L’emergenza sanitaria di queste
settimane, come avviene in tutti gli stati emergenziali, sta mostrando
in tutta la sua crudezza alcuni tratti tipici della nostra
organizzazione economica e sociale. Gli effetti devastanti dell’austerità sul sistema sanitario rivelano in modo brutale cosa significhi davvero la logica della scarsità delle risorse
imposta dalle politiche economiche degli ultimi decenni. A fronte di
una disponibilità limitata di posti di terapia intensiva occorre, come
in un’economia di guerra, effettuare delle scelte e sacrificare il più vecchio
o il già malato, colui che avrà meno possibilità di sopravvivenza a
favore del più giovane e sano. La scarsità delle risorse, non certo
naturale o da deficit tecnologico, ma imposta da anni di politiche di austerità, impone una logica di sapore darwinista di selezione del soggetto da salvare, contrapponendo giovani e vecchi, sani e malati.
Questa apparente contrapposizione non è
limitata, però, al campo della salute. Da molti anni il dibattito
pubblico è permeato di una retorica che è divenuta quasi costitutiva del
nostro modo di pensare: quella di un inevitabile conflitto economico intergenerazionale tra giovani e anziani, per la spartizione di risorse economiche scarse, nel tempo della crisi demografica irreversibile dell’occidente.
Il presupposto oggettivo di questa idea è
l’esistenza di un’indubbia crisi demografica che nei paesi europei, e
più in generale nel mondo industrializzato, ha avuto inizio negli anni
’70-’80 del secolo scorso e si manifesta come crescente squilibrio
anagrafico tra giovani e vecchi, con la crescita degli ultimi e la
diminuzione dei primi.
La simultanea riduzione dei tassi di
natalità e mortalità, e addirittura in Italia il superamento del numero
di morti rispetto al numero di nati già a partire dalla fine degli anni
’80, hanno portato non solo ad un evidente invecchiamento, favorito
quest’ultimo anche dal progresso tecnologico in campo sanitario, ma
anche ad un graduale declino della popolazione, compensato in molti
paesi europei soltanto dal saldo netto positivo dei flussi migratori
(immigrati meno emigrati). Del resto, per dare un’idea della situazione
anagrafica del nostro paese basta osservare che nel 2018 l’età mediana
(quella che ripartisce la popolazione ordinata secondo l’età in due
gruppi ugualmente numerosi) in Italia era pari a 46,8 anni, a fronte dei
31 anni nel periodo dell’immediato dopoguerra, e che nel 2017 il tasso
di natalità (definito come il rapporto tra il numero dei nati
vivi dell’anno e l’ammontare medio della popolazione residente) era
pari a 7,5/1000 e quello di mortalità (definito come il rapporto tra
il numero dei decessi nell’anno e l’ammontare medio della
popolazione residente) attorno al 10/1000.
Declino e invecchiamento sono una realtà
evidente della demografia contemporanea occidentale e in particolare del
nostro e di altri paesi, che affonda le sue radici in un complesso di
cause che sono insieme materiali e culturali.
A partire da questo stato di cose,
occorre allora porsi alcune domande che richiedono uno sforzo di
riflessione ampio. La prima e più immediata è questa: ammesso e non
concesso che il declino demografico sia un dato esogeno rispetto al
funzionamento e allo stato di salute del sistema economico (e non lo è affatto),
l’attuale rapporto numerico tra giovani e vecchi rende davvero
inevitabile l’esplosione di un conflitto distributivo generazionale, da
risolversi con politiche di restrizione della quota di reddito devoluta
agli anziani (obiettivo perseguito dalle riforme pensionistiche varate dal 1992 ad oggi)?
Più in breve: gli interessi oggettivi dei lavoratori giovani e degli anziani pensionati sono davvero inevitabilmente contrapposti?
Rispondere a questa prima domanda ci
permette di fissare il primo tassello del puzzle della decostruzione
della nefasta teoria del conflitto tra generazioni.
Al principio del 2019 il Fondo Monetario
Internazionale pubblicava un rapporto sulla sostenibilità dei sistemi
pensionistici, in cui veniva messo sotto accusa il sistema previdenziale
italiano, considerato ad alto rischio di collasso e insostenibile nel
lungo periodo. Vi si affermava: “Abbassare l’età pensionabile” – con
chiaro riferimento alla riforma nota come quota 100 – “abbasserà il
tasso di partecipazione alla forza lavoro e la crescita potenziale,
aggiungendosi ad un già alto conto pensionistico”. Seguivano
raccomandazioni sulla necessità di aumentare l’età pensionabile, per
evitare che un domani i giovani non abbiano più modo di accedere alla
pensione e siano costretti a finanziarla con proprie risorse una volta
raggiunta l’anzianità.
Il report del FMI esemplifica
plasticamente una visione egemone ormai da trent’anni, che continuamente
viene riproposta con altisonante allarmismo e che ritorna oggi con
clamore nel dibattito corrente sul superamento di quota 100: “non ci
sono risorse per finanziare i sistemi pensionistici” si afferma.
“L’unica soluzione è un aumento dell’età pensionabile o una riduzione
drastica dell’assegno pensionistico”. “Se queste misure non venissero
attuate i giovani sarebbero condannati ad un presente e ad un futuro di
privazioni a causa degli iniqui privilegi garantiti agli anziani. E se
mai proprio dovessimo garantire flessibilità in uscita ai pensionati
occorrerebbe farlo a parità di risorse, ovvero con una penalizzazione
dell’assegno previdenziale”, etc. etc.
Ma quali sono i presupposti di questa
impostazione? Per rispondere, bisogna partire dalle radici di teoria
economica e di prospettiva politica e culturale che si celano dietro al
mito del conflitto economico tra le generazioni. Vi sono molti pilastri
su cui si sostiene questo mito. Il primo discende direttamente dalla
logica intrinseca alla teoria economica neoclassica, oggi dominante,
secondo cui un sistema economico dispone di risorse date, scarse.
Quest’idea si basa sull’assunzione che i sistemi economici di mercato
tendano – magicamente – sempre a raggiungere il pieno impiego delle
risorse disponibili, ovvero la piena occupazione dei lavoratori e il
pieno utilizzo del capitale fisico a disposizione. Una visione armonica e
idilliaca del capitalismo come sistema destinato a generare piena
occupazione, una semplice fandonia in malafede che è
stato dimostrato essere logicamente fallace e fondata su presupposti
teorici del tutto inconsistenti. Ma qui la scienza non c’entra nulla,
nella misura in cui la teoria neoclassica fornice una patina di
legittimità agli interessi delle classi dominanti. Tornando al nostro
ragionamento, è evidente che, se si ritiene il capitalismo un sistema
che porta necessariamente alla piena occupazione, non si potrà che
ragionare sempre in un’ottica di risorse scarse. Se tutti i lavoratori
sono impiegati e tutto il capitale è pienamente utilizzato, infatti, il
sistema sta già producendo il massimo producibile date le condizioni
demografiche e tecnologiche esistenti. In questa dimensione è evidente
che una crescita della popolazione anziana, a sistemi pensionistici
dati, non potrà che comportare un drenaggio di risorse dai più giovani
occupati.
Se le cose stessero davvero così è
evidente che, in condizioni di declino demografico, mantenere un sistema
pensionistico nelle condizioni attuali implicherebbe spostare risorse
date dai giovani occupati agli anziani pensionati, con pregiudizio
inevitabile della generazione lavoratrice. Proprio da qui nasce la retorica dell’inevitabilità di riforme pensionistiche restrittive
come àncora di salvataggio per i giovani i quali, già colpiti dalla
precarietà del lavoro, sarebbero, poveri diavoli, anche costretti a
finanziare insostenibili assegni pensionistici per anziani benestanti.
La ricetta conseguente a questa impostazione in campo previdenziale è, da ormai trent’anni, sempre la stessa: riduzione dei diritti pensionistici e ridimensionamento della spesa previdenziale. La leva attraverso cui questa riduzione è stata attuata in Italia è stata la trasformazione del sistema retributivo in contributivo e, a seguire, la progressiva riduzione dei coefficienti di trasformazione, sulla base dell’idea che più anni di vita debbano implicare una rendita pensionistica mensile minore. A ciò si è unito l’aumento continuo dell’età pensionabile.
Se però capovolgessimo le premesse alla base di questo programma di austerità previdenziale,
anche queste apparenti conseguenze logiche perderebbero ogni
consistenza e coerenza. Se la disoccupazione, il precariato, la
discontinuità delle carriere e il lavoro nero non fossero dati
immutabili del sistema economico, come invece la teoria economica
dominante ci vorrebbe far credere, ma caratteristiche strettamente
legate alle politiche economiche e al modello di sviluppo capitalistico
adottato, allora si aprirebbe un pozzo di risorse sterminato, attraverso
cui coniugare un maggior benessere dei giovani con la possibilità di finanziare agevolmente le pensioni degli anziani,
anche in presenza di un aumento dell’aspettativa media di vita e di un
innegabile declino demografico. Più occupazione e carriere più sicure e
continue significa infatti una crescita enorme del montante contributivo
che finanzia un sistema pensionistico.
A tutto questo si aggiunge poi un altro
tassello molto rilevante. Nel discorso corrente in tema previdenziale si
fa sempre esclusivo riferimento alle risorse reperibili dai contributi
dei lavoratori e dei datori di lavoro. È noto infatti che la stragrande
maggioranza dei sistemi previdenziali viene finanziata tramite la
raccolta dei contributi pagati dai lavoratori dipendenti e autonomi e,
in quota parte, dalle imprese a favore dei loro dipendenti. Si tratta di
una voce che va ad incrementare il cosiddetto costo del lavoro. A
differenza di tanti altri trasferimenti o servizi sociali, sanitari,
d’istruzione, di trasporto pubblico etc., la previdenza viene infatti
finanziata in massima parte tramite la leva contributiva. In termini
macroeconomici, questo significa che il costo del mantenimento della
popolazione non più attiva ricade praticamente in toto su
lavoratori e imprese, mentre i percettori di altre tipologie di reddito
sono totalmente esenti da questo sforzo di finanziamento. Nel corso
degli ultimi decenni il sistema industriale nel mondo occidentale ha
conosciuto una progressiva crisi e fette consistenti di profitti sono
state assorbite dalla finanza: plusvalenze azionarie, rendite da interessi,
rendite e plusvalenze da speculazioni immobiliari. Flussi enormi di
ricchezza che non contribuiscono in alcun modo al sostentamento del
sistema previdenziale, il quale invece potrebbe attingere anche alla
fiscalità generale, ovvero le imposte. Una fiscalità che, naturalmente,
andrebbe ripensata su base molto più progressiva e universale, per
colpire con più incisività i redditi da capitale e in generale i redditi
più elevati.
Infine, in piena coerenza logica con
quanto spiegato in merito alla visione dominante del funzionamento
dell’economia, nel dibattito corrente mai si pone l’accento sulla possibilità di finanziare la spesa sociale in deficit.
E se lo si fa, lo si concepisce come un intervento emergenziale,
un’eccezione alla regola del pareggio di bilancio imposta e poi
cristallizzata dai trattati europei (Maastricht, Fiscal Compact). In
ossequio al paradigma teorico dominante, se il sistema tende al pieno
impiego qualunque intervento in deficit non potrebbe che portare a
spinte inflazionistiche e a spiazzamento degli investimenti privati da
parte della spesa pubblica, senza alcun risultato in termini
occupazionali e di crescita.
Se invece, ancora una volta, si ritiene
che il sistema capitalistico tenda ad un costante sottoimpiego delle
risorse per via di una cronica carenza di domanda aggregata, qualsiasi
spesa in deficit, anche per spesa corrente, ad esempio per le pensioni,
non può che accrescere, tramite un aumento della domanda aggregata, la
produzione e l’occupazione. Un meccanismo virtuoso che
si dispiegherebbe fino al raggiungimento del pieno impiego. Del resto,
un raggiungimento di una piena e buona occupazione sarebbe a sua volta
quel tassello mancante, già discusso in precedenza, che contribuirebbe
alla piena sostenibilità dei sistemi pensionistici tramite le entrate
contributive. Che si finanzino direttamente le pensioni in deficit,
creando un meccanismo di crescita dei consumi e quindi della produzione e
dell’occupazione; oppure che si pratichino, tramite altre voci di spesa
pubblica, politiche di espansione della domanda orientate alla piena
occupazione, il risultato finale, in relazione agli equilibri
occupazionali e previdenziali, sarebbe lo stesso: un forte aumento delle
entrate contributive generato da un aumento dell’occupazione, che
permetterebbe, a regime, un adeguato finanziamento delle prestazioni
pensionistiche nel lungo periodo.
Ed ecco che, rovesciando il paradigma
economico dominante, si scioglie come neve al sole ogni presupposto
teorico alla base del mito del conflitto tra generazioni. Maggiore
occupazione, più alti salari, stabilità lavorativa per i giovani, fanno
rima con pensioni più alte e sicure e con maggior flessibilità in uscita.
Il benessere delle generazioni è così
legato da un unico filo indissolubile. Un filo che le classi dominanti
cercano in tutti i modi di spezzare nella loro lotta senza quartiere
contro il lavoro in tutte le sue forme e fasi, dove salario e pensione
rappresentano evidentemente due fasi temporali del reddito da lavoro. Ogni
attacco al salario è indirettamente un attacco alle pensioni del
presente e del futuro, ed ogni attacco alle pensioni è un attacco a
quella particolare fase del reddito da lavoro inquadrabile come salario
differito.
La guerra ideologica che vorrebbe giovani
e vecchi in conflitto su due barche diverse è dunque parte della lotta
di classe finalizzata a spezzare l’unità, anche anagrafica, della classe
lavoratrice nel suo insieme. La guerra allo stato sociale, dalla sanità alle pensioni,
dall’istruzione ad ogni altro genere di servizio di base è una guerra
contro i lavoratori di tutte le età e, a vari livelli, è parte di quel
gigantesco programma di redistribuzione del reddito dai poveri ai ricchi
che si perpetua da molti anni.
Non esiste alcun conflitto generazionale!
L’unico vero conflitto economico è quello di classe tra i pochissimi
che detengono la stragrande maggioranza della ricchezza sociale prodotta
e i moltissimi che si dividono quello che resta.
Fonte
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