni ’90 – e
nello spazio – l’Europa “pre-crisi” (ma esiste un pre-crisi da
un decennio a questa parte?). Non tutti i mali, tuttavia, vengono per
nuocere o meglio, non tutte le vittime – specialmente quelle del campo
avverso – generano un moto di commozione.
Il requiem che in questi giorni l’establishment
europeista sta suonando per il dogma del neoliberismo dovrebbe al
contrario stimolare una certa soddisfazione in quanti fino ad oggi si
sono opposti fermamente alla stagione di ristrutturazione capitalistica e
d’imposizione liberista in Europa. Eppure la questione non sembra così
semplice, e oltre alle vittime reali e a quelle “ideali”, si contano
anche quelle “politiche” del nostro campo, di quanti si trincerano
dietro una non prevedibilità dell’evento o che cadono vittime del
cortocircuito retorico della catastrofe naturale. Ma ancora più
confusione si è generata con questa repentina svolta “interventista”,
questa improvvisa febbre statalista che ha colpito trasversalmente
l’intellettualità neo-liberista in tutte le sue declinazioni e
sfaccettature che, una volta resasi conto che se la nave affonda a
questa velocità non ci sono scialuppe di salvataggio che tengano, si
presenta su stampa e televisione affermando, con una naturalezza e
un’innocenza degna di chi sa che deve solo obbedire, l’esatto contrario
di quanto affermato fino ad un momento prima.
Ieri esisteva un vincolo, oggi non esiste più. Ieri esisteva un
limite e oggi lo sospendiamo. Ben venga verrebbe da dire, se non fosse
che dietro questo cambio di direzione si cela il solito gioco di
prestigio dell’aiuto condizionato, ovvero del flusso di aiuti un momento
prima del crollo a cui seguirà una contropartita che farà rimpiangere i
tempi di crisi. La stessa dinamica che, da quando il Trattato di
Maastricht e relativi aggiornamenti sono operativi, fa somigliare la
classe dirigente europeista più che a un ceto politico, alla socialmente
inestinguibile figura del cravattaro. Oggi vi diamo il prestito, la possibilità di pompare denaro, e domani ci ridate tutto – tutto
– con gli interessi: interessi, sia chiaro, che verranno ripagati con
l’unica valuta accettata a Bruxelles, quella delle riforme di struttura e
dello sventramento dello “stato sociale” (si, proprio quello che ha
fatto andare a gambe all’aria la metà degli ospedali di questo paese nel
giro di un mese). In ogni caso, anche se questa “inversione a U” del
sistema europeista si basa su un tatticismo dettato da insuperabili
condizioni oggettive – ma pur sempre contingenti – la
contraddizione sul piano ideologico, del pensiero egemone, si è aperta
in modo manifesto. Fino a ieri potevano sbandierare il dogma
neo-liberista come fosse verbum dei, con il fuoco di
sbarramento mediatico che martellava vita natural durante sulla
impossibilità di smuovere un solo euro dai bilanci dello Stato perché
tanto «di soldi non ce ne sono». La Grecia insegna. Oggi, invece, gli
zelanti esecutori delle direttive europee di ieri parlano candidamente
di «bazooka» finanziari e gigantesche operazioni di salvataggio. Siamo
passati, dal giorno alla notte, dalla totale assenza di liquidità al
bombardamento a colpi di acquisti di titoli. Praticamente tutti, fatto
salvo l’amante degli aperitivi fuori tempo massimo che, probabilmente,
dalla quarantena non regge più il ritmo serrato del dibattito politico
europeo,
si sono accorti che la contraddizione tra dogma euro-liberista e
crisi del coronavirus non è più sostenibile nella pratica come nella
teoria: dal protagonista della stagione lacrime e sangue dei governi
tecnici Mario Monti, che tuona dalle colonne del Corsera: «Eurobond: ora si può», agli imbattuti campioni delle revolving doors
della borghesia italiana come Franco Bernabè che, sprizzante ottimismo
da ogni poro, ci dice addirittura che «il virus darà l’opportunità di
fare l’Europa» invocando una nuova Bretton-Woods europea.
Comunque, che in questo momento si stia giocando una partita storica
ai piani alti dell’europeismo è fuori di dubbio, e che questa partita
determinerà le sorti della struttura Unione europea è altrettanto fuori
di dubbio. Con altrettanta certezza, però, possiamo dire che qualunque
sia il partito che uscirà vincente da questo scontro, gli effetti
collaterali saranno pagati con l’unico meccanismo europeo di stabilità
che si può sempre utilizzare, quello della compressione salariale e
delle misure anti-proletarie.
Certo, prima di ogni altra cosa occorrerebbe spostare equilibri reali
per volgere a nostro vantaggio un momento storico e di passaggio come
questo; sarebbe necessario avere le forze soggettive e la stazza
politica per ribaltare rapporti di forza che scricchiolano in modo sempre più evidente: tutte cose che la sinistra di classe, nella fase che si trova ad affrontare, può solo pensare.
Ma se il vecchio frequentatore della British Library non ha
parlato invano quando ha scritto che «sono le forme ideologiche che
permettono agli uomini di concepire il conflitto e [di] combatterlo» è
quantomeno ora di togliersi di torno queste “vittime ideali”, di far
pesare questi passaggi, in modo irreversibile, nel dibattito pubblico e
di impedire che passata la tempesta – se passerà – si ricominci d’accapo
con la riproposizione del neo-liberismo come sistema naturale. Insomma:
dobbiamo liberarci definitivamente del cadavere del dogma neo-liberista. I morti, si sa, dopo un po’ cominciano a puzzare.
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