Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

24/03/2020

Confindustria indifferente al virus, dispensa ordini per il “dopo”

I “poveri” confindustriali sono rimasti “offesi” dal fatto che gli operai, in primo luogo, abbiano cominciato a scioperare in modo abbastanza massiccio per protestare contro la prosecuzione delle attività produttive in un numero spaventoso di imprese, gran parte delle quali “non essenziali” (basterebbe citare l’aerospazio o “l’estrazione di petrolio”, che in Italia si può calcolare in gocce, anziché barili).

Il giudizio sottinteso dei lavoratori è che gli industriali italiani siano assassini, visto che hanno premuto con successo sul governo – non sembra abbiano fatto molta fatica neanche stavolta – perché la lista delle attività “consentite” fosse talmente vaga da poter comprendere praticamente tutto.

Il comma d dell’ultimo decreto recita infatti: «Restano sempre consentite anche le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato 1 (…) previa comunicazione al Prefetto della provincia». E in un sistema industriale ovviamente interconnesso tutto è in continuità con tutto. E infatti, soltanto a Brescia, ridotta ormai a un lazzaretto, al Prefetto sono arrivare in poche ore ben 600 richiesta di “deroga” da parte di industriali che vogliono restare aperti a dispetto di tutto.

Basta del resto guardare ai dati ufficiali: sono autorizzare a restare in produzione “oltre 800 mila aziende, il 39,9% sul totale delle imprese monitorate a livello nazionale”. Tradotto in numero di persone – lavoratori – sono circa 12 milioni quelli che devono spostarsi, utilizzando mezzi di trasporto pubblico o privato, per poi ammassarsi in luoghi di lavoro che soltanto gli imprenditori giudicano “a norma di sicurezza” secondo gli standard indicati dalla Protezione Civile e dal Ministero della Salute.

Persino un ingegnere, obbligato a restare anonimo, descrive in questo modo le condizioni di lavoro in provincia di Brescia (epicentro dell’epidemia e dove restano comunque aperte il 35% delle aziende). E gli ingegneri, lo ammetteranno persino gli industriali, lavorano in genere in condizioni un po’ migliori di quelle di un operaio di linea...

Verrebbe da chiedere a Silvio Brusaferro e Angelo Borrelli (incaricati della quotidiana conta di morti e contagiati), ma soprattutto a governo e Confindustria, come si pensa di attuare una strategia “drastica” di distanziamento con 12 milioni di lavoratori in continuo movimento, più qualche centinaio di migliaia di poliziotti, carabinieri, vigili urbani, militari di varie armi, ecc.

Nonostante il coprifuoco e l’orgia di sanzioni sul resto della popolazione...

Del resto, l’intervista di Repubblica al presidente dell’Assolombarda (la federazione regionale degli industriali storicamente “più a destra di Gœring”), chiarisce al di là di ogni dubbio l’assoluto menefreghismo e la cultura palancaia di questa gente.

Ve la proponiamo integralmente, qui di seguito, perché possiate tutti “apprezzare” questo saggio di imprenditoria parolaia, dove tutto il mondo appare come un semplice ammennicolo a disposizione del sistema delle imprese.

Noi ci limitiamo a segnalare alcuni passaggi che ci sembrano davvero “indicativi”, anche perché Carlo Bonomi è in pratica il prossimo presidente di Confindustria (l’unico candidato in lizza). Insomma, un sicuro protagonista del conflitto politico-sociale che si aprirà “dopo”, ma le cui premesse si stanno ponendo oggi.

Per quanto Repubblica non sia certamente in media “ostile alle imprese” – il gruppo Gedi è stato acquistato dalla famiglia Agnelli, prima era di De Benedetti – Roberto Mania è obbligato a porre la domanda sul fenomeno sotto gli occhi di tutti: “la maggior parte dei contagiati si concentra in aree molto industrializzate. Secondo lei c’è un nesso tra le fabbriche e il numero dei contagi?”

L’onestà intellettuale si vede dalla risposta: «Non credo ci sia questo rapporto, nessun dato conferma un’ipotesi di questo tipo. Piuttosto noto che si sta cercando di far passare l’idea che la colpa del contagio siano le imprese. E un paradigma del sentimento anti-industriale che c’è nel nostro Paese». Nessun dato? Se ne possono fornire a quintali... Ma nemmeno sotto tortura, probabilmente, ammetterebbe una responsabilità minima.

Ma è sui temi economici, paradossalmente, che si nota di più l’incompetenza anche tecnica. Bonomi da una parte prevede – non è difficile, lo fanno tutti – che “usciremo in maniera molto pesante da questa crisi. L’economia sarà fortemente colpita [...]. Non sarà stagnazione: sarà un’economia di guerra. Ci sono filiere, come quella del turismo, che vedranno il proprio fatturato scendere a zero. Ripeto: a zero. Dunque, c’è necessità di recuperare una vera politica industriale”.

Dall’altra, sul come trovare o attivare le risorse per gli investimenti, snocciola parole come “C’è il Mes, il fondo salva-Stati, con la sua potenza di fuoco di oltre 400 miliardi (spiccioli, nella dimensione europea di questa crisi, ndr). È il Mes che può per esempio essere un sottostante per l’emissione di un maxi eurobond per l’industria. Poi si dovrà decidere su miliardi di fondi che la Commissione europea ci mette a disposizione, malgrado non li avessimo usati per tempo e gli 8 miliardi di prestiti agevolati annunciati stasera [...] dalla Bei”.

Chiunque abbia letto due righe sul Mes sa che la richiesta di accedere a quei fondi implica pesantissime condizionalità, tali da riprodurre l’intervento della Troika (Ue-Bce-Fmi) com’è stato per la Grecia nel 2015. Ancora ieri, nella riunione dell’Eurogruppo tedeschi e olandesi hanno ribadito che neanche con la pandemia questo “principio” può essere messo in discussione. Quindi ricorrere al Mes – se non cambieranno radicalmente i trattati relativi – significa consegnare le chiavi del Paese in mano alla Troika e prepararsi a subire un saccheggio di tutto quel che può essere considerato redditizio e quindi valido per “saldare il debito”.

Ma che gliene frega a un imprenditore che – come dire – non godeva certo di buona fama già prima di arrivare al vertice di Assolombarda? Che gliene frega a una classe imprenditoriale, ormai dominata da “contoterzisti” (verso la Germania, fondamentalmente), che quando le cose vanno male delocalizza o vende al primo che passa?

Dite voi se è logico tenere nello stesso ragionamento queste due affermazioni: a) «quando usciremo da questo incubo ci troveremo in una situazione da economia di guerra», b) «No, non è quella la strada. Non mi convince affatto l’idea che da questa crisi si uscirà con lo Stato protagonista dell’economia (l’ipotesi di costruire una “nuova Iri”, ndr). Lo Stato deve restare regolatore, non gestore».

In una “economia di guerra” comanda per forza di cose uno Stato, e le imprese – come tutti i cittadini – si adeguano. Soprattutto, in un’economia di guerra che deve realizzare una “seconda ricostruzione”, la dimensione dello sforzo economico supera infinite volte quello che ogni singola azienda può mettere in campo.

L’Italia fu “ricostruita” nel secondo dopoguerra grazie da un lato al “piano Marshall” (finanziamenti USA), dall’altro grazie al ruolo guida dello Stato (programmazione, pianificazione, controllo diretto di grandi aziende, strategiche e non) attuato fondamentalmente tramite l’Iri. Con quella che insomma si chiama “economia mista”, non “socialismo”.

Bonomi non ne sa nulla. Non gliene frega nulla. E quelli come lui che lo nomineranno “presidente” sono pronti a tutto, meno che rimetterci qualcosa per ricostruire un Paese dopo un disastro come quello in corso.

***** 

Bonomi “Andiamo verso un’economia di guerra Ma evitiamo una nuova Iri"

Roberto Mania – La Repubblica

Carlo Bonomi è il presidente di Assolombarda, l’associazione industriale di Milano, la più importante d’Italia. Milano è anche la città che rischia la catastrofe per il coronavirus. Bonomi è il candidato più forte alla successione di Vincenzo Boccia alla presidenza della Confindustria nazionale.

L’elezione ci sarà il 16 aprile. La Lombardia è allo stremo. Non è ragionevole chiudere tutto, anche nel resto del Paese, fuorché le attività legate alla sanità e agli alimentari?

«Per me fa testo quanto già previsto dal protocollo firmato da governo e parti sociali: si lavora e si deve lavorare solo dove si possono garantire condizioni di sicurezza e le imprese lo stanno già facendo responsabilmente. Siamo in costante e costruttivo contatto con il premier Giuseppe Conte. Le imprese sono a disposizione con la loro tecnologia e capacità organizzativa per predisporre un sistema di tracciamento del contagio, per tutelare i più esposti. Con questo sistema si andrà oltre l’idea di chiusura generalizzata. Accanto alla gestione dell’emergenza è necessario lavorare per il futuro».

Ma intanto c’è l’emergenza.

«Guardi, le faccio l’esempio della mia azienda. Noi operiamo nel settore biomedicale. Produciamo prodotti anche per le terapie intensive. Bene, tra quindici giorni non potremo più produrli perché un nostro fornitore ha deciso di chiudere. Io non posso sostituire quel componente come voglio, servono le autorizzazioni. E questo vale per tutte le filiere, per il farmaceutico come per l’alimentare. Se si interrompe la catena il prodotto finale non c’è. E troppo semplice pretendere la chiusura delle imprese senza assumersi la responsabilità delle conseguenze».

C’è però un dato: la maggior parte dei contagiati si concentra in aree molto industrializzate. Secondo lei c’è un nesso tra le fabbriche e il numero dei contagi?

«Non credo ci sia questo rapporto, nessun dato conferma un’ipotesi di questo tipo. Piuttosto noto che si sta cercando di far passare l’idea che la colpa del contagio siano le imprese. E un paradigma del sentimento anti-industriale che c’è nel nostro Paese. Eppure se si stanno realizzando nuovi reparti di terapia intensiva in pochi giorni, è grazie alle imprese. E grazie a singoli imprenditori privati che stanno donando per sostenere la nostra sanità. Vorrei aggiungere che molte aziende stanno riconvertendo le proprie produzioni per sostenere lo sforzo sanitario».

Qual è il suo giudizio sul decreto Cura Italia? È sufficiente?

«Io l’ho definito inadeguato. Pensi alla parte sul sostegno al reddito: riguarda solo il lavoro dipendente, e i lavoratori autonomi? Si può pensare che possano tutti fronteggiare questa situazione di emergenza con i propri risparmi? E una visione distonica del mercato del lavoro».

È stata estesa la cassa integrazione a tutte le imprese anche a quelle con un solo dipendente. Un provvedimento straordinario.

«Giusto, ma noi abbiamo bisogno di misure immediatamente applicabili, non possiamo aspettare i tempi della pubblica amministrazione italiana. Ma ci rendiamo conto che il governo ha spostato di quattro giorni le scadenze fiscali, annunciandolo due giorni prima delle stesse scadenze? Chi ha già pagato non otterrà alcun beneficio mentre all’Agenzia delle Entrate è stato allungato di due anni il tempo per gli accertamenti. Ma che senso ha? Non è così che si affrontano i problemi».

Nei giorni scorsi lei ha fatto un appello alle istituzioni e alla società civile per condividere la ricetta per affrontare la crisi economica dopo quella sanitaria. Cosa propone?

«Noi imprenditori abbiamo la certezza che usciremo in maniera molto pesante da questa crisi. L’economia sarà fortemente colpita. Non dobbiamo aspettare le stime del primo trimestre e poi del secondo per immaginare quale sarà l’ordine di grandezza dei punti di Pil che perderemo. Non sarà stagnazione: sarà un’economia di guerra. Ci sono filiere, come quella del turismo, che vedranno il proprio fatturato scendere a zero. Ripeto: a zero. Dunque, c’è necessità di recuperare una vera politica industriale. L’Italia deve essere capofila nel promuovere un nuovo progetto di politica industriale in tutta Europa. E in campo devono esserci le imprese e i sindacati, con le loro conoscenze, esperienze, capacità».

Con quali risorse? Un rilancio dell’industria ha bisogno di stanziamenti di notevoli dimensioni.

«C’è il Mes, il fondo salva-Stati, con la sua potenza di fuoco di oltre 400 miliardi. E il Mes che può per esempio essere un sottostante per l’emissione di un maxi eurobond per l’industria. Poi si dovrà decidere su miliardi di fondi che la Commissione europea ci mette a disposizione, malgrado non li avessimo usati per tempo e gli 8 miliardi di prestiti agevolati annunciati stasera ( ieri per chi legge, ndr) dalla Bei.

Sta pensando, almeno per l’Italia, a una nuova Iri?

«No, non è quella la strada. Non mi convince affatto l’idea che da questa crisi si uscirà con lo Stato protagonista dell’economia. Lo Stato deve restare regolatore, non gestore»

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento