Se dovessimo definire la strategia delle élite politiche occidentali – in particolare quelle statunitensi – nell’affrontare il ciclo economico ai tempi della pandemia dovremmo scomodare il “whatever it takes” di Mario Draghi nel pieno della crisi del 2012.
La filosofia è la stessa, ma l’ordine grandezza è assai diverso, così come la natura della crisi.
Il primo è immensamente più grande, visto che la crisi è sistemica ed investe buona parte dell’economia mondiale.
Partiamo dagli Stati Uniti, dove il combinato disposto di FED e provvedimenti bi-partisan del Congresso – ieri sera il Congresso ha approvato il varo di un pacchetto di 2mila miliardi di dollari per “tamponare” l’economia – ha avuto come logico effetto un “rimbalzo” positivo del 9,38% dello S& 500, e addirittura dell’11,37% del Dow Jones, in linea con l’andamento schizofrenico delle borse europee.
A salire, negli USA, sono stati soprattutto i valori delle azioni delle aziende più penalizzate dalla corsa ribassista, perché maggiormente vulnerabili, e che tirano un “sospiro di sollievo”.
Se fosse per la mano invisibile del libero mercato, sarebbero in fallimento. Come sottolinea MilanoFinanza, “la banca d’affari americana BofA ha calcolato che l’ondata di vendite degli ultimi due mesi, febbraio e marzo, che ha portato al ribasso del 30% i listini mondiali, è stata la più veloce nella storia. E qui gli analisti hanno considerato un secolo di attività. La velocità nella cessione di asset si è concentrata in 22 giorni, fatto che trova riscontro simile nel febbraio del 1934 con 23 giorni, mentre il settembre nero del 1929 si colloca al terzo posto con 31 giorni per registrare una tale vertiginosa perdita”.
Non si era mai vista insomma una fuga dal mercato di queste dimensioni.
Lunedì, nonostante le misure intraprese dalla FED, lo stesso indice (lo S&P500) era sceso a fine giornata del 3%, un dato in linea con la curva discendente dell’ultimo mese anche rispetto all’altro indice di riferimento borsistico statunitense, il Dow Jones, che segna una perdita del 3,7%.
Il valore azionario delle società quotate in borsa con questo listino (il Dow Jones) per intenderci, nell’ultimo mese hanno perso più di un terzo del loro valore.
Prima dell’annuncio imminente del pacchetto da 2 miliardi di dollari – un mix di salvataggi delle imprese e di “helicopter money” per i contribuenti americani – la FED era intervenuta quattro volte in meno di una settimana con nuove misure.
È da sottolineare comunque la diversa reazione ai due mega-interventi delle autorità Usa. Mentre il maxi quantitative easing della FED (annunciato come “illimitato” e senza scadenze temporali) aveva avuto un primo effetto terroristico sui mercati finanziari (se si prende una decisione così estrema vuol dire che la situazione è tragica), il “piano” approvato dal governo promette di sostenere l’economia reale.
Il che significa, in qualche misura, che “il mercato” è consapevole della caratteristica essenziale di questa fase: viene distrutto gran parte dell’oceano di “capitale fittizio” pompato negli ultimi 30 anni e quindi tutte le residue speranze si concentrano sulle attività economiche reali. Quelle che producono ricchezza "vera", non castelli di carta dgitale.
Jerome Powell a capo della FED ha chiarito fin da subito la sua filosofia decisionale, ed anche recentemente ha ribadito che non c’è alcuna opzione che possa essere scartata a priori, “out of the table” per usare la sua espressione. Si naviga a vista, nulla è più impossibile per come definito dalle teorie monetariste.
Grazie all’intervento della FED il costo del denaro ormai è pari a zero, non c’è limite al pompaggio di dollari nel sistema finanziario, si può procedere all’acquisto di qualsiasi cosa – persino i corporate bond sul mercato secondario (obbligazioni emesse da società private, ormai senza valore di scambio) – oltre che a titoli del tesoro, veicoli finanziari costruiti sui prestiti ipotecari (MBS), credito al consumo, “commercial papers”, i bond delle istituzioni locali e chi più ne ha più ne metta...
La FED ha attivato anche degli swap – scambio di dollari contro pacchetti azionari – con le banche centrali occidentali estesi poi ad altri 17 paesi (tranne la Cina), tra cui Corea del Sud e Australia, per prevenire il rischio che venga meno la circolazione della principale moneta per gli scambi internazionale: il dollaro, salito di valore rispetto alle altre valute, considerata la tendenza generalizzata degli investitori a tenersi in pancia i verdoni.
Per la complessa quanto fragile struttura finanziaria costruita attorno al dollaro, la valuta americana è come l’olio per un motore a scoppio, peccato che la qualità di quest’olio è da tempo un’incognita, vista la storica abitudine Usa, di scaricare le proprie crisi sul resto del mondo, proprio tramite la creazione di moneta.
Le conseguenze economiche della crisi epidemica sono perciò moltiplicatrici, e non “cause ultime” di un sistema che, come il pesce, puzza dalla testa, in questo caso il sistema finanziario statunitense. E non sarà certo un rimbalzo transitorio, fondato su una decisione politica “nazionale”, ad invertire the big short dei mercati mondiali e la loro tendenza ribassista.
Non a caso, al combinato disposto di Congresso e FED, si sta unendo sempre più forte la voce del “Partito del PIL” Usa, che propende anche lì per il più rapido ritorno al lavoro ed al business as usual. Virus estirpato o meno!
Trump è di fatto solo un ventriloquo del big business quando afferma: «non possiamo far si che una cura sia peggiore del problema», cogliendo l’assist dell’ex-presidente della Goldman Sachs, che preme per “normalizzare” l’economia.
È tutto un fiorire di dichiarazione bipartisan in questo senso. Il “democratico” Cuomo, che governa lo Stato di New York (uno dei focolai negli USA), è in fondo sulla stessa posizione. Sembra infatti che l’aumento dei test per il Coronavirus, nello Stato della Grande Mela, sia fatto più per mandare a lavorare chi risulta negativo che per “ragioni di salute pubblica”...
Si sgombera subito il campo da eventuali critiche da parte del personale medico e degli scienziati non allineati. «Se fosse per i dottori, direbbero di chiudere per due anni. Non possiamo farlo», ha detto Trump. Quindi, se per tenere in piedi l’economia si rischia una strage, che strage sia!
Se poi ci aggiungiamo l’opzione militare, che sta sempre più prendendo forma, cioè l’uso dell’esercito nelle strade, il quadro è completo.
Andrete a lavorare anche durante la crisi pandemica, e se è necessario come sembra ai nostri, ci sarà l’esercito nelle strade, anche per prevenire “turbolenze”.
Il “salvataggio” dell’economia, nella filosofia neoliberista, prevede un ampio uso degli stivali dei soldati, oltre che il martirio dei lavoratori.
Ma torniamo ai “castelli di carta” della finanza.
Era stato uno studio – ancora – di Bank of America, alla fine della scorsa settimana, a dire le cose come stanno: «il crack dei mercati americani è ormai peggio di quello del 1929». In totale sintonia con Maury Obstfeld, ex capo economista del FMI, per il quale «il mondo non ha mai conosciuto una tale interruzione sincronizzata dell’economia da decenni». Dall’ultima guerra mondiale, in pratica...
C’è da cominciare a chiedersi quale sarà la carta che farà cadere il castello.
La crisi potrebbe iniziare dai “Paesi Emergenti”, calcolando che ben 53 miliardi sono “fuggiti” dai loro mercati, circa il doppio di quelli “rimpatriati” negli Stati Uniti nella crisi del 2008.
In alcuni di questi paesi, questo drenaggio di capitali, insieme al drastico abbassamento del prezzo del greggio a meno di 30 dollari attuali – il brent era a 27 dollari al barile, ieri, contro i 70 di inizio gennaio – contemporaneamente a una più difficile gestione dell’epidemia, potrebbe portare ad un “crollo” del Sistema-Paese: Messico, Algeria, Nigeria ed in parte Iran corrono questo rischio.
Ma le dinamiche del prezzo del greggio e della guerra del petrolio colpiscono anche gli Stati Uniti.
Il petrolio da scisto, per le tecniche di estrazione, ha una resa ottima all’inizio, ma tende subito ad esaurirsi, e implica il bisogno di estendere gli scavi in continuazione, con relativi investimenti tutti sostenuti dall’indebitamento finanziario. Ma se il costo di produzione è praticamente il doppio di quello attuale di vendita (in media 60 dollari al barile) il problema è evidente a tutti.
Come ha commentato l’ex consigliere di George W.Bush, Robert McNally: «si arriva ad un punto in cui una compagnia petrolifera che estrae un barile di petrolio dalla crosta terrestre distrugge del valore» invece di crearlo...
Di questo possibile “punto di rottura” sembrano essere molto consapevoli le major petrolifere mondiali, che hanno tagliato – e non di poco – gli investimenti previsti (Total e Shell del 20% per esempio); alcune non distribuiranno dividendi azionari, in un sistema finanziario dove questo vuol dire azzerare la propria appetibilità, come è il caso di ENI, Equinor e della stessa Shell...
Il cigno nero verrà da ciò un tempo era chiamato “oro nero”?
Il fardello dei debiti era forse già il maggiore punto di criticità. Lo sottolineava l’Istituto Finanziario Internazionale a fine 2019. Qui ammontavano già a 253 mila miliardi di dollari, cioè il 322% del Pil mondiale, in una situazione già “stagnante” che in alcune economie importanti – come la Germania – era prossima alla recessione.
Duemila miliardi delle aziende sono “in scadenza” quest’anno e devono essere rinegoziati, tra questi vi sono settori chiave come le compagnie aeree, il gas di scisto, l’automotive, l’immobiliare e la società di credito, l’intero sistema del turismo. Guarda caso sono proprio i titoli che hanno fin qui sofferto di più, ed il cui salvataggio sta maggiormente a cuore al “Partito del Pil”.
Ed è chiaro che chi può – una manciata di Paesi – tutela i propri “campioni nazionali”, mentre gli altri – nella logica del darwinismo economico – possono pure crepare. E questo destino, a bocce ferme, interesserebbe una fetta importante del mondo.
Nell’ottobre dello scorso anno, uno studio aveva rivelato che su 19mila miliardi di debiti privati delle imprese (più di 10 volte il Pil italiano), il 40% non risultavano “coperti” (il problema riguardava ben otto Paesi).
Sarà dunque l’indebitamento privato a far volare il cigno nero sulle teste del big business?
Proviamo a tirare sommariamente le conclusioni, tenendo conto che il principale fattore di uscita dalla crisi del 2007/8 fu lo sviluppo dell’economia cinese, che ha trainato l’economia globale fuori dalle secche in cui l’aveva portata la finanza USA.
Washington sta buttando sul piatto la possibilità di stampare moneta virtuale per venire incontro alla sua economia, per poi ri-allineare con la diplomazia del dollaro i suoi alleati – visto che sul lato della gestione del Coronavirus ha perso in partenza ogni possibilità di leadership – e per assicurarsi, ad esempio, che dall’area Euro continuino a comprare treasuries anche dopo aver bruciato in due mesi anni di surplus tedesco investito a Wall Street.
La FED garantisce di fatto i buoni del tesoro statunitensi, che non godono di ottima salute ma permettono ancora agli Stati Uniti di indebitarsi ed allo stesso tempo di comprare qualsiasi cosa abbia un valore “commerciale”, nel tentativo disperato che tale stimolo – una maggiore dose della stessa droga – inverta la tendenza “ribassista”. Ma gli ultimi anni hanno dimostrato che quella liquidità sconfinata non va quasi per nulla a rivitalizzare l’economia reale che, a parte la Cina già in ripresa, è oggi allo stato di “morte celebrale”.
La FED, istituzionalmente, deve però vedere “la luce in fondo al tunnel”. E allora vengono in mente le parole del trasversale “Partito del Pil” a stelle e a strisce, favorevoli alla rapida ripresa del lavoro tra due settimane – un paradosso che ricorda un atto di fede, ma che mira a dare ossigeno ai mercati – e sulla necessità di inviare l’esercito nelle strade.
E qui i nodi vengono al pettine: se l’economia nord-americana non riparte, al contrario di quella cinese, parte il conto alla rovescia per la più spettacolare inversione di scenario che la storia contemporanea abbia mai conosciuto.
Il coronavirus doveva essere la “Chernobyl Cinese”, ma sarà probabilmente il “Vietnam economico” per gli USA.
E l’establishment è disposto a far di tutto per impedirlo, compreso mandare al massacro i suoi cittadini. Stavolta il fronte non è in un Paese lontano, ma dentro casa.
Dopotutto Trump si definisce un presidente in tempo di guerra…
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