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29/03/2020

Le radici pubbliche dell’efficacia cinese alla lotta contro il COVID-19

“L’umanità non può sconfiggere alcuna calamità o epidemia senza sviluppo scientifico e innovazione tecnologica” XI Jinping, discorso tenuto alla facoltà di Medicina della Tsinghua University, Pechino, 1° marzo 2020.

1) Introduzione

I risultati emersi dalla recente missione condotta in Cina dal team di virologi e epidemiologi di fama mondiale, coordinati dalla direzione generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS),[1] indicano che l’implementazione di misure preventive, il massiccio utilizzo della scienza e tecnologia medica, e l’erogazione capillare di servizi di cura da parte del servizio sanitario nazionale, “hanno scongiurato decine di migliaia, se non probabilmente centinaia di migliaia di casi di COVID-19 nel paese”. Secondo il coordinatore del suddetto team di scienziati, l’epidemiologo canadese Bruce Aylward, ciò “è stato possibile grazie all’eccezionale sforzo collettivo dell’intera popolazione cinese, dagli amministratori locali ai governatori delle province maggiori”. Da una parte, la solidarietà mostrata dal personale medico ha consentito una sua veloce rilocazione nelle zone epicentro del coronavirus – la regione dello Hubei e la città di Wuhan. Dall’altra, la capacità tecnologica del paese ha accorciato sensibilmente il tempo di diagnosi e rilevamento degli agenti patogeni delle vie respiratorie, che tra la fine di gennaio e inizio febbraio è crollato da dodici a tre giorni. Inoltre, congiuntamente alla costruzione di nuovi ospedali e all’espansione della produzione di dispositivi di protezione sanitari in tempi record, “un ammontare enorme di servizi medici di routine è stato trasferito a piattaforme informatiche ed altri meccanismi tecnologicamente avanzati”. Ad esempio, nella regione dello Sichuan è stata lanciata una piattaforma 5G che ha permesso alle squadre d’indagine epidemiologica presenti nelle aree più remote di ricevere supporto e assistenza in tempo reale dai massimi esperti della regione. Questo ‘all-of-government, all-of-society approach’, conclude il portavoce della direzione generale dell’OMS, “ha cambiato il corso di una epidemia mortale in rapida espansione” al punto che in sole due settimane, tra il 10 e il 24 febbraio, il numero giornaliero di persone contagiate dal COVID-19 è crollato dell’80 percento.[2]

La straordinaria efficacia mostrata dalla Cina nel contenere la diffusione del COVID-19 impone una seria riflessione circa le ragioni di tale successo – tanto più se paragonato all’attuale situazione in Italia la quale, con una popolazione di oltre venti volte inferiore e un livello di sviluppo sensibilmente superiore (almeno comparando il reddito pro-capite) ha già sofferto un numero di decessi maggiore rispetto a quello cinese. Certamente, le misure draconiane adottate dal Partito Comunista Cinese segnalano una certa indipendenza dei decisori politici dalle esigenze di massimizzazione di profitto del sistema delle imprese. Di fatto, la totale chiusura degli impianti produttivi, la limitazione dei trasporti e delle attività commerciali nelle zone maggiormente colpite e nelle regioni limitrofe hanno fornito un contributo decisivo all’isolamento dei focolai virali. Sebbene il prezzo da pagare in termini economici sia stato mastodontico,[3] questa strategia ha scongiurato la veloce diffusione dell’epidemia su tutto il territorio nazionale. L’attuale incapacità di replicare tali misure in Europa e negli Stati Uniti evidenzia cioè il diverso peso dell’influenza delle organizzazioni imprenditoriali sulla sfera politica nel mondo capitalisticamente avanzato. Peraltro, tale divergenza chiamerebbe ad un profondo ripensamento riguardo la natura della traiettoria di sviluppo del modello cinese, il quale è stato (forse troppo frettolosamente?) tacciato come neoliberale o comunque totalmente asservito agli interessi del capitale nazionale e internazionale (Hart-Lesberg e Burkett 2005; Harvey 2005; Ho-Fung 2009; Chu 2010).

La scopo di questo articolo è più modesto, in quanto si focalizza sul sistema sanitario e sulla capacità tecnologica della Cina. Queste due variabili hanno giocato un ruolo importante nel definire l’andamento dell’epidemia nel paese, in quanto il tasso di mortalità del coronavirus e la velocità della sua diffusione sono negativamente correlati alle condizioni generali di salute degli individui colpiti[4] (CCDC 2020; OMS 2020b; Zhou et al. 2020) e alle conoscenze tecnologiche in ambito medico-scientifico. Si argomenterà che, fin dalle prime fasi del suo processo di sviluppo, la Cina ha perseguito l’obiettivo di migliorare le condizioni fisiche della popolazione. A sua volta, la selezione di tale priorità a livello centrale ha giocato un ruolo essenziale nel convogliare le nuove tecnologie verso il sistema sanitario (Salomon 2000: 246). L’ipotesi centrale è che gli interventi adottati dal governo cinese tendenti all’avanzamento degli standard sanitari della popolazione e delle sue conoscenze abbiano sorretto la capacità attuale della Cina di “lanciare probabilmente il più ambizioso, agile e aggressivo sforzo di contenimento epidemico nella storia dell’umanità” (OMS 2020a).

La parte rimanente dell’articolo è così organizzata. Nella parte che segue saranno identificati i prerequisiti istituzionali ed economici necessari ad accrescere lo stato generale di salute della popolazione e le capacità tecnologiche (vale a dire diagnostiche e di cura) nei paesi in via di sviluppo. Alla luce di ciò, nella terza parte si ripercorreranno le misure messe in atto fin dalla fondazione della Repubblica Popolare, finalizzate all’espansione del livello generale di salute della popolazione e allo sviluppo endogeno delle conoscenze scientifico-tecnologiche in ambito medico. L’ultima parte conclude.

2) Le armi disponibili contro la lotta al COVID-19: gli stock di salute e conoscenza

L’efficacia mostrata dalla Cina nel contrastare tempestivamente il diffondersi dell’epidemia del coronavirus dipende da due variabili chiave: da un lato, dallo stock di investimenti in campo sanitario e, dall’altro, dallo stock di conoscenza accumulata nel comparto medico-scientifico. In primo luogo, poiché il tasso di mortalità risulta più elevato tra i soggetti immunodepressi e/o con patologie pregresse, possiamo ipotizzare che l’impatto del Covid-19 sia negativamente correlato allo stato generale di salute della popolazione. Quest’ultimo viene di norma stimato osservando l’aspettativa di vita media e il tasso di mortalità, in particolar modo quella infantile. A sua volta, questi due indicatori dipendono in maniera cruciale dallo stock degli investimenti in campo medico-sanitario, che si concretizza nella disponibilità di strutture ospedaliere e di cura, strumentazioni e personale medico e sanitario.

In secondo luogo, possiamo assumere che vi sia una correlazione negativa tra morbosità e letalità del virus e lo stock di conoscenze biotecnologiche dei lavoratori impiegati nel comparto medico-scientifico. Infatti, la capacità di tracciare prontamente il virus, la sua origine, le vie di trasmissione e patogenesi, e pertanto di elaborare misure volte alla sua prevenzione e allo sviluppo di farmaci antivirali con un effetto clinico efficace, non può essere ridotta alle informazioni e ai dati estratti dagli studi ed esperimenti di laboratorio effettuati esclusivamente nel periodo post-coronavirus. Al contrario, le capacità odierne di elaborare prontamente nuovi sistemi preventivi, diagnostici, e terapeutici in un contesto emergenziale dipendono dalle conoscenze precedentemente trasmesse le quali, “integrate, trasformate, ricombinate coi nuovi dati e intuizioni, in un modo o nell’altro partecipano alla creazione di nuova conoscenza” (Lakhtin 1973: 7).[5] Detto diversamente, l’efficacia odierna del lavoro sperimentale e di ricerca dipende dal “lavoro di molte generazioni di scienziati vissuti in epoche precedenti” (Anchishkin 1987: 27), i quali hanno dotato l’attuale generazione di un accumulo di conoscenze da cui attingere per creare nuove tecnologie specificamente dedicate alla lotta di un virus finora sconosciuto.

Per riassumere: quanto superiori sono gli stock di infrastrutture sanitarie e di conoscenze scientifiche, tanto maggiore sarà l’efficacia della risposta fornita in termini di contenimento dell’epidemia – minimizzando così la perdita di vite umane e giungendo ad una veloce risoluzione della crisi. La consistenza degli stock di salute e conoscenza dipende da due fattori, uno quantitativo e l’altro qualitativo: primo, dalla quantità di risorse inizialmente disponibili e cumulativamente investite nel campo sanitario, educativo e medico-sanitario-scientifico – volti a migliorare le capacità produttive della popolazione (Wood 1994). Poiché il rendimento di questi investimenti è spesso incerto, si materializza dopo periodi molto estesi e, non ultimo, beneficia non solo l’investitore ma anche le altre imprese che non ne hanno sostenuto i costi, gli agenti privati di norma allocano risorse in salute, educazione e formazione in maniera sub-ottimale. Per questa ragione, l’innalzamento dei livelli di salute della popolazione e l’accelerazione delle sue capacità tecnologiche necessita strutturalmente dall’intervento delle istituzioni pubbliche, le quali sono chiamate a stimolare gli investimenti sanitari, educativi e in R&D.

In secondo luogo, l’effetto di tali investimenti dipende dal grado di efficienza delle risorse impiegate.[6] Quest’ultima è positivamente correlata alla preservazione di alti livelli di uguaglianza economica derivanti dal mantenimento di istituzioni collettive. Una società più egualitaria, infatti, può meglio prevenire il sorgere di tensioni sociali scaturenti dalla polarizzazione economica e sociale, l’espansione dell’economia sommersa e, non ultimo, circoscrivere gli episodi di corruzione (Popov 2009: 51-52). Infatti, l’aumento delle diseguaglianze economiche può traslarsi nell’appropriazione del potere politico da parte di una classe di rentier, che utilizzerà le leve della macchina statale per rafforzare la sua posizione di rendita (Milanovic, Lidert, e Williamson, 2008). L’indebolimento delle istituzioni statali può così dare luogo ad una distorsione delle risorse che, invece, potrebbero essere convogliate verso il sistema educativo-formativo e la ricerca scientifica, oltreché verso il sistema sanitario.[7] Ne segue che la riduzione delle diseguaglianze va di pari passo all’accrescimento della capacità istituzionale dello Stato di impiegare il risparmio domestico verso progetti d’investimento con le più alte esternalità positive – ossia, nell’interesse collettivo, come l’educazione, formazione, e sanità.

3) Sviluppo cinese, salute popolare e progresso scientifico-tecnologico

I livelli sanitari della popolazione cinese all’indomani della fondazione della Repubblica Popolare non si discostavano da quelli degli odierni paesi estremamente sottosviluppati. L’aspettativa media di vita era poco sopra i 35 anni, mentre il tasso di mortalità infantile raggiungeva il 200 per mille, ben superiore a quello dell’Angola attuale.[8] Ciò rispecchiava l’estrema scarsità di infrastrutture sanitarie e di cura, personale medico, centri di ricerca e scienziati impiegati in campo medico-scientifico. Nel 1949 vi erano appena 0.15 posti letto per 1000 abitanti, e su tutto il territorio nazionale, che contava già quasi 550 milioni di abitanti, vi era un solo laboratorio dedicato a test di sostanze mediche e chimiche, e appena tre istituti di ricerca medico-scientifica.[9]

In questo contesto, l’adozione di una via di sviluppo neoliberale, simile a quella di molte regioni del Sud del mondo negli anni ’80 e ’90 avrebbe avuto un effetto dirompente in termini di ulteriore peggioramento delle condizioni generali di salute della popolazione. Come noto, infatti, i due pilastri del Washington consensus (Babb e Kentikelenis 2017; Williamson 1993) – apertura esterna e riduzione della spesa pubblica – hanno prodotto una esplosione della disoccupazione nei paesi meno sviluppati, causata dall’incapacità delle loro imprese di reggere l’urto della concorrenza internazionale. Ciò ha gettato larghi strati della popolazione al di sotto della soglia di sussistenza, deteriorandone così le condizioni nutritive e fisiche. Nel mentre, i tagli alle spese sociali e lo smantellamento delle reti tradizionali-collettiviste hanno provocato “la chiusura di centinaia di cliniche, ospedali e strutture di cura. Quelle ancora operanti mancavano di personale, farmaci e attrezzatura medica essenziale” (Peet 2009: 159). Nel loro insieme, l’aumento della povertà e i tagli all’offerta sanitaria hanno condotto ad un deterioramento delle condizioni di salute generali, preparando il terreno fertile al diffondersi di malattie, e all’aumento del tasso di mortalità tra le popolazioni dei paesi in fase di ‘aggiustamento’ (Cornia et al. 1987). Come si evince nella figure sottostanti, i tentativi di fuoriuscita dalla trappola del sottosviluppo da parte di molti paesi africani a partire dagli anni '80 si sono risolti in una drammatica riduzione dell’aspettativa di vita e in una frenata della discesa della mortalità infantile, se non, addirittura, ad una sua risalita. (Figure 1-4).[10]

Figure 1 e 2. Aspettativa di vita paesi in alcuni paesi africani (1960-1982) e (1983-2005)







Fonte. World Bank database

Figure 3 e 4. Mortalità infantile in alcuni paesi africani (1960-1982) e (1983-2005)







Fonte. World Bank database

La strada di sviluppo di orientamento socialista intrapresa dalla Cina a partire dal 1949 ha seguito la direzione opposta. Fra le prime misure adottate dalla nuova Repubblica Popolare ci fu la nazionalizzazione degli asset stranieri in larga parte posseduti dalle imprese di Gran Bretagna, Giappone, USA, Francia e Germania, che ammontavano ad una cifra vicina al 10 percento del PIL (Thompson 1979).[11] “Altrettanto drastica fu la rottura con la classe imprenditoriale e commerciante ‘capitalista burocratica’ appoggiata al capitale straniero” (Masi 1979: 73). Le gradi industrie e banche private che controllavano per larga parte la produzione industriale e le finanze del paese “furono nazionalizzate senza indennizzo” (Ibid.). Infine, ma non per ordine di importanza, si procedette all’espropriazione dei grandi latifondisti, che fino al 1949 detenevano oltre il 50 percento della proprietà della terra, la quale fu redistribuita ai contadini nullatenenti (Du 1996). Nel loro insieme, queste misure consentirono al paese di accrescere le risorse (risparmi) necessarie a sostenere gli investimenti senza comprimere ulteriormente i redditi della classe contadina e lavoratrice che, dato il livello di arretratezza in cui versava, avrebbe comportato un dramma umanitario simile a quello di molti paesi africani negli anni ‘80 e ‘90.

3a) Sviluppo cinese e miglioramento delle condizioni generali di salute

Nonostante la scarsità di risorse, dal 1952 al 1978, l’incidenza della spesa sanitaria sul totale della spesa pubblica è aumentata di quasi cinque volte, dallo 0.68 percento al 3.16 percento, mentre si è assistito ad un incremento esponenziale del personale e delle strutture sanitarie presenti sul territorio – in particolare quelle volte alla salvaguardia della salute dei bambini e delle madri (Fang 1953: 325; Kung 1953; OMS 1983: 22; Liu e Yi 2004).[12]

Certo, se confrontata ai moderni paesi sviluppati, le risorse destinate alla sanità risultavano ancora non sufficienti, tant’è che le cure gratuite offerte dal servizio sanitario non potevano essere garantite all’intera popolazione. Tuttavia, la diminuzione dei livelli di diseguaglianza economica derivante dal perseguimento di una strategia di sviluppo socialista contribuirà ad accrescere la capacità delle istituzioni statali cinesi di massimizzare l’efficienza delle risorse impiegate. Ad esempio, secondo Transparency International, “la più attiva organizzazione non governativa nel combattere la corruzione a livello globale” (Lin e Monga 2017: 51), i livelli di corruzione in Cina all’inizio degli anni ‘80 erano inferiori a quelli di tutti i paesi ‘democratici’ del Sud del mondo. Sempre alla fine del periodo dell’economia pianificata, il suo tasso di criminalità (numero di omicidi per centomila abitanti) era tra i più bassi al mondo, mentre l’economia sommersa era praticamente inesistente. La qualità di questi indicatori sottende la capacità delle istituzioni statali cinesi di perseguire gli obiettivi di policy definiti a livello centrale. Tra di essi, il rafforzamento del suo sistema sanitario e l’accelerazione del sapere in campo medico costituivano due tra le massime priorità del paese (Shih 1972: 672).

Il “serio impegno ai massimi livelli del governo di raggiungere l’obiettivo sociale di garantire la salute a tutti i suoi cittadini” (OMS 1983: 9) è parte del sentiero di sviluppo della ‘Nuova Cina’ fondata nel 1949. Già da quell’anno, vennero lanciate le “Misure Temporanee per la Vaccinazione” finalizzate a debellare le infezioni virulente che tempestavano la Cina alla fine degli anni ‘40 mediante la fornitura gratuita di vaccini ad oltre 500 milioni di persone, la cui immunizzazione fu sostenuta dalla creazione di centri appositi e la fornitura della strumentazione necessaria da parte del governo centrale.[13] L’abilità istituzionale dello Stato si manifestò anche nell’implementazione di provvedimenti oggi cruciali nel contrasto della coronavirus, ossia la quarantena di coloro provenienti dall’estero e il rafforzamento di controlli preventivi per scoprire nuovi casi di pazienti contagiati.

In secondo luogo, “la straordinaria capacità cinese di mobilizzare l’enorme sforzo dei suoi cittadini […] è illustrata dal lancio della ‘Campagna Patriottica per la Salute’” (Smith 1974). Attraverso la coordinazione di diversi ministeri e dipartimenti, a partire dai primi anni 50, la Repubblica Popolare ha dato avvio ad un imponente lavoro collettivo di costruzione di canali, fognature e bagni pubblici – opere che contribuirono sostanzialmente a migliorare le condizioni sanitarie della popolazione (Xiao 2003).[14]

In terzo luogo, mentre le ‘regolazioni assicurative del lavoro’ estendevano l’assistenza sanitaria gratuita alle lavoratrici e lavoratori dell’industria, venne fondato un ‘sistema cooperativo di assistenza sanitaria nelle aree rurali’ (Konovalov 1975),[15] che forniva vaccinazioni, educazione e assistenza ad oltre quattro quinti della popolazione. Dai primi anni ‘50, tale sistema fu supportato dalla fornitura di medicinali e apparecchiature mediche di base da parte del governo provinciale, garantendo così l’accesso e le cure sanitarie alla pressoché totalità della popolazione delle campagne (Lardy 1978: 167).

Nel loro insieme, le misure intraprese agli albori del processo di sviluppo della ‘Nuova Cina’ hanno gettato le fondamenta di quello che l’OMS arrivò a riconoscere come “un modello da imitare per i paesi in via di sviluppo per risolvere i loro problemi sanitari” (Wang 2007: 66-67). Come rimarcava il direttore generale del OMS solo pochi anni dopo il ‘nuovo corso’ inaugurato dall’amministrazione Deng – “se la Cina avesse la stessa situazione sanitaria degli alti paesi a medio-basso reddito […], l’aspettativa media di vita sarebbe di 15 anni inferiore, e 4 milioni in più di bambini morirebbero ogni anno” (OMS 1983: 10). In effetti, la strada di sviluppo socialista privilegiata dalla Cina ha raggiunto risultati diametralmente opposti rispetto a quelli di molti paesi del Sud, tanto che “la crescita dell’aspettativa di vita tra il 1950 e il 1980 si colloca tra gli aumenti più rapidi mai documentati nella storia globale” (Babiarz et al. 2015: 39). Nella sua prima fase di sviluppo tra il 1959 e il 1978, l’aspettativa media di vita è quasi raddoppiata, mentre il tasso di mortalità infantile è sceso di quasi tre volte (Figura 5).

Figura 5. Aspettativa di vita e tasso di mortalità infantile in Cina, media quinquennale






Fonte. United Nations – World Population Prospects.

Il miglioramento delle aspettative di vita e la diminuzione dei tassi di mortalità infantile ha costituito un prerequisito fondamentale per ottenere guadagni di produttività sul lungo periodo, con cui accrescere ulteriormente le risorse da destinare al sistema sanitario. Infatti, i progressi nel benessere fisico e cognitivo della popolazione cinese, che per i primi trent’anni di sviluppo del paese risiedeva principalmente nelle campagne (Wu 2019), ha gettato le fondamenta per il suo assorbimento efficiente all’interno del settore manifatturiero, la cui espansione ha sorretto i guadagni di produttività necessari al “take-off” dell’economia a partire dai primi anni ‘80 (Kaldor 1978; Bhargava et all. 2001; Gourdel et al. 2004). In questo senso, non pare una esagerazione sostenere che senza i traguardi raggiunti dal regime maoista in termini di incremento di capitale umano (Long e Herrera 2018), le riforme di mercato inaugurate nel 1979 non solo non avrebbero potuto raggiungere i risultati ottenuti, ma avrebbero probabilmente avuto un impatto devastante, come di fatto avvenuto in Africa Sub-Sahariana negli anni ‘80, (Popov 2007). La relazione tra progressi in campo sanitario (e come vedremo sotto, educativo) ed economico è quindi endogena: gli investimenti in infrastrutture sanitarie hanno sorretto la crescita economica e quest’ultima, a sua volta, ha sostenuto gli investimenti in infrastrutture sanitarie.[16] Negli ultimi 40 anni, il totale delle spese sanitarie è salito ad un ritmo più sostenuto rispetto la crescita dell’output, conducendo ad aumento del rapporto tra spese sanitarie e PIL dal 3 al 6.43 percento nel 2018. Ciò si è palesato in un incremento del personale medico e dei posti letto disponibili nelle strutture sanitarie pari rispettivamente a 3.6 volte e 2.9 volte (a fronte di un aumento della popolazione pari al 45 percento) rispetto al 1978.

Va sottolineato che il ritmo dell’espansione del sistema sanitario pubblico ha subito una decelerazione in seguito alle politiche di apertura adottate dall’amministrazione Deng – il che rigetta una causalità lineare tra espansione del reddito nazionale e miglioramento delle condizioni di salute generali. Osservando la composizione della spesa sanitaria, si può notare come nel 2001 il settore privato sia arrivato a coprire quasi il 60 percento dell’intera spesa sanitaria nazionale (Figura 6).

Figura 6. Composizione della spesa sanitaria in Cina





Fonte. National Bureau of Statistics of China 2018, tavola 22.19.

Come prevedibile, l’arretramento dell’intervento pubblico si è traslato in un arresto del trend positivo riguardo la capacità universalista del sistema sanitario cinese: da un punto di vista quantitativo, dalla fine degli anni ’80 fino al 2003, il numero di posti letto per diecimila abitanti è rimasto sostanzialmente invariato rispetto ai traguardi raggiunti alla fine del periodo della pianificazione (Figura 7). Incrementando i costi di cura, specie nelle aree urbane, e riducendo l’offerta nelle aree rurali, la crescente mercificazione è pertanto sfociata in un aumento delle diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari, riverberandosi in un peggioramento relativo delle condizioni di salute delle fasce più povere della popolazione (Wang e Zhao 2007: 36-39; Tang et al. 2008 : 1494-1497).

