“Il coronavirus rischia di condizionare le nostre vite più e peggio di quanto fece l’aids un trentennio fa. Se vogliamo difendere le nostre conquiste e i nostri diritti di libertà, dobbiamo comprendere che siamo dinanzi a una sfida colossale, che contemporaneamente investe la sanità, la scienza, la tecnica e l’economia. Per il momento siamo lontanissimi da una presa di coscienza. I policymakers sembrano ragionare con lo sguardo rivolto all’indietro, come se non avessero il coraggio di guardare avanti e indicare soluzioni all’altezza di questa tragedia epocale”. L’economista Emiliano Brancaccio denuncia all'AntiDiplomatico l’inadeguatezza dell’azione politica di fronte agli effetti dell’epidemia e lancia un appello sul Financial Times per un “piano-anti-virus”.
Professor Brancaccio, pochi giorni fa il Financial Times ha pubblicato un appello promosso da lei e da altri colleghi economisti per l’immediata attuazione di un piano "anti-virus" che possa fronteggiare una crisi a vostro avviso gravissima. Qual è l’effettiva portata economica di questa crisi? È possibile quantificare l’impatto complessivo che avrà sulla produzione e sull’occupazione, in Italia e nel mondo?
Dipende da quanto dovranno durare le quarantene. Marx sosteneva che se una nazione ferma il lavoro anche solo per un paio di settimane, quella nazione è destinata a soccombere. Esagerava, ma non andava troppo lontano dal vero. Un banale calcolo contabile ci dice che appena due settimane di blocco anche parziale dell’attività produttiva implicano una perdita di produzione e di reddito di un’ottantina di miliardi, ossia circa il 4 percento del Pil italiano, e questo senza considerare gli effetti moltiplicativi della recessione. Ovviamente, se il blocco perdura, il crollo si accentua. Questa semplice misura chiarisce che sono già del tutto sconfessate le previsioni ottimistiche della BCE e di altri, secondo cui questa sarebbe una crisi “a forma di v”, cioè con una breve caduta e poi subito una ripresa in grado di portarci spontaneamente al vecchio equilibrio. I profeti della “v” non hanno compreso che questa crisi distrugge contemporaneamente sia le capacità di spesa che di produzione, e per questo rischia di essere più pesante e più lunga delle precedenti.
Chi rischia di pagare di più gli effetti economici della crisi del coronavirus?
La crisi sta avendo e avrà i suoi vincitori e i suoi vinti, e la distinzione tra gli uni e gli altri è sempre una distinzione tra classi sociali. Basti pensare agli ambiti in cui il virus si è maggiormente propagato nelle ultime settimane: nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, soprattutto tra i lavoratori precari che non potevano sottrarsi ai loro impegni. E dal lato sociale opposto, basti pensare alle occasioni di guadagno che il caos dei mercati potrebbe dare agli speculatori.
Considerata la dimensione della crisi, come giudica le prime azioni della BCE e delle istituzioni europee?
Inadeguate e in alcuni casi controproducenti. Tutti ora si rallegrano della sospensione del patto di stabilità. Ma quel patto è stato già violato nei due terzi dei casi e non è mai stato il problema principale. Il rischio più grande è che adesso i vari stati vadano sul mercato a vendere in massa nuovi titoli in cambio di finanziamenti. In questo modo potrebbe determinarsi un eccesso di offerta di titoli, il classico ingorgo del mercato che favorisce la caduta dei prezzi e le scommesse al ribasso degli speculatori. La BCE potrebbe offrire un ombrello protettivo contro di essi. Ma per farlo, anziché aggiungere alla spicciolata quantità definite di miliardi ad ogni nuovo sussulto dei mercati, dovrebbe dichiarare che mette a disposizione risorse illimitate. Purtroppo non lo sta facendo. La verità è che il modo di agire della BCE è ancora vago, condizionato da feroci conflitti tra creditori e debitori nel Direttorio di Francoforte.
Il presidente del consiglio Conte sostiene che risorse immediate potrebbero scaturire dal MES, il cosiddetto fondo “salva-stati”. Anche il commissario europeo Gentiloni la vede in questo modo. Lei che ne pensa?
Penso che stiano sbagliando. Quello che chiamano fondo “salva-stati” è un accordo intergovernativo estraneo ai Trattati e completamente sbilanciato, poiché condiziona espressamente l’erogazione delle risorse al soddisfacimento del “punto di vista dei creditori”. È un meccanismo iniquo e inefficace, che è stato ideato solo per dare alla BCE un alibi che le consenta di sottrarsi dal ruolo decisivo di prestatore di ultima istanza, l’unico che può garantire la solvibilità del sistema e può quindi realmente bloccare gli speculatori. Per come è configurato, il MES dunque non è la soluzione. È una trappola.
Nel vostro appello sostenete che se dovessero prevalere gli egoismi, l'Europa unita potrebbe non resistere. A questo proposito, in una recente conversazione con lei, anche l’ex ministro Giovanni Tria ha sorprendentemente dichiarato che sarebbe utile avere un “piano B” per gestire un eventuale tracollo dell’euro. A suo avviso in cosa dovrebbe consistere un ipotetico “piano B”?
Se si presentasse questa emergenza si tratterebbe di risolvere il vecchio “trilemma” delineato da Padoa Schioppa e altri: tra piena apertura ai movimenti di merci e di capitali, cambi fissi e politica monetaria nazionale autonoma, sono compatibili tra loro solo due opzioni su tre. Se la soluzione della delega della politica monetaria a un ente sovranazionale come la BCE fallisce, qualcuno dice che basterà abbandonare i cambi fissi e affidare i movimenti valutari al gioco del mercato e degli speculatori. Io penso che questa strada porterebbe ad altri fallimenti. Se l’euro crolla, la prima cosa giusta da fare sarà il ripristino dei controlli sulla circolazione internazionale dei capitali.
Al di là dei destini dell’Eurozona, in ogni caso nel piano “anti-virus” pubblicato sul FT voi proponete il controllo dei mercati dei capitali per bloccare la speculazione. Ci ha meravigliati che la testata più autorevole della finanza mondiale abbia deciso di pubblicare una proposta che limiterebbe la libera circolazione del capitale. Come se lo spiega?
È un po’ il segno di questo tempo. Durante una crisi di tale portata può accadere che il capitale si guardi allo specchio e si interroghi sul rischio che l’instabilità dei mercati minacci la sua stessa riproduzione. E può accadere che arrivi persino a chiedere aiuto alla politica, in un certo senso per salvarsi da sé stesso. Non sarebbe la prima volta.
Nell’appello voi parlate anche del rischio di una più generale “disorganizzazione” dei mercati, che potrebbe riguardare non solo il mercato finanziario ma pure i mercati delle merci, con strozzature nelle catene della produzione e al limite problemi di approvvigionamento di beni e servizi. Quanto è concreto questo rischio?
Il rischio di “disorganizzazione” dei mercati è stato evocato qualche giorno fa dall’ex capo economista del FMI, Olivier Blanchard. Sta proprio a indicare che questa è una crisi diversa dalle altre, perché pone problemi non solo dal lato consueto della domanda ma anche dal lato dell’offerta. Ce ne stiamo già accorgendo nella fornitura di beni e servizi sanitari, ma se le quarantene perdurano le difficoltà emergeranno anche in altri settori. E saranno guai ancora più seri.
Proprio per la complessità di questa crisi, voi invocate una vera e propria pianificazione pubblica.
Sì. Per uscire da questo caos non basteranno le solite invocazioni a fornire liquidità e a rilanciare la spesa aggregata. Servirà pure consapevolezza della fragilità delle catene input-output della moderna produzione capitalistica, che potrebbero incepparsi e potrebbero quindi aver bisogno di una riorganizzazione tramite interventi misurati e moderni di pianificazione pubblica. Non basta Keynes, questa volta serve anche Leontief.
In un articolo recente avete anche accennato alla necessità di una pianificazione nel campo della ricerca sul virus, per contrastare i tentativi di speculare sulle conoscenze scientifiche in materia. Può spiegarci questo punto?
Ci sono aziende private che ogni giorno annunciano scoperte imminenti nella ricerca sui vaccini, e che per questo vedono esplodere i loro valori di borsa. Ci sono altre aziende che già dispongono di conoscenze che potrebbero risultare utili nella lotta alla pandemia, ma le mettono a disposizione solo dei migliori offerenti. I governi, a cominciare da quello americano, hanno finora assecondato questi “battitori liberi”. Noi invece sosteniamo che queste speculazioni ostacolano la ricerca e debbono essere immediatamente fermate. Occorre un piano pubblico per acquisire le conoscenze che attualmente sono in mani private e per metterle subito gratuitamente a disposizione di tutti gli scienziati che sono impegnati nella lotta contro il virus. Più presto mettiamo in comune le conoscenze, più presto avremo a disposizione armi efficaci per sconfiggere il Sars-Cov-2.
Veniamo da più di trent’anni di liberismo. È davvero possibile compiere una svolta verso forme così sofisticate di pianificazione pubblica?
Il piano è sempre la risultante di un’emergenza, che improvvisamente costringe a coordinare azioni che prima erano caotiche e divergenti. Dopo anni di litanie sull’opportunità di gestire le unità sanitarie come aziende private in competizione tra loro, all’improvviso i cittadini si sono resi conto di quanto invece sia fondamentale disporre di un sistema sanitario che agisca secondo logiche di pianificazione pubblica e democratica: che vuol dire tutelare i cittadini in base alle condizioni di salute piuttosto che al censo, anche in situazioni di razionamento dei beni e dei servizi sanitari. Se la crisi durerà a lungo, problemi analoghi di razionamento potrebbero emergere anche in altri settori, con difficoltà di approvvigionamento e quindi anche tentativi di speculare su di esse. Se le cose diventeranno così difficili, meccanismi moderni e ben delineati di pianificazione pubblica saranno l’unica possibile salvaguardia, civile e democratica, contro eventuali fenomeni di “borsa nera”.
Professore, lei insiste sulla parola “democrazia”: pensa che sia a rischio?
La democrazia ha molti nemici, è già malata da tempo e questa tragedia del coronavirus può indebolirla ulteriormente. In fin dei conti, più funesta del virus c’è solo la tentazione di affidare l’emergenza al cosiddetto “uomo forte”: se la gente resterà chiusa in casa a lungo e si susseguiranno emergenze che impongono centralizzazione delle decisioni, quella tentazione si farà sempre più strada. Già oggi alcune forze politiche di tradizione autoritaria invocano a piè sospinto super-commissari con potere di decretazione d’urgenza. È un pessimo segnale. Saremmo più tranquilli se ci fosse ancora quel tessuto di salvaguardia democratica che veniva garantito da sindacati combattivi e da partiti di massa che intermediavano tra popolo e istituzioni. Oggi purtroppo non c’è nulla di tutto questo. Quel tessuto democratico andrebbe ricostruito, in fretta.
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