L’editoriale della prestigiosa rivista statunitense di relazioni internazionali “Foreign Affairs” ha il dono della chiarezza. Il suo sottotitolo esplicita dove potrebbe pendere la bilancia dei rapporti internazionali: “La Cina sta manovrando per la leadership internazionale, mentre gli Stati Uniti vacillano.”
“Vacillano” è il termine esatto per descrivere la posizione globale degli Stati Uniti.
La gestione della pandemia è vista come uno spartiacque per la leadership mondiale statunitense, che potrebbe determinare un “momento Suez” per la super-potenza, come lo fu il 1956 per la Gran Bretagna, decretandone l’inesorabile declino nel consesso internazionale.
Tre sono i fattori che, secondo l’autore, hanno caratterizzato sempre la leadership statunitense: la governance interna, la fornitura di beni pubblici globali e la “risposta globale alle crisi”.
Tutti questi elementi mancano ora agli Stati Uniti per ciò che concerne la gestione della pandemia, a differenza del suo competitor cinese.
Tre strike, se vogliamo usare una metafora sportiva mutuata dal baseball, di quelli che eliminano il battitore e lo rimandano in panchina.
Il sogno neanche troppo segretamente coltivato dalle élite statunitensi e europee – che la gestione del Covid-19 potesse tramutarsi in una “Chernobyl cinese” per la dirigenza del PCC – si è trasformato in un incubo per loro, proprio quando la situazione nella Repubblica Popolare torna alla normalità. Sono emerse gravissime carenze strutturali da parte dell’establishment nord-americano, come di quello del Vecchio Continente.
Gli Stati Uniti si scoprono dipendenti dalla Cina per tutta una serie di prodotti necessari per l’emergenza, con le proprie riserve strategiche assolutamente al di sotto dei bisogni minimi per gestire la pandemia, e assolutamente incapaci di assumere una qualche iniziativa internazionale fin dall’inizio della crisi, a cominciare dai propri alleati. Questa la prima differenza con il “soft power” cinese, che sta acquisendo prestigio e realizzando l’ambizione ad una governance globale razionale, prefigurata da Xi.
Aspetta e osserva. Non sempre è una buona idea
Non pensiamo sia un caso che venga proprio citata l’Italia, considerando il ruolo strategico che svolge per gli States nel bacino mediterraneo, tra i paesi che hanno ricevuto aiuti e collaborazione dalla Cina, insieme a Iran e Serbia, in totale assenza di supporto da parte degli USA.
Wait and see sembra essere stato l’atteggiamento statunitense, anche quando l’incendio incominciava a minacciarne la prateria, ora in fiamme. Il corpo del nemico non è però transitato nel letto del fiume, come recitava il proverbio, ed ora lo spettatore speranzoso è scivolato in acqua senza saper nemmeno nuotare.
Per gli Autori ci sono ancora dei margini di azione per gli Stati Uniti, e quindi più che un monito il loro sembra una ordine: “gestire il problema a casa propria, fornire beni pubblici globali e coordinare una risposta globale”.
In realtà questi consigli risultano più wishfull thinking che indicazioni precise, tenendo presente che l’unica cosa in cui gli Stati Uniti potrebbero “eccellere” è nella creazione di un vaccino, se naturalmente tale tentativo fosse fortemente finanziato dallo Stato Federale.
Per far comprendere l’importanza che ha la produzione del vaccino come differenziale strategico in questa situazione, gli Autori citano il “progetto Manhattan”, ossia il piano che portò gli Stati Uniti ad essere il primo Stato al mondo a produrre la bomba atomica.
Alla fine, i think tank americani hanno capito che la gestione della pandemia è una guerra sotto altra forma, ma il profilo è quello di una sfida strategica imprescindibile.
Il contributo si conclude con un sorprendente bagno di realismo. Qual è l’unica strada per gli Stati Uniti per riaffermare un loro ruolo internazionale?
Semplice: la “cooperazione efficace con la Cina”.
Una collaborazione che parte dalla gestione della pandemia a vari livelli, a cominciare dalla ricerca del vaccino, la condivisione di informazioni e la cooperazione nella mobilitazione industriale, come terreno di partenza per poi affrontare altre sfide globali insieme; per esempio il “cambiamento climatico”.
Intanto, Trump e non solo continuano a parlare di “virus cinese”, dando l’impressione che ci sia una certa schizofrenia tra i decision maker statunitensi. Non è proprio un gran biglietto da visita nei confronti di una potenza con cui la collaborazione è l’unico viatico per provare a rigiocare le proprie carte.
A ben vedere questo articolo sembra avere una sotto-traccia, come ogni messaggio diplomatico di un certo livello, e forse qualcuno sarebbe ben lieto di “disfarsi” di Orange Man e di chi lo circonda, per risollevare il profilo strategico della nazione, se lui ed il suo entourage dovessero continuare ad essere il vero ostacolo su questa strada.
Al di là delle congetture, un fatto è certo: l’establishment statunitense è tutt’altro che compatto.
Dalle colonne di questo giornale stiamo mostrando come l’imperialismo statunitense stia camminando su un piano inclinato, che ora lo sta facendo rapidamente scivolare con l’acuirsi della sua triplice crisi: egemonica, economica e sociale. Che questa tesi venga confermata e documentata da una delle più prestigiose rivista di politica estera statunitense non può che farci bonariamente sorridere.
La domanda nasce spontanea: la Cina salverà gli Stati Uniti, o bastonerà il cane che affoga?
Buona lettura
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Con centinaia di milioni di persone che ora si isolano in tutto il mondo, la nuova pandemia di coronavirus è diventata un evento veramente globale. E mentre le sue implicazioni geopolitiche dovrebbero essere considerate secondarie rispetto alle questioni di salute e sicurezza, tali implicazioni potrebbero, a lungo termine, rivelarsi altrettanto significative, soprattutto quando si tratta della posizione globale degli Stati Uniti.
Gli “ordini globali” hanno la tendenza a cambiare gradualmente all’inizio e poi tutti insieme. Nel 1956, un intervento fallito a Suez mise a nudo la decadenza del potere britannico e ha segnato la fine del dominio del Regno Unito come potenza globale. Oggi, i politici statunitensi dovrebbero riconoscere che se gli Stati Uniti non si alzeranno per affrontare il momento, la pandemia del coronavirus potrebbe segnare un altro “momento Suez”.
È ormai chiaro a tutti, tranne che ai partisans più ottusi, che Washington ha fatto un pasticcio nella sua risposta iniziale. I passi falsi delle istituzioni chiave, dalla Casa Bianca e dal Dipartimento della Sicurezza Nazionale ai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), hanno minato la fiducia nella capacità e nella competenza del governo degli Stati Uniti. Le dichiarazioni pubbliche del Presidente Donald Trump, siano esse discorsi dell’Ufficio Ovale o tweet di prima mattina, sono servite in gran parte a seminare confusione e a diffondere incertezza.
Sia il settore pubblico sia quello privato si sono dimostrati poco preparati a produrre e distribuire gli strumenti necessari per la verifica e la risposta alla pandemia. E a livello internazionale, la pandemia ha amplificato l’istinto di Trump ad andare da solo ed ha messo in luce quanto Washington sia impreparata a guidare una risposta globale.
Lo status degli Stati Uniti come leader globale negli ultimi sette decenni è stato costruito non solo sulla ricchezza e sul potere, ma anche, ed è altrettanto importante, sulla legittimità che deriva dalla governance interna degli Stati Uniti, dalla fornitura di beni pubblici globali e dalla capacità e volontà di raccogliere e coordinare una risposta globale alle crisi. La pandemia di coronavirus sta mettendo alla prova tutti e tre gli elementi della leadership statunitense. Finora, Washington sta fallendo il test.
Mentre Washington vacilla, Pechino si sta muovendo rapidamente e abilmente per approfittare dell’apertura creata dagli errori degli Stati Uniti, riempiendo il vuoto per posizionarsi come leader globale nella risposta alla pandemia. Sta lavorando per mettere a punto il proprio sistema, fornire assistenza materiale ad altri Paesi e persino organizzare altri governi.
L’assoluta temerarietà della mossa cinese è difficile da sovrastimare. Dopo tutto, sono stati proprio i passi falsi di Pechino – soprattutto i suoi sforzi iniziali per coprire la gravità e la diffusione dell’epidemia – a contribuire a creare la crisi che ora affligge gran parte del mondo. Eppure Pechino capisce che se viene vista come leader, e Washington è vista come incapace o non disposta a farlo, questa percezione potrebbe modificare radicalmente la posizione degli Stati Uniti nella politica globale e nella competizione per la leadership nel ventunesimo secolo.
Sono stati commessi degli errori
All’indomani dello scoppio del nuovo coronavirus, che causa la malattia ora denominata COVID-19, i passi falsi dei leader cinesi gettarono un’ombra sulla posizione globale del loro paese. Il virus fu individuato per la prima volta nel novembre 2019 nella città di Wuhan, ma i funzionari non lo rivelarono per mesi e punirono persino i medici che per primi lo avevano segnalato, sprecando tempo prezioso e ritardando di almeno cinque settimane misure che avrebbero educato il pubblico, bloccato i viaggi e consentito la diffusione dei test.
Anche quando è emersa la portata della crisi, Pechino ha controllato attentamente le informazioni, evitando l’assistenza del CDC, limitato i viaggi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Wuhan, probabilmente con infezioni e decessi sotto-contati, e ha modificato ripetutamente i criteri per la registrazione di nuovi casi di COVID-19, forse in un tentativo deliberato di manipolare il numero ufficiale di casi.
Con l’aggravarsi della crisi nei mesi di gennaio e febbraio, alcuni osservatori ipotizzarono che il coronavirus potesse addirittura minare la leadership del Partito comunista cinