Quando tra un po’ anche la retorica esalerà l’ultimo respiro sull’ennesimo morto, di o con il coronavirus, gli italiani perderanno la pazienza e si faranno una domanda: ma io sono o non sono positivo?
È solo facendo i tamponi che potremmo capire qual è la dimensione del problema attuale e soprattutto quando ne verremo fuori. Ma di tamponi se ne vedono pochi, quindi è difficile in queste condizioni prevedere come almeno alcune zone dell’Italia, magari quelle meno colpite dal virus, possano progressivamente tornare alla normalità. In mancanza di analisi estese sulla popolazione è impossibile individuare una tendenza e agire di conseguenza.
I più ottimisti tra gli esperti dicono che forse l’emergenza potrebbe finire tra maggio e giugno, entro l’estate secondo i più prudenti. Insomma ci aspettano tre mesi di chiusura al termine dei quali speriamo di avere salvato un po’ di gente ma il Paese sarà clinicamente morto, sempre che le cosiddette autorità siano in grado di controllare l’esasperazione della gente per tutto questo periodo di tempo.
Perché la retorica dei medici eroi non potrà bastare a coprire il fallimento della sanità e dello Stato italiano nell’applicare misure che in alcuni Paesi, dalla Cina alla Corea del Sud al Giappone, hanno consentito un lento ritorno alla vita quotidiana. Essere efficienti come gli asiatici è pretendere troppo ma qui troppo lentamente si sta prendendo atto della necessità di portare alla popolazione lo strumento fondamentale per far capire alla gente a che punto siamo: ovvero quei tamponi che con reagenti, macchine e personale adeguato possono dare una dimensione scientifica e statistica della situazione.
Intanto in mancaza dei tamponi veri ne servono altri. Robusti tamponi per fermare le dilaganti perdite orali degli esperti. Non solo dicono cose diverse gli uni dagli altri, ma lo stesso esperto una volta dice una cosa e qualche giorno dopo ne afferma un’altra. Quel Walter Ricciardi, rappresentate dell’Italia all’OMS un giorno gli ho sentito dire che servono tamponi a tappeto, poi che i tamponi a tappeto non servono e sono dannosi, quindi che bisogna fare i tamponi, soprattutto quando li ha annunciati il presidente della regione Veneto rischiando di scavalcare il governo di Conte che ormai sembra il Capitan Tentenna.
Per non parlare di Pregliasco e Gismomdo, virologi. Ecco cosa affermavano il 24 febbraio. Pregliasco a Tpi: “Burioni fa allarmismo per mettere pressione al governo, ma il Coronavirus è poco più di una febbre”. La Gismondo lo stesso giorno a Repubblica dichiarava: “Quando tutto questo sarà finito, mi farò fare un ciondolo d’oro a forma di coronavirus, che è bellissimo. Poi me lo metto al collo. Sarà il mio trofeo”.
Ma la colpa non è loro. È dei giornalisti che continuano a intervistarli in tv e sui quotidiani. Perché la nostra è una categoria assetata di esperti. E anche il governo si basa su quanto dicono gli esperti. Quel povero Conte quando ha deciso la prima stretta restringendo l’apertura di bar e ristoranti ha presentato la sua proposta al comitato scientifico che non si è pronunciato né contro né a favore. Col passare dei giorni e il dilagare del dramma soprattutto al Nord, Conte ha cercato di spartire la responsabilità con altri e per esempio ha nominato Domenico Arcuri, uno che mi pare abbia sempre fatto finanza, commissario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere.
Arcuri, in un’intervista alla Rai, ci ha rassicurato ma non troppo. Prima ha detto che ci servono 90 milioni di mascherine al mese. “È un numero straordinario, ma abbiamo attivato tutti i canali per rifornirci”. Poi però ha affermato che la nostra industria non è in grado di soddisfare la domanda di presidi sanitari, mascherine e soprattutto ventilatori, tamponi e kit diagnostici veloci. Senza tamponi e kit diagnostici fra tre mesi saremo ancora qui a combattere il virus perchè dobbiamo non solo tracciare adesso i positivi ma anche contenere eventuali successive ricadute.
Su come curare i positivi e i ricoverati si accavallano le informazioni più disparate. Ora si punta sull’antivirale giapponese Avigan, in Francia si sono lanciati sulla clorochina, farmaco per la malaria che ho preso l’ultima volta 30 anni fa in Somalia.
Tutto questo è successo in un solo giorno mentre si inseguono sui media e sui social le versioni più disparate sulle origini del Covid-19. Colpa degli americani, colpa dei cinesi mentre sul Global Times veniva riportata un’intervista a Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, in cui si afferma che “il virus circolava in Lombardia prima che fossimo a conoscenza della crisi in Cina”. Parole che poi sono state riprese e distorte per dire che il virus è nato in Italia mentre Remuzzi diceva che non ne era a conoscenza, non che non fosse esploso prima in Cina.
Ecco perché servono tamponi per le perdite orali. Nessuna fabbrica al mondo però è in grado di produrli per arginare le dichiarazioni, a raffica e volatili, degli esperti italiani ormai entrati nel turbine affascinante ma insidioso della notorietà televisiva e mediatica.
La pandemia ha cancellato calciatori, attori, cantanti rap e persino gli onnipresenti influencer, tutti questi ormai compaiono solo in fastidiosi spot ripresi opportunamente in capo stretto dove sembrano vivere nel tinello di un basso napoletano. È così bello stare a casa, dicono: manco fossero stati istruiti dal Min.Cul.Pop. A loro posto sono rimasti gli esperti della scienza, ma non della comunicazione. Insieme purtroppo ai tanti morti sul campo rischia di cadere con loro anche la credibilità scientifica.
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