Figura 7. Numero di posti letto nelle strutture sanitarie in Cina (per 10.000 abitanti)





Fonte. National Bureau of Statistics of China 1999 (tav.21.13), 2013 (tav.21.6), 2018 (tav.22.6)

Tuttavia, è altrettanto importante rimarcare che a partire dal nuovo millennio il sistema sanitario cinese ha invertito questa tendenza, tornando sulla linea di trend del trentennio 1949-1978. Oltre allo scontento sociale per un sistema crescentemente iniquo, una delle ragioni principali del rinnovato protagonismo del pubblico risiede nell’esplosione della sindrome respiratoria acuta (SARS) nel 2003 ed immediatamente diffusasi in 37 paesi, mietendo quasi mille vittime a livello globale. Secondo la prestigiosa rivista The Lancet, l’incapacità del settore privato di fronteggiare efficacemente la crisi ha rappresentato "una sveglia per i leader cinesi, che hanno subito compreso come i sotto-investimenti degli anni ’80 e ’90 avessero reso il sistema sanitario impreparato all’emergenza” (Dong e Phillips 2009). In effetti, in seguito allo scoppio della SARS, la stesso governo del paese dichiarò apertamente che “una concezione errata di economia socialista di mercato è che il sistema medico e sanitario debba essere orientato al, e dipendente dalle forze di mercato per soddisfare i bisogni sanitari delle persone” (Chen e Gao 2008).

Già dall’anno successivo, l’incidenza della spesa privata è regredita velocemente (Figura 4), tornando a livelli inferiori rispetto al 1983. Parallelamente, si è assistito ad un’immediata e sensibile crescita degli investimenti pubblici in ospedali, cliniche, strumentazione diagnostica e ricerca medico-scientifica (Daemmrich 2013; Wang et al. 2019). [17] L’abbandono del precedente approccio centrato sul mercato è stato suggellato dalla riforma del 2009 la quale, oltre a raddoppiare la spesa pubblica annuale allocata al servizio sanitario (Yip e Hsiao 2014: 384-385), ha garantito il ritorno ad una copertura pressoché universale (Tang 2008 et al.: 1550). L’espansione delle capacità di cura del servizio sanitario cinese che ne è seguita (Figura 7) non ha tardato a mostrare i suoi benefici, se è vero che dai primi anni Duemila sia l’aspettativa di vita media sia il tasso di mortalità infantile hanno mostrato rispettivamente una sensibile accelerazione e decelerazione (Figura 5).[18]

Per concludere, se le condizioni generali di salute della popolazione sono una delle variabili chiave che incidono negativamente sul tasso di letalità del coronavirus, ne segue che l’intervento dello Stato nel corso del processo di sviluppo cinese ha dotato il paese di una importante risorsa necessaria a fronteggiare efficacemente l’epidemia odierna.

3b) Sviluppo cinese e incremento delle capacità tecnologiche del paese

Il miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione è inscindibile dalle politiche orientate allo sviluppo delle capacità tecnologiche della forza-lavoro del paese. All’interno del contesto internazionale che la vedeva isolata, la Cina ha esplorato una strada d’innovazione indigena, soprattutto in campo medico. Uno dei primi provvedimenti intrapresi dal governo fu incrementare il numero di facoltà universitarie di medicina, col risultato che in soli cinque anni il numero di studenti accrebbe di oltre il 90 percento rispetto al 1949. Al contempo, il sistema altamente centralizzato velocizzò la formulazione e implementazione di una politica tecnologica a livello nazionale, che sarà perseguita efficacemente nel corso del trentennio successivo (Lu e Jia 2011). Ad esempio, il numero di laboratori farmacologici e di reagenti chimici salì di quasi 1200 volte, mentre quello degli istituti di ricerca medica di quasi 100 volte (Figura 8).

Figura 8. Numeri di istituti di ricerca medica e laboratori chimici in Cina (1949-1999)





Fonte. National Bureau of Statistics of China, Yearly Data 2000, tavola 21-11.

Nonostante l’isolamento subito, il potenziamento delle capacità tecnologiche avvenne in un contesto di ‘apprendimento aperto’, mediante l’accesso alle moderne informazioni e scoperte scientifiche raggiunte dai paesi più avanzati, lo scambio con organizzazioni ed esperti provenienti da altri paesi, e l’attrazione di scienziati formatisi all’estero. La capacità istituzionale del governo cinese giocò un ruolo determinante per raggiungere tali finalità, riconoscendo che il processo d’innovazione tecnologica non potesse e dovesse essere circoscritto al solo ambito nazionale.

In primo luogo, il governo fornì un contributo vitale affinché gli studenti e scienziati del paese potessero attingere alla conoscenza scientifica all’avanguardia, in modo tale da incrementare i rendimenti degli investimenti nel campo dell’istruzione e della ricerca. Nonostante gli stringenti vincoli di risorse disponibili, il governo cinese si attivò per incrementare letteralmente “la qualità dei manuali della società” (Mankiw, Phelps e Romer 1995: 298) attraverso l’acquisto massiccio di pubblicazioni scientifiche e tecnologiche nella forma di periodici, libri e articoli stranieri che potessero supportare il lavoro degli scienziati cinesi (Gu 2008).[19] Ad esempio, la biblioteca del Gungzhou Medical College acquistò oltre 3000 testi e periodici stranieri nel solo 1956, per la maggior parte provenienti dal mondo anglosassone, mentre veniva acceso l’abbonamento alle maggiori riviste medico-scientifiche pubblicate nel decennio precedente. Le istituzioni sotto il diretto controllo del governo intrapresero uno sforzo ancora maggiore in tal senso, al punto che alla fine degli anni '60 l’Accademia Cinese delle Scienze poteva vantare 4.58 milioni di volumi (di cui oltre 3 milioni in scienze naturali) e 1.8 milioni di riviste, per la maggior parte in lingua straniera (Li et al. 2020: 40-1).

In secondo luogo, il governo cinese si adoperò con forza per favorire il rimpatrio dei talenti (in particolar modo, nelle aree mediche e ingegneristiche) che si erano formati all’estero, specie negli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna – creando al contempo le condizioni per la loro partecipazione attiva in progetti scientifici di interesse nazionale. Il problema, infatti, era che il ritorno degli studenti e ricercatori nell’immediato dopoguerra fu ostacolato attraverso numerose misure, fra le quali la requisizione dei passaporti, la detenzione e l’arresto. Per favorire il loro rilascio, il governo cinese non solo ha supportato la creazione di agenzie non governative come l’Associazione Cinese dei Lavoratori Scientifici degli U.S.A., ma ha anche intrapreso mediazioni diplomatiche coi governi occidentali. Ciò condusse al rimpatrio di scienziati che in seguito diedero un contributo fondamentale allo sviluppo tecnologico del paese.[20] In alcuni casi, la volontà di beneficiare del sapere acquisito nei paesi già sulla frontiera tecnologica comportò anche l’uso coercitivo da parte del governo cinese il quale, per mano del Ministero degli Affari Esteri, esortò i governi degli Stati Uniti, Gran Bretagna ed altri paesi a ridurre la resistenza degli studenti cinesi a ritornare in patria.

Ma in generale, il governo cinese incentivò attivamente il ritorno degli scienziati sul suolo domestico. Già nel 1949, il Ministro dell’Educazione, assieme al Comitato dell’Educazione e della Cultura, stabilì un dipartimento volto all’accoglienza degli studenti provenienti dall’estero e al loro inserimento immediato nelle istituzioni di ricerca e nelle università nazionali. Per mobilitare l’entusiasmo per la ricerca e stimolare la produttività, il governo derogò parzialmente ai suoi principi improntati al massimo egualitarismo, formulando una serie di misure che “risolsero le difficoltà di sostentamento dei ricercatori e degli scienziati, garantendo loro condizioni di lavoro e salariali superiori al resto della popolazione” (Yin e Jia 2011: 50).

Nel loro insieme, questi provvedimenti consentirono alla Cina di contrastare uno dei fenomeni che più indebolisce la capacità dei paesi in via di sviluppo di accumulare conoscenza tecnico-scientifica, vale al dire il ‘brain drain’. Basti pensare che ancora alla fine degli anni ‘80, un medico statunitense su venti proveniva dell’India, la quale soffriva al contempo una insufficienza cronica di medici, specialmente nelle aree rurali dove se ne contavano mediamente uno ogni 4000 abitanti (Buzuev 1990: 112). Al contrario, l’intervento dello stato in Cina si palesa in un alto tasso di ‘rientro’, tanto che tra il 1950 e il 1978 tre quarti degli studenti all’estero per motivi di studio faranno ritorno a casa.[21]

Avendo appreso conoscenze nei paesi avanzati, la disponibilità di laureti e ricercatori provenienti dall’estero è cruciale per lo sviluppo tecnologico cinese. Tra di essi, infatti, il 45 percento fu assegnato ad organi governativi, mentre il 30 percento fu veicolato verso le università per diffondere la conoscenza appresa, o impiegato in istituti per condurre essi stessi ricerca in progetti di interesse nazionale. Per quel che concerne il campo delle biotecnologie mediche, ad esempio, tre degli scienziati protagonisti di una delle scoperte più importanti del ventesimo secolo, la sintesi dell’insulina bovina, si erano formati in università occidentali,[22] mentre alcuni tra i giovani collaboratori del loro gruppo di ricerca diverranno figure centrali nello sviluppo della biologia molecolare in Cina (Wang e Shi 1982).

L’accumulazione di capitale umano mediante l’interventismo dello Stato – figlio a sua volta degli alti livelli di eguaglianza economica che caratterizzavano la ‘Nuova Cina’ – ha permesso al paese di raggiungere risultati ragguardevoli nel campo della ricerca medico-scientifica. Sebbene continuasse ad essere uno tra gli stati con il reddito pro-capite più bassi al mondo, già nel 1957, gli scienziati cinesi furono i primi al mondo a scoprire e isolare la clamidia e quindi a chiarire le cause del tracoma che, in alcune aree della Cina, colpiva il 90 percento della popolazione, compromettendone seriamente la possibilità di provvedere al proprio sostentamento (Wang, Deng e Tian 2016: 541). Poco tempo dopo, il lavoro cooperativo tra gli scienziati dell’Istituto di Biochimica di Sichuan, l’Istituto di Chimica Organica di Shangai e l’Università di Pechino, condurrà alla sintesi della insulina bovina. Infine, a seguito del ‘Progetto 523’ lanciato dallo Stato nel 1967, e che coinvolgeva sessanta organizzazioni di ricerca e oltre 500 scienziati, a metà del decennio successivo gli scienziati cinesi furono anche i primi a identificare la struttura molecolare della artemisinina (Guo 2016: 116), ossia il principio attivo del principale farmaco contro la malaria che, ancora nel 1949, era endemica in quasi il 70 percento delle province del paese (OMS 2009).

L’applicazione dei principi epidemiologici e delle scoperte scientifiche ha fornito la base per lo sviluppo e l’applicazione di vaccini (Yu 2007: 340), al punto che oggigiorno la Cina è uno dei pochi paesi al mondo in grado di produrre e offrire la totalità dei vaccini di cui necessita. Come sottolineato da un recente rapporto dell’OMS: “la China è divenuta il leader mondiale nella produzione di vaccini, con 40 produttori di 60 tipi di vaccini, che possono contrastare efficacemente 34 malattie trasmissibili... La produzione domestica rappresenta oltre il 95 percento dei vaccini utilizzati nel paese, cifra che soddisfa integralmente la domanda di immunizzazione della popolazione” (OMS 2015: 58). In definitiva, questi dati evidenziano come l’intervento dello Stato abbia permesso alla Cina di rompere il monopolio dei mercati farmaceutici, svincolando così la riproduzione biologica della sua popolazione alle capacità tecnologiche (e, parzialmente, alle decisioni politiche) dei paesi più sviluppati.[23]

I risultati odierni, oltreché essere fondati sulla conoscenza accumulata negli anni dell’economia pianificata, sono anche il frutto degli investimenti pubblici in R&D proseguiti durante il periodo dell’apertura post-1979. Il progressivo avanzamento del mercato nell’ultimo quarantennio, infatti, non ha pregiudico la capacità dello Stato cinese di supportare attivamente la ricerca, sperimentazione, e applicazione di biotecnologie in campo medico. Ad esempio, alla fine degli anni '80, i laboratori controllati dal Ministero della Salute Pubblica erano tra gli istituti che più beneficiavano del supporto statale. Nel decennio successivo, l’Istituto di Microbiologia, focalizzato sulla ricerca e applicazione dell’ingegneria genetica nel campo farmaceutico, riceveva sistematicamente oltre la metà dei fondi allocati dall’Accademia Cinese delle Scienze per i suoi progetti scientifici e di ricerca (Feigenbaum 2003: 165-7). L’attivismo del comparto pubblico si è sostanziato, tra le altre cose, nei progressi compiuti dal paese nella farmacologia, dove già nel 2014 oltre 7000 imprese (pubbliche e private) producevano oltre 160 mila medicinali (Ibid. 144), e nel campo delle attrezzature mediche, la cui produzione nazionale soddisfa ormai il 50 percento dell’intera domanda domestica.

L’odierna capacità tecnologica del paese in ambito medico-scientifico è riscontrabile, almeno indirettamente, anche osservando la composizione delle sue esportazioni. Secondo i dati forniti dall’Osservatorio della Complessità Economica (OEC 2020) coordinato dal MIT, la Cina è uno dei maggiori esportatori al mondo di prodotti farmaceutici e beni medico-strumentali ad alta precisione, la cui produzione richiede un set di skill complesse, scarsamente disponibili sui mercati internazionali. Nel 2017, ad esempio, la Cina era il quarto esportatore al mondo di strumentazione medica e strumenti a fluorescenza raggi X, il terzo di utensili medici elettronici, il secondo di ormoni, e il primo di vitamine e prodotti farmaceutici non-medicinali.

Conclusioni

In questo articolo, si è tentato di ripercorrere la strada di sviluppo che ha dotato lo Stato cinese della capacità istituzionale di intervenire efficacemente per migliorare le condizioni generali di salute della popolazione e incrementare il suo stock di conoscenza. Senza questi ingredienti, la Cina sarebbe oggi totalmente sprovvista della capacità di elaborare prontamente misure preventive, contrastare la diffusione dell’epidemia, trattare efficacemente i pazienti – oltreché renderli meno vulnerabili all’attacco del virus. L’intervento dello Stato ha consentito alla Cina di potenziare le infrastrutture sanitarie e accrescere la qualità del sapere medico-scientifico della sua popolazione – dotandosi così di quei fattori che hanno consentito al paese di circoscrivere prontamente la diffusione del COVID-19 e ridurne il tasso di letalità.

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Note.

[1] Conferenza stampa seguita alla missione congiunta OMS-Cina sul COVID-19, 24 febbraio 2020 (OMS 2020a).
[2] Al 21 Marzo 2020, per il terzo giorno consecutivo, non vi erano casi di nuove infezioni contratte all’interno del territorio cinese.
[3] Ad esempio, nei primi due mesi del 2020, i consumi privati e gli investimenti hanno visto un crollo in termini reali rispettivamente del 23.7 percento e del 24.5 percento su base annua (National Bureau of Statistics of China).
[4] Secondo lo studio condotto dal Centro Cinese per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CCDC), “mentre tra pazienti in buono stato di salute il tasso di mortalità è dello 0.9 percento, coloro che invece già soffrono di patologie pregresse i tassi di mortalità sono molto più alti – ossia, del 10.5 percento per coloro con problemi cardiovascolari, 6.3 percento con malattie cardiorespiratorie, 6 percento con ipertensione, 5.6 percento col cancro. Il tasso di mortalità è altissimo tra i casi categorizzati come critici, vale a dire del 49 percento” (CCDC 2020: 116). Sebbene correlazione non implichi causazione, la forte connessione tra condizioni di salute preesistenti e tassi di mortalità è confermata anche dal Report della missione condotta congiuntamente dall’OMS e dalla Cina sull’epidemia COVID-19 (OMS 2020b: 12), oltreché dallo studio retrospettivo riguardante la demografia dei decessi a Wuhan pubblicato da The Lancet (Zhou et al. 2020).
[5] Tale visione del progresso tecnologico è affine a quella proposta dal filone Schumpeteriano (Dosi et al. 1988). Per una serie di ragioni che non saranno qui discusse, questo lavoro fa riferimento alle ipotesi proposte dal ‘economia della scienza’, sviluppatasi in Unione Sovietica ben prima della nascita della scuola evoluzionista di matrice keynesiana. Indipendentemente dalla genesi, in ambo i casi l’interpretazione evolutiva della tecnologia si contrappone a quella proposta dall’economia ortodossa, secondo cui la fonte e la causa delle nuove tecnologie dipende “dall’azione isolata di individui particolarmente dotati” (Dugger 1984: 812).
[6] Il criterio di efficienza qui utilizzato si riferisce al miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione e della capacità tecnologica del personale medico-scientifico ottenuto da un dato ammontare di risorse investite.
[7] Da questo punto di vista, non pare un caso che molti paesi africani in via di sviluppo, che maggiormente fruiscono di aiuti internazionali, sebbene siano caratterizzati da una spesa sanitaria relativamente maggiore rispetto agli altri paesi in via di sviluppo, siano gli stessi che versano in condizioni di salute peggiori (Lin e Monga 2017: 154).
[8] Fonti: National Bureau of Statistics of China e U.S. Census Bureau, International Database. Per una rassegna delle condizioni drammatiche cui versava la popolazione cinese alla fine degli anni ‘40, si veda: Fang 1953.
[9] Fonte: National Bureau of Statistics of China, Yearly Data 2000, tabelle 21-13 e 21-11.
[10] In paesi come Zambia e Kenya, nei soli anni Novanta l’aspettativa di vita media arriverà a crollare di 9 e 10 anni. Allargando lo sguardo, eclatante è il caso russo, laddove la terapia d’urto si accompagna ad una discesa della aspettativa di media da 69.1 anni nel 1989 a 65 anni nel 2003. Per quel concerne la mortalità infantile, i dati in figura sono coerenti alle stime esistenti, secondo le quali cui i programmi di aggiustamento strutturale, agendo sui parametri fiscali all’interno dei quali le politiche sanitarie operano, hanno avuto un impatto drammatico sulla salute dei bambini e delle loro madri (Thomson, Kentikelenis, e Stubbs 2017). È tato stimato che tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, ogni anno circa 6 milioni di bambini in Africa, Asia e America Latina hanno perso la vita a causa degli effetti dei programmi di aggiustamento strutturale (Budhoo 1994: 21–2).
[11] Negli anni 30, gli asset stranieri, prevalentemente impiantati all’indomani della Guerra dell’oppio, costituivano il 95 percento degli investimenti esteri nel paese. In particolare, gli asset inglese ammontavano al 35 perento, quelli giapponesi al 40 percento, quelli statunitensi al 9 percento, quelli francesi al 6.7 percento e quelli tedeschi al 4.3 percento. In generale, gli investimenti esteri in Cina ammontavano a 3.5 trilioni di dollari nel 1936 (Remer 1933: 76; Huo 1965: 17).
[12] Tra il 1949 e il 1978, il numero di ospedali passa da 2.600 ad oltre 64.000, mentre i letti ospedalieri per 1.000 abitanti crescono di quasi 13 volte. Parallelamente, il numero di operatori delle istituzioni sanitarie passa da 54.1 a 310.6 per 10.000 abitanti (National Bureau of Statistics of China, Yearly Data 2000, tabelle 21-11 e 21-12).
[13] Il vaiolo, ad esempio, fu definitivamente debellato nell’arco di un decennio, mentre il numero di persone colpiti dalla peste è calato del 78 percento tra il 1950 e 1951 (Xiao 2003).
[14] Solo a Pechino, Tianjin e Chongqing oltre 14 milioni di persone hanno partecipato ai lavori di salute pubblica (Xiao 2003).
[15] Una riforma dei primi anni Duemila ha definito con maggiore precisione gli obblighi finanziari del governo centrale, aumentando sostanzialmente i trasferimenti verso i centri sanitari delle campagne (Wang 2007: 68).
[16] La consapevolezza della forte relazione tra salute e crescita è ribadita dal piano “Healthy China 2030” delineato nel 2016, secondo cui “le buone condizioni di salute sono…il fondamento dello sviluppo economico e sociale” (Tan 2017: 112).
[17] Dal 2003 al 2011, la quota di spesa sanitaria finanziata dallo Stato è salita dal 16 a quasi il 31 percento, attestandosi su questi livelli fino ai giorni nostri.
[18] Il trend positivo riguardante l’aspettativa di vita è stato sicuramente rinforzato dagli ingenti investimenti in, e il crescente ricorso a energie rinnovabili e il contemporaneo abbandono delle produzioni più nocive. Secondo le stime di uno studio condotto nell’ambito del ‘Harvard China Project’ – coordinato dall’università di Harvard riguardante la relazione tra energia, economia, e ambiente – la riduzione imposta dal governo sull’utilizzo di diossido di zolfo ha evitato tra 12.000 e 74.000 morti premature nel solo 2010 (Nielsen e Ho 2013).
[19] Lo stesso premier Zhou Enlai (1984) ha sottolineato con forza come lo Stato cinese dovesse “consentire agli scienziati di ottenere i libri necessari, accedere ad archivi e materiale tecnologico e scientifico, e garantire loro le migliori condizioni di lavoro. L’imperativo è accrescere le spese per l’acquisto di libri per gli istituti di ricerca e le università e migliorare l’importazione di pubblicazioni straniere e riviste accademiche” .
[20] Ad esempio, Zhang Wenyu e Qian Xuesen, tra i padri della fisica nucleare e della balistica cinese furono rilasciati ed espulsi dagli Stati Uniti in seguito alle pressioni del governo cinese nei primi anni Cinquanta.
[21] National Bureau of Statistics of China, Yearly Data 2000, tabella 20-2. Al 2017, il rapporto annuale tra studenti all’estero e coloro tornati in patria salirà al 79 percento (National Bureau of Statistics of China, Yearly Data 2018, tabella 21-10).
[22] Ad esempio, Zou Chenglu dell’Istituto di Biochimica di Shangai si era formato a Cambridge. Un altro componente del team di ricerca, Niu Jingyi, aveva ottenuto il suo dottorato in biochimica all’Università del Texas e condusse ricerca all’Università di Berkley prima di fare ritorno in Cina.
[23] Fino ai primi anni 2000, solamente dieci imprese controllavano circa il 50 percento delle vendite globali di farmaci, e il 90 percento di essi erano consumati dai paesi ad alto reddito (Peet 2009: 223).

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