Che Mario Draghi trovi sostegno in un certo ambiente economico, è
nelle cose. Che su Mario Draghi stia convergendo tutta la politica
italiana, è un’altra cosa. Dal Pd alla Lega al vasto mondo della critica
keynesiana, il quadro politico sembra chiudersi attorno alla soluzione
migliore per tutti (o quasi: l’unico a rimanere col cerino in mano
sarebbe Conte, e con lui il M5S). I motivi di questo interesse sono
facilmente intuibili. Meno i problemi politici che verrebbero a
generarsi dall’unità nazionale attorno all’uomo delle banche.
La crisi economica, già in corso e che seguirà la fine o il
contenimento dell’epidemia, sarà di vaste proporzioni. Tutti i paesi,
nessuno escluso, subiranno il contraccolpo dell’arresto dei flussi
commerciali misurandolo in vari punti percentuali di calo del Pil. Per
l’Italia, questo non potrà non aggirarsi in una forbice che va dal -5 al
-15%. Percentuali da economia di guerra, come evidente e come stanno
dicendo un po’ tutti, Draghi per primo. Se in tempo di pace la questione
poteva essere affrontata (e aggirata) attraverso l’accelerazione export oriented dell’economia
del paese, dinamica che ha portato l’Italia alla ventennale stagnazione
economica, le soluzioni per questa crisi non potranno replicare quanto è
stato fatto fino ad ora. Per risollevare un paese in profonda
recessione è inevitabile stimolare la domanda interna, rafforzando il
mercato domestico di produzione e circolazione di beni e servizi.
Altrimenti quel -15% lo recuperiamo nel 2050, come infatti (non) è
avvenuto con la crisi scoppiata nel 2008: il Pil dell’Italia nel 2019
non ha ancora raggiunto i livelli a cui era arrivato nel 2007. Ci stiamo
rimpicciolendo drasticamente e troppo velocemente nel tempo, e questo è
uno dei motivi dello scarso peso politico dei nostri governi in Europa.
Stimolare la domanda interna è possibile solo attraverso la leva
degli investimenti pubblici, da un lato, e tramite una politica di
moderazione fiscale per le imprese, dall’altro. L’insieme di questi due
interventi dovrebbe servire ad aumentare l’occupazione e il livello
medio dei salari. Questa è la dinamica keynesiana classica, ed è questo
che Draghi ha aleggiato nel suo intervento sul Financial Times lo
scorso mercoledì. Si capisce dunque perché tutti vogliano salire sul
carro del dopo-crisi: Draghi non è Monti, non verrebbe a commissariare
l’Italia per imporre politiche d’austerity; al contrario, è l’uomo della
provvidenza, il gestore di una pioggia di finanziamenti pubblici,
italiani ed europei, che pioveranno a dirotto una volta che si assesterà
l’epidemia e la UE troverà l’accordo per finanziare la riscossa
economica del continente.
Peraltro, Draghi assomiglia sempre più alla “contropartita” per
azionare il Meccanismo europeo di stabilità. Invece di imporre
condizioni capestro in cambio di aiuti finanziari, come ad esempio
“riformare” il mercato del lavoro o perseguire il pareggio di bilancio,
la condizione politica in cambio degli aiuti economici è che a gestirli
non sia Conte e il suo precario governo. Draghi, da una parte, è
garanzia di prudente gestione dei fondi europei; dall’altra, il sostegno
trasversale che lo accompagnerebbe al governo renderebbe lo stesso più
solido e deciso. Si capisce, da tutto ciò, perché Pd, Renzi, Forza
Italia e Lega stiano tentando il colpo di mano: il governo Draghi non è
un governo che farà perdere voti ai protagonisti. Per il Pd, si
tratterebbe di garantirsi al governo e al tempo stesso anestetizzare
l’opposizione della Lega; per la Lega, tornare al governo raccogliendo i
frutti dell’apertura dei cordoni della borsa. Per i protagonisti
minori, il solo tornare al governo è motivo di entusiasmo. Se questo è
lo scenario “razionale” per “salvare il capitalismo” dal virus, si
capirebbero le grida di giubilo che giungono dalle parti più
impensabili. Ma tutto andrà come descritto?
In primo luogo, è tutto da vedere che la partita con la UE termini
con una “vittoria” italiana (che, tradotto, sarebbe l’approvazione degli
“Eurobond”, cioè obbligazioni di debito pubblico emesse direttamente
dalla Bce). Titoli di Stato, garantiti non da questo o quello Stato
comunitario, ma dalla Ue nel suo complesso. Titoli senza spread dunque.
Si capisce l’interesse dell’Italia all’introduzione di questa forma di
condivisione del debito. Eppure lo scontro in corso per il momento non
promette una soluzione di questo tipo. La mediazione verte su di un Mes
“ammorbidito” nelle condizioni di apertura del credito, e dall’aumento
dei fondi in dotazione al Mes stesso. Su di un altro piano, il
proseguimento sine die e senza fondo del quantitative easing.
L’Italia in questa battaglia ha al suo fianco altri paesi, tutti
importanti ma nessuno decisivo: la Francia, che però è un non-alleato,
visto il rapporto organico con la Germania; la Spagna, martoriata dal
virus, ma anch’essa alleata organica della Germania; la Slovenia, paese
dell’est – cioè del retroterra produttivo tedesco – ma Stato troppo
piccolo; l’Irlanda, un paese del nord, ma anch’esso piccolo e
periferico. Oltre questo fronte l’Italia non ha margini di
contrattazione rilevanti. L’alternativa cinese è minacciata ma di fatto
impraticabile: l’Italia non scinderà l’alleanza
politico-economico-militare con la Nato e gli Usa, neanche per questa
battaglia. Dunque, vedremo. Ma lo scenario più probabile, al momento, è
una mediazione che rafforzi il Mes e disinneschi gli Eurobond. Anche
perché l’Unione europea è un’associazione competitiva e non cooperativa.
Questo significa che la crisi sarà anche generalizzata, ma il modo in
cui uscirne è delegato ai singoli Stati. L’uscita dalla crisi avverrà
cioè tentando di sottrarre quote di mercato, di produzione, di risorse
agli altri Stati membri. Una debolezza italiana, in tal senso,
consentirebbe scorrerie finanziarie a cui stanno guardando un po’ tutti,
in Occidente. I “gioielli di famiglia” oggi sono scalabili, e il
dopo-crisi aprirà all’economia di rapina continentale margini di
conquista che saranno valutati attentamente dai nostri “partner”.
Draghi verrebbe dunque a gestire il Mes, non a governare un debito
pubblico lasciato libero di crescere a dismisura per cause di forza
maggiore (cosa che, in ogni caso, avverrà). E sarà proprio in questa
fase, in cui la politica sarà decisiva, che si vorrebbe anestetizzare il
confronto demandando il compito di allocare le risorse (eventuali e
limitate) al “tecnico”. Lo stesso “tecnico” che ha commissariato
l’Italia nel 2011 cacciando Berlusconi e imponendo Monti; lo stesso
“tecnico” che ha istituito il Fondo salva-Stati e che ha gestito la
“trattativa” con la Grecia sull’orlo del fallimento. Già oggi si
condividono le ricette del mondo dell’imprenditoria, non a caso fatte
proprie anche dal resto dell’arco parlamentare e non solo. “Abolire”,
“sospendere” o “dilazionare” le scadenze fiscali, ad esempio. Tutti,
anche a sinistra purtroppo, rincorrono le parole d’ordine
imprenditoriali della moderazione fiscale. Al contrario, bisognerebbe
ragionare su di una nuova leva fiscale progressiva, che diminuisca il
peso fiscale sui redditi più bassi e su una determinata composizione
lavorativa, e al contempo innalzi la pressione fiscale sui redditi
maggiori, sui loro patrimoni immobiliari o finanziari, nonché sui
patrimoni immobilizzati nelle banche.
Sciogliere le briglie dell’economia in una fase (possibile ma non per
questo sicuramente probabile) di spesa in deficit porterebbe
inevitabilmente a ripensare il mercato del lavoro. In quale direzione?
Garantendolo attraverso migliori definizioni contrattuali? Oppure
“liberalizzandolo” ulteriormente in senso anglosassone? E la vicenda
dello smart working di massa come inciderà sulle coperture
contrattuali e salariali dei lavoratori? Perché il processo di
de-fiscalizzazione porterà, facile immaginarlo, allo scambio perverso
tra busta paga leggermente più alta e minori garanzie contrattuali,
abolendo la contrattazione nazionale in favore di quella aziendale.
Processi che passerebbero indolori in una fase di crescita sostenuta del
Pil, ma che ricadrebbero come macigni una volta esaurita la traiettoria
di crescita drogata dal debito pubblico. Anche qui, dunque, ci vorrebbe
la politica, non la pacificazione nazionale a sostegno del
tecnico-salvatore della patria.
Se nei tempi brevi la ricostruzione dell’economia porterebbe a una
condivisione di fatto delle urgenze, nei tempi medi – una volta passata
la tempesta – uno come Draghi al governo sarebbe un problema di non poco
conto. L’uomo di Goldman Sachs completerebbe l’opera di privatizzazione
degli asset nazionali, a cominciare da quell’Alitalia che invece in
questi giorni sembrerebbe sulla via della nazionalizzazione. Insomma,
Draghi ha gioco facile, oggi, a imporsi quale uomo della provvidenza:
l’orizzonte di ricostruzione dell’economia è delineato (non si trova più
un liberista in giro, fateci caso...), ma è proprio nel momento in cui si
allargano i cordoni della borsa che, al contrario, è necessaria la
politica. Capire dove e come spendere i soldi della ricostruzione – se e
quanti saranno – è il primo campo di battaglia nel confronto politico.
Confronto che si vorrebbe sospendere, in nome di un obiettivo che è
tutto fuorché “neutro”. Che questa sospensione venga richiesta dalla
destra liberista o sovranista, non fa stupore. Che a richiederla sia
anche una parte della “sinistra keynesiana” rischia di validare il
sostegno unificato ad un personaggio, e a una politica, che si configura
già oggi come anti-lavorativa, anti-sindacale e aperta a ogni
sperimentazione repressiva, sul lavoro e nella società. Il virus, come
ogni crisi, può essere anche un’opportunità. Facciamo in modo che a
coglierla non sia solo il capitale organizzato attraverso le sue
rappresentanze politiche.
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