di Alberto Negri
Leggo articoli che sembrano scritti da gente che in questi giorni ha affrontato le barricate, corso sotto le bombe, sopravvissuta a raffiche di proiettili e a posti di blocco di feroci miliziani: questa, dicono, è la prima vera guerra mondiale.
Viene invocata l’epifania di un nuovo Hemingway che sappia raccontarla, vengono evocate fosse comuni (ma dove sono?) e memoriali ai caduti.
Tanta retorica non pensavo che fosse immaginabile, almeno quanto non era immaginabile questa pandemia molto grave, ma che per ora non ha certo le dimensioni neppure della spagnola del 1918 che fece soltanto qui in Europa venti milioni di morti, più della stessa prima guerra mondiale. Certo bisogna fermarla, ma anche rendersi conto di come la affrontiamo a parole.
Devo dimenticarmi delle montagne di cadaveri che ho visto nella mia vita da inviato di guerra, di gente sventrata, di uomini e ragazzi mutilati dalle mine, di madri con gli infanti morti nelle braccia perché senza acqua, cibo e cure, di fanciulli con il ventre gonfio, di città distrutte, di villaggi bruciati, di nazioni mai più ricostruite, di profughi affamati, vaganti e piangenti per il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia e i Balcani.
Del massacro di Sabra e Shatila, di quello Srebrenica, delle teste mozzate in Algeria rotolate nei fossi, dei cadaveri impiccati ai lampioni di Kabul. La guerra in me evoca questi orrori e anche i peggiori lutti personali: amici e amiche uccisi da un granata improvvisa, fucilati e massacrati dai miliziani afghani, fulminati da un proiettile di carro armato a Ramallah.
Giornali e tv non si trattengono: linguaggio bellico a volontà e non solo come metafora. Alimentati da leader modesti, che cercano una statura che non hanno, adesso sono diventati i cecchini del runner. Vogliono farci credere che siamo in guerra per giustificare la povertà che verrà dopo.
Qui non servono cannoni ma medicine, respiratori, posti letto, medici, infermieri e auto-disciplina. Magari anche tamponi per la diagnostica di tante persone a casa, febbricitanti e con l’affanno, che vorrebbe sapere, per la loro salute e quella altrui, se sono positivi al coronavirus oppure no.
Agli altri è stato chiesto di stare sul divano, non di andare in trincea, cosa che per altro non saprebbero fare: non hanno mai fatto il servizio militare né visto una guerra.
Preparatevi invece al punto di rottura sociale: quando la gente non ne potrà più di stare a cantare sul balcone.
Qui invocano l’esercito, ma non sanno neppure cosa dicono. Se ne è accorto Sorgi sulla Stampa, uno dei pochi a mantenere un minimo di sangue freddo. L’esercito servirà davvero nel momento in cui la gente rinchiusa in casa si sentirà ancora più povera e impotente di prima, soprattutto al Sud dove abbondano i precari, i sotto occupati e o disoccupati. La loro frustrazione crescerà e si sentiranno davvero ai domiciliari.
Allora questa diventerà davvero una maledetta primavera, ma senza retorica bellica ed esagerazioni: sarà la primavera del loro scontento.
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