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23/03/2020

Giravolte europeiste

Tra le tante vittime mietute dalla “crisi Coronavirus”, ne contiamo una che ci sembra di poter annoverare, con l’approfondirsi delle contraddizioni, tra le più celebri: quella del dogma neo-liberista. Una “vittima ideale” – facciamo attenzione – e non reale, come le ormai migliaia di vite scomparse dall’inizio della propagazione del virus nella nostra traballante società. Società che sembra assumere sempre di più le sembianze di un edificio marcio, irrimediabilmente danneggiato alle fondamenta. Solo che, in questo caso, a rendere la struttura fragile e prossima a rovinare non è un’imprevedibile emergenza sanitaria, quanto un ciclo di riforme economiche ben definito nel tempo – le riforme del sistema sanitario attuate a partire dagli anni ’90 – e nello spazio – l’Europa “pre-crisi” (ma esiste un pre-crisi da un decennio a questa parte?). Non tutti i mali, tuttavia, vengono per nuocere o meglio, non tutte le vittime – specialmente quelle del campo avverso – generano un moto di commozione.

Il requiem che in questi giorni l’establishment europeista sta suonando per il dogma del neoliberismo dovrebbe al contrario stimolare una certa soddisfazione in quanti fino ad oggi si sono opposti fermamente alla stagione di ristrutturazione capitalistica e d’imposizione liberista in Europa. Eppure la questione non sembra così semplice, e oltre alle vittime reali e a quelle “ideali”, si contano anche quelle “politiche” del nostro campo, di quanti si trincerano dietro una non prevedibilità dell’evento o che cadono vittime del cortocircuito retorico della catastrofe naturale. Ma ancora più confusione si è generata con questa repentina svolta “interventista”, questa improvvisa febbre statalista che ha colpito trasversalmente l’intellettualità neo-liberista in tutte le sue declinazioni e sfaccettature che, una volta resasi conto che se la nave affonda a questa velocità non ci sono scialuppe di salvataggio che tengano, si presenta su stampa e televisione affermando, con una naturalezza e un’innocenza degna di chi sa che deve solo obbedire, l’esatto contrario di quanto affermato fino ad un momento prima.

Ieri esisteva un vincolo, oggi non esiste più. Ieri esisteva un limite e oggi lo sospendiamo. Ben venga verrebbe da dire, se non fosse che dietro questo cambio di direzione si cela il solito gioco di prestigio dell’aiuto condizionato, ovvero del flusso di aiuti un momento prima del crollo a cui seguirà una contropartita che farà rimpiangere i tempi di crisi. La stessa dinamica che, da quando il Trattato di Maastricht e relativi aggiornamenti sono operativi, fa somigliare la classe dirigente europeista più che a un ceto politico, alla socialmente inestinguibile figura del cravattaro. Oggi vi diamo il prestito, la possibilità di pompare denaro, e domani ci ridate tutto – tutto – con gli interessi: interessi, sia chiaro, che verranno ripagati con l’unica valuta accettata a Bruxelles, quella delle riforme di struttura e dello sventramento dello “stato sociale” (si, proprio quello che ha fatto andare a gambe all’aria la metà degli ospedali di questo paese nel giro di un mese). In ogni caso, anche se questa “inversione a U” del sistema europeista si basa su un tatticismo dettato da insuperabili condizioni oggettive – ma pur sempre contingenti – la contraddizione sul piano ideologico, del pensiero egemone, si è aperta in modo manifesto. Fino a ieri potevano sbandierare il dogma neo-liberista come fosse verbum dei, con il fuoco di sbarramento mediatico che martellava vita natural durante sulla impossibilità di smuovere un solo euro dai bilanci dello Stato perché tanto «di soldi non ce ne sono». La Grecia insegna. Oggi, invece, gli zelanti esecutori delle direttive europee di ieri parlano candidamente di «bazooka» finanziari e gigantesche operazioni di salvataggio. Siamo passati, dal giorno alla notte, dalla totale assenza di liquidità al bombardamento a colpi di acquisti di titoli. Praticamente tutti, fatto salvo l’amante degli aperitivi fuori tempo massimo che, probabilmente, dalla quarantena non regge più il ritmo serrato del dibattito politico europeo,

si sono accorti che la contraddizione tra dogma euro-liberista e crisi del coronavirus non è più sostenibile nella pratica come nella teoria: dal protagonista della stagione lacrime e sangue dei governi tecnici Mario Monti, che tuona dalle colonne del Corsera: «Eurobond: ora si può», agli imbattuti campioni delle revolving doors della borghesia italiana come Franco Bernabè che, sprizzante ottimismo da ogni poro, ci dice addirittura che «il virus darà l’opportunità di fare l’Europa» invocando una nuova Bretton-Woods europea.

Comunque, che in questo momento si stia giocando una partita storica ai piani alti dell’europeismo è fuori di dubbio, e che questa partita determinerà le sorti della struttura Unione europea è altrettanto fuori di dubbio. Con altrettanta certezza, però, possiamo dire che qualunque sia il partito che uscirà vincente da questo scontro, gli effetti collaterali saranno pagati con l’unico meccanismo europeo di stabilità che si può sempre utilizzare, quello della compressione salariale e delle misure anti-proletarie.

Certo, prima di ogni altra cosa occorrerebbe spostare equilibri reali per volgere a nostro vantaggio un momento storico e di passaggio come questo; sarebbe necessario avere le forze soggettive e la stazza politica per ribaltare rapporti di forza che scricchiolano in modo sempre più evidente: tutte cose che la sinistra di classe, nella fase che si trova ad affrontare, può solo pensare.

Ma se il vecchio frequentatore della British Library non ha parlato invano quando ha scritto che «sono le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire il conflitto e [di] combatterlo» è quantomeno ora di togliersi di torno queste “vittime ideali”, di far pesare questi passaggi, in modo irreversibile, nel dibattito pubblico e di impedire che passata la tempesta – se passerà – si ricominci d’accapo con la riproposizione del neo-liberismo come sistema naturale. Insomma: dobbiamo liberarci definitivamente del cadavere del dogma neo-liberista. I morti, si sa, dopo un po’ cominciano a puzzare.

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