Nell’attuale situazione di generale incertezza sullo sviluppo della pandemia del Covid-19 e delle sue conseguenze, risulta difficile ragionare per ipotesi e si rischia di procedere per congetture che la realtà materiale può abbondantemente smentire da un momento all’altro.
Allo stesso tempo, tenendo conto di questo livello di inevitabile arbitrarietà di qualsiasi enunciato sugli scenari futuri, è necessario iniziare ad abbozzare un ragionamento che intersechi lo sviluppo della pandemia, lo stato di salute del Modo di Produzione Capitalistico (MPC), gli equilibri geo-politici che si stanno configurando, nonché le prospettive che potrebbero aprirsi per il movimento comunista.
Bisogna considerare che, con tutto il suo tragico portato, l’attuale emergenza sanitaria può divenire dialetticamente il più grande momento di politicizzazione di massa dopo il 1968 a livello pressoché continentale sul fronte occidentale.
Essendo entrato in crisi “un sistema”, si aprono delle possibilità prima difficilmente prefigurabili per i suoi ulteriori sviluppi e, stando con i piedi per terra, probabilmente molto al di sopra delle capacità soggettive attuali dei comunisti in Occidente, tra cui le nostre.
L’elemento soggettivo, nella sua funzione di indicare una direzione complessiva alla materia sociale in ebollizione, si riafferma essere uno dei fattori imprescindibili affinché una crisi sistemica prenda una direzione di rottura piuttosto che una involuzione reazionaria nei passaggi storici fondamentali come questo.
Le strade si biforcano ad ogni passaggio di fase: da un lato il consolidamento dei rapporti sociali precedenti sotto il giogo di un comando politico più ferreo in una situazione di ordine ricostituito, anche se con mutati equilibri geo-politici, dall’altra la possibilità di trasformare le fratture apertesi in una rottura più complessiva con il mondo che ci ha preceduto.
Per questo occorre porre da subito al centro dell’attenzione il “Che fare?” che riqualifichi l’azione politica non come “business as usual”.
Le contraddizioni principali che la fase politica ha evidenziato sono innanzitutto – sotto forma del conflitto capitale/lavoro – l’esigenza di profitto contro la tutela della salute ad un livello assolutamente inedito, potremmo definire di una “evidenza palmare” per larghe fasce del nostro blocco sociale che ha reagito al macello a cui il “partito del Pil” li vuole mandare.
Contemporaneamente, è entrata in corto-circuito l’ideologia neo-liberale del “privato è bello”, in particolare per ciò che concerne le esigenze sanitarie, rimettendo al centro la questione dello Stato Sociale come mai prima, ed in prospettiva – considerando gli effetti sulle classi subalterne della crisi la ridistribuzione della ricchezza – diventerà un terreno centrale dello scontro di classe a cominciare dalle politiche impositive: chi paga per questa emergenza?
Allo stesso modo il concetto di Stato come agente politico principale e collettivo in grado di determinare l’interesse generale è riemerso di fronte al fallimento clamoroso del “libero mercato” di fare fronte alla situazione dell’epidemia e della non-consistenza dell’“individuo borghese” come monade sociale, e questo in contesti socio-politici differenti: Cina, Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, e così via.
L’“Alba Euro-Mediterranea” come chance concreta di uscita dalla UE e di sganciamento dalla NATO, e “naturale” conseguenza dei rapporti virtuosi instaurati durante l’emergenza pandemica con una parte del mondo (Cina, Russia, Cuba) – e la mancanza di riscontro positivo da parte di USA e UE – diventa un passo fondamentale per il nostro sistema-Paese.
Era un orizzonte strategico impensabile fino a poco tempo fa.
Ora deve trovare una articolazione in un programma di transizione che parta dalla nostra condizione specifica attuale come Sistema-Paese, con la consapevolezza di dovere prevalentemente “contare sulle proprie forze”.
In questa situazione i modelli di socialismo nei periodi più difficili delle varie esperienze del movimento comunista mondiale possono darci indicazioni utili ed in parte guidarci.
Abbiamo un patrimonio da cui attingere per seppellire definitivamente l’ideologia neo-liberale.
Alla domanda: “quale futuro per l’Italia?” dovremmo sapere articolare una risposta complessiva che ponga la prospettiva del socialismo che diviene non solo necessaria, ma possibile.
Innanzitutto si ha l’impressione di essere di fronte ad un passaggio di fase storico della qualità avuta nel secolo precedente solo in tre momenti distinti per il cambiamento degli assetti mondiali: la prima guerra mondiale, la seconda guerra mondiale (preceduta dalla crisi del 1929 che ha elementi di forte somiglianza con l’attuale) e la fine del mondo bipolare.
La fase apertasi oggi potrebbe portare al declino definitivo del polo imperialista statunitense e al fallimento della costituzione compiuta di quello della UE, e un ribilanciamento dell’economia-mondo verso Oriente, per certi versi facendo tornare le lancette dell’orologio anteriormente alla “prima rivoluzione industriale” quando Cina ed India erano l’officina del mondo.
La pandemia è risultata essere un moltiplicatore dei fattori di criticità di “un mondo”, così come lo sviluppatore in positivo di una serie di capacità “di un altro”. Due mondi che, pur intimamente inter-connessi ed inter-dipendenti, hanno reagito in modi completamente differenti ad una “rottura possibile” della normalità.
E per dirlo con una battuta, gli Stati Uniti hanno più bisogno della Cina ora che il contrario, e la seconda ha un organico progetto di come ri-articolare una “governance globale” che l’abbia al centro come perno di un nuova cornice di rapporti internazionali complessivi, di cui vediamo chiaramente i primi sviluppi.
Questo vuol dire approfondire le “linee di faglia” specie in quei contesti in cui – come l’Italia – la collocazione atlantica e la partecipazione all’edificio politico della UE è messo in discussione dai fatti.
È chiaro che la sincronia della triplice crisi abbattutasi sugli Stati Uniti, economica, sociale e l’approfondirsi di quella dell’egemonia politica (e anche di governance interna), mina alla base la possibilità di una proiezione di interessi del gendarme USA probabilmente nel suo stesso cortile di casa, ridando probabilmente slancio a quella lotta di classe continentale in America Latina che potrebbe porre fine all’ingerenza nord-americana. Non ci sono segni di un qualche effetto significativo del combinato disposto dell’azione amministrazione/FED sulla crisi economica, accelerata dalla guerra del petrolio iniziata dall’Arabia Saudita.
La guerra del petrolio trova nel settore degli idrocarburi da scisto americano – nonché nella sua finanza derivata – il rivale più debole nella competizione a tre: AS, Russia e USA. Attualmente il valore del greggio al barile è meno della metà del costo di produzione del petrolio da scisto statunitense, e probabilmente è destinato a scendere, ed è sempre più impossibilitato a ricorrere alla droga della finanza per sostenersi.
È evaporata una delle cornici di governo (l’OPEC PLUS) di una merce che ha determinato lo sviluppo del modo di produzione capitalistico almeno dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, ed allo stesso tempo sta venendo meno quella potenza finanziaria sottostante che ha permesso agli USA di diventare il primo produttore mondiale di greggio.
I dati sulle possibilità di morti per contagio – con un “worst scenario” di 2 milioni e 200 mila decessi negli USA secondo uno studio britannico preso come riferimento dall’attuale amministrazione statunitense – se non verranno presi drastici provvedimenti – e sulla strutturale incapacità dell’apparato sanitario statunitense di reggere all’impatto, segnalano una crisi che nei suoi punti più alti (come New York per esempio o lo California, da sola “quinta” economia al mondo) non si risolverà in fretta e tuttora molto lontana da raggiungere il suo picco.
L’incapacità sia del “deep state” di cui Fauci – maggior consigliere scientifico dello staff per l’emergenza statunitense – è esponente, che dell’amministrazione Trump – come di tutti gli eletti locali – proprio a meno di 8 mesi dalle presidenziali, è stata evidente, pari solo forse a quella dimostrata da Boris Johnson in Gran Bretagna in un primo momento, a cominciare dal numero ridicolo dei test effettuati e dalle misure praticamente nulle fino ad una decina di giorni fa, trascurando la criminale politica di negazione della gravità della situazione che ha fatto pesantemente sottostimare il pericolo alla maggioranza degli statunitensi.
Questo ci porta a pensare che gli Stati Uniti dovranno “ripiegare su sé stessi” per mesi, perderanno il ruolo di catalizzatore finanziario degli investimenti esteri, dovranno retrocedere dal proprio avventurismo militare considerando che una parte dell’esercito con ogni probabilità dovrà essere impiegato “a casa” per gestire la crisi attuale (anche in previsioni di “turbolenze” come hanno scritto nero su bianco), perderà il suo ruolo di “modello” agli occhi della popolazione occidentale molto più di quanto accaduto fino ad ora.
Una incredibile inversione delle parti considerando le speranze dell’establishment statunitense che la gestione del Coronavirus da parte della Repubblica Popolare si trasformasse in una “Chernobyl cinese” e che sta invece rendendo gli States un territorio più inquietante di quello prodotto dall’immaginario distopico di molti suoi autori.
Per usare una metafora bellica, gli Stati Uniti dovranno dare la propria priorità più al “fronte interno” che alla proiezione della propria politica estera, pena l’implosione.
La NATO che Macron diceva essere in stato di “morte cerebrale” fino ad ora non è stata all’altezza di tutelare i suoi membri dall’unica vera minaccia per la salute per gli Stati che ne fanno parte da quando questa è stata costituita, ed è difficilmente ipotizzabile ora che questa assuma quella delega subordinata alle priorità statunitensi che l’ex gendarme mondiale voleva conferire ai suoi membri anche in termini di suddivisione dei costi.
Non è da escludere che in uno Stato castrense, come gli Stati Uniti, non sia proprio il Pentagono a prendere più direttamente in mano la situazione anche a livello di rappresentazione pubblica del potere in una logica di militarizzazione della politica per comprovate necessità nazionali di cui in questi giorni vediamo gli sviluppi.
L’UE non è messa meglio degli USA, visto il ritardo con cui ha affrontato la pandemia, il numero limitato dei test effettuati, ed i sistemi di welfare sanitario che anche nei due Paesi guida – in differente misura – risultano abbondantemente insufficienti, come nel caso tedesco, o sull’orlo del collasso come quello francese, per non parlare di Italia e Spagna.
Tutte le piazze europee hanno sofferto, la BCE ha di fatto abdicato ad un qualsiasi ruolo attivo per lungo tempo, i confini tra iPaesi sono “chiusi”, e gli Stati stanno pensando prioritariamente a sé da ogni punto di vista. Anche se sarebbe ingenuo pensare che chi tiene in mano le leve politiche a Bruxelles non le utilizzi per accentuare un rapporto di ancora maggiore subordinazione nei confronti dei Paesi periferici dell’area Euro, facendogli pagare in prospettiva il salvataggio economico che stanno attuando nei confronti delle proprie economie Germania e Francia, con un uso pressoché illimitato delle risorse che sono disposte a mettere in campo ma che “qualcuno” dovrà pagare.
Le filiere produttive e le catene logistiche potrebbero uscire mutate dall’attuale fase, riconfigurandosi a seconda delle esigenze declinate su una divisione del lavoro a livello continentale ancora più rigida e tesa a privilegiare il “centro” rispetto alla “periferia”, con una dinamica ancora più esclusiva ed escludente dei PIGS.
Questa dinamica di riconfigurazione complessiva avrà dei riflessi probabilmente anche sulla forma-stato conferendo un aspetto ancora più marcato all’indole autoritaria della futura governance europea a tutti i livelli, dalla centralizzazione del processo decisionale, all’indole disciplinare che all’oggi si sta chiaramente mostrando con l’esercito nelle strade ed un maggiore peso pubblico delle gerarchie militari in differenti Stati a cominciare dalla Germania.
È chiaro che l’UE si fa con le sue crisi, e che Germania e Francia diventeranno ancora più “feroci” nei confronti dei loro partner, così la UE farà lo stesso nelle zone di proiezione dei suoi interessi in Africa, dove il soft-power cinese si sta ampliando e consolidando grazie le sue posizioni e grazie alla sua leadership nella sconfitta della pandemia, ed in Medio-Oriente, dove probabilmente il ruolo russo verrà rafforzato.
Lo scontro che si apre, non è certo secondario, anche e soprattutto per la nostra profondità strategica.
Hic Rhoedus, hic Salta per così dire, all’oggi più che uno slancio vincente sembra una caduta rovinosa quella della UE.
Sta a noi bastonare il cane che affoga.
La Cina ed altri Stati Asiatici, non sapendo ancora quale sarà l’incidenza e le conseguenze del virus in una grande fetta del Globo, dall’America Latina all’Africa al Medio Oriente, hanno marcato fino ad ora un notevole successo ed in specie la Repubblica Popolare sembra avviarsi – dopo due mesi – ad un recupero dopo il blocco della propria economia, probabilmente riconfigurandosi verso una politica espansione dei consumi interni ed una rettifica parziale di quelle storture emerse nella prima gestione dell’epidemia, sintomo delle debolezze sviluppatesi nella Repubblica Popolare dalle contro-riforme di Deng in poi.
Va compiuto un grosso lavoro d’analisi sulla Cina per capirne in profondità la natura sociale e la direzione politica, per comprenderne le ragioni della reattività ed il peso che giocherà ancora maggiormente sulla bilancia di potenza mondiale, soprattutto se gli Stati che hanno meglio affrontato la crisi pandemica potranno fare “massa critica” infittendo le relazioni tra loro e riconfigurando una tipologia di rapporto che gli permetta di aspirare ad essere il nuovo centro propulsivo dell’economia mondo, ridefinendo la gerarchie mondiali attorno al “risorgimento asiatico”.
Se poi la battaglia per il vaccino venisse “vinta” dalla Russia o dalla Cina, questo costituirebbe un fattore di ridefinizione della gerarchia dei rapporti internazionali, non molto dissimile da ciò che fu il possesso dell’atomica od i successi nell’industria aereo-spaziale, considerando che la possibilità di una produzione su larga scala di un proprio vaccino diverrebbe un differenziale strategico determinante.
Tutti i segnali, ci mostrano un inasprimento dello scontro tra attori geo-politici che lottano per la propria sopravvivenza senza voler rinunciare alla rendita pregressa nei confronti dei propri competitor, così come un intensificazione dello scontro tra le classi. Il sistema che ci ha condotto a questo punto ha la ferocia di una belva ferita in cui l’opzione bellica, forse non è proprio in divenire estrema ratio, a cominciare dei propri cittadini.
Si è prodotta e si sta producendo una rottura in cui potrebbe vacillare la situazione di stallo degli imperialismi fino ad ora osservata, ed una impossibilità oggettiva di tornare allo status quo ante nei rapporti tra gli attori geo-politici globali, in cui l’azione dei comunisti deve essere all’altezza della fase soprattutto considerando che due avversari storici come USA e UE per ogni progetto di emancipazione politica, stanno uscendo con le ossa rotte dallo stress pandemico.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento