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31/03/2020

I pazzi che pensano a “riaprire” in piena epidemia...

Non siamo né virologi né epidemiologi, ma sappiamo qualcosa di organizzazione e circolazione sociale. Così fin dall’inizio – e con più forza dalla sera dell’8 marzo – abbiamo provato a spiegare a tutti perché quella della “zona arancione larga” era una follia criminale.

Quel giorno il governo Conte decise di non chiudere la Val Seriana (buona parte della zona industriale bergamasca) in cui erano stati accertati grossi focolai di infezione, su pressione esplicita della Lega e di Confindustria, che fino a quel giorno avevano promosso le campagne mediatiche sul “non si ferma” (da Torino a Milano, complice il piddino Sala).

Non era quella zona l’unica che avrebbe dovuto essere dichiarata “rossa”, imponendo la chiusura totale di ogni attività e il divieto di ingresso e uscita. Ma si sarebbe trattato di zone territorialmente ristrette, tutto sommato “circondabili” con un dispiegamento di forze dell’ordine relativamente impegnativo ma non impossibile.

Il governo Conte scelse invece di fare “arancione” tutta la Lombardia più altre 14 province del Nord, tra le proteste inascoltabili del leghista Zaia perché vi erano comprese tre province venete.

“Zona arancione” non significava niente, perché un territorio così immenso non era “cinturabile”. Per di più i leghisti lumbard anticiparono alla stampa il contenuto del decreto che stava per essere firmato, mettendo così in moto una fuga precipitosa di migliaia di persone verso il Sud e altre regioni fin lì quasi immuni.

Peggio ancora, dopo pochi giorni il governo ha esteso a tutta Italia la stessa normativa, lasciando però aperte circa 800.000 aziende produttive, molte delle quali certamente non definibili “essenziali” al fine di combattere il virus e far rifornire la popolazione di alimenti e medicinali.

Scrivemmo allora: Se tutto il territorio è “zona rossa”, allora non c’è nessuna “zona rossa”.

Era lampante che si trattava di una strategia molto diversa da quelle adottate in Cina, Corea del Sud, Taiwan, ecc. dove erano state chiuse totalmente zone relativamente piccole (nelle dimensioni cinesi, almeno), mentre il resto del Paese proseguiva la vita in modo quasi normale pur tra grandi cautele, misure di distanziamento e protezioni individuali obbligatorie. Paesi che dunque producevano – sia pure amputati di parti rilevanti – e quindi potevano supplire in qualche modo al deficit che si veniva a creare; ma senza diffondere il contagio.

In una logica “da Paese”, ossia che antepone l’interesse generale della popolazione a quello di gruppi privatistici ristretti, quella scelta era ed è l’unica possibile per “confinare” efficacemente un’epidemia.

La stessa invasione della privacy con sistemi di tracciamento degli spostamenti individuali, associata alla possibilità-necessità di seguire ora per ora lo stato di salute di contagiati in quarantena a casa, non sollevava obiezioni né nelle popolazioni interessate, e neppure nei media occidentali.

Ed è utile sottolineare infatti come Corea del Sud e Taiwan non siano affatto definite “dittature comuniste”...

In tutto l’Occidente neoliberista, a cominciare dall’Italia – primo Paese “invaso” dal virus (anche se la posizione della Germania sembra assai meno limpida di quanto non ammette l’”etica protestante”) – si è invece preferita una strategia chiaramente “zoppa”. Si è infatti cercato di “contemperare” le esigenze sanitarie (chiusura drastica di alcune zone) con la priorità considerata assoluta: continuare a produrre, a qualsiasi costo.

E lo stesso hanno fatto, resistendo oltre ogni limite, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania, Stati Uniti (dove quel criminale di Trump giudicherebbe un successo avere “solo” 100.000 morti!). Lo schema mentale – gli interessi materiali – neoliberista fa fare le stesse cose anche se poi ognuno le fa per conto proprio... e sono stronzate che producono stragi.

Perché una cosa è produrre – come nella Cina “fuori Wuhan” o la Corea “fuori Daewoo” – in condizioni di semi-sicurezza, tutt’altra è continuare a farlo nel bel mezzo dei focolai del coronavirus, con milioni di persone che escono di casa, si stipano su autobus, metro, treni, e poi negli spogliatoi delle fabbriche, nelle mense, nelle officine.

Milioni di persone che circolano, contagiano o vengono contagiati, e poi rientrano in casa, dove contagiano familiari di qualsiasi età.

Certo, le progressive e spesso insensate “ordinanze” che vietano la circolazione delle persone non al lavoro hanno diminuito statisticamente le possibilità di contagio rispetto a una situazione totalmente “free”. Ma se non si bloccano mai quella valanga di attività “non essenziali” possiamo star sicuri che il virus non verrà mai estirpato. Almeno fino a quando non sarà stata sperimentata una cura efficace disponibilità in quantitativi di massa, oppure scoperto un vaccino (anche qui: in decine di milioni di dosi).

Ripetiamo di non essere né virologi né epidemiologi. Ma ci sembra di non aver detto, né oggi né quasi un mese fa, qualcosa di diverso – e dunque sbagliato – rispetto a quanto prova a spiegare il professor Qiu Yunqing, infettivologo cinese di 57 anni, al vertice della delegazione di tredici esperti che ha appena visitato alcuni ospedali del nord Italia.

Qui di seguito l’articolo con cui Il Fatto sintetizza l’intervista da lui concessa a Repubblica. Nelle stesse ore in cui quel giornale varava la “campagna per riaprire le attività”! E non è neanche l’unico...

Siamo in mano a dei pazzi criminali che per due soldi in più sterminerebbero tutti...

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Coronavirus, l’infettivologo cinese: “Per fermare il contagio bisogna chiudere tutto. Servono più tutele per i vostri medici”

Un mese di distanziamento sociale “rigido” con tutte le serrande abbassate: fabbriche, uffici, negozi. Tutto chiuso. “E il contagio si fermerebbe”. Lo afferma, in un intervista a ‘la Repubblica’, il professor Qiu Yunqing, infettivologo cinese di 57 anni, al vertice della delegazione di tredici esperti che ha appena visitato alcuni ospedali del nord Italia.

Da quel che ha potuto osservare, dice, servirebbe “un vero blocco collettivo delle attività, come si è fatto in Cina. Con rifornimenti alimentari per quartieri, o blocchi di palazzi. Serve il controllo rigido della diffusione del contagio, altrimenti non finiranno mai le persone da curare, ed è così che gli ospedali vanno in tilt. Non vi sono altre misure, lo dico perché noi l’abbiamo sperimentato. Ci tengo che il messaggio passi al vostro Paese”.

Qiu Yunqing è il vicedirettore dell’ospedale universitario della regione di Zhejiang: confrontando la situazione nelle strutture italiane, commenta “i livelli di protezione sono sicuramente inferiori ai nostri. Parlo di maschere, di tute protettive in Tyvek. Le maschere generiche non bastano, l’impressione è che gli operatori non siano abbastanza tutelati. Forse per mancanza di risorse effettive, o, all’inizio, di mancata comprensione del problema. Come è successo a Wuhan, nel primo periodo c’è stata una situazione simile: non si sapeva cosa fosse, questo virus, e non c’era la possibilità di avere risorse”.

E serve anche più personale, per dare il cambio ai medici provati da turni troppo lunghi: “Una malattia come questa richiede tute pesanti, quindi il lavoro è fisicamente ancora più faticoso – spiega l’infettivologo – Non si può reggere un turno di 8 ore, bisogna a scendere a 4, 6 ore. Quindi ci vuole più gente, un terzo in più del solito“.

Un’ultima osservazione riguarda il noto problema delle terapie intensive. “Lì ho visto delle criticità – osserva – Le strutture di degenza sono spesso vecchie, e questo complica molto. Non è una critica, noi abbiamo creato ospedali nuovi, ma anche gli altri nostri ospedali erano recenti, costruiti ai tempi della Sars, quindi con criteri nuovi su organizzazione di spazi e lavoro. Difficile farlo in strutture datate”.

Di fronte all’emergenza attuale, aggiunge, “nessun ospedale, neanche il più moderno, può resistere all’afflusso gigantesco di pazienti, come sta succedendo in Italia”. Bisogna evitare che le situazioni ‘sommerse’ – di chi è a casa, o è asintomatico – esplodano. “I malati vanno intercettati prima. Servono cliniche dove si ricoverano i positivi, anche se asintomatici. Li si monitora, e si può intervenire in tempo, se si aggravano. Ma non devono stare a casa senza controlli, né devono andare al pronto soccorso. Devono stare in questi posti finché non si negativizzano. Nel frattempo bisogna tracciare i loro contatti, e controllarli”. Come? “Con l’analisi dei movimenti, se un malato è stato in un autobus, bisogna rintracciare tutti gli occupanti – conclude – Si deve fare una ricerca anamnestica dettagliata“.

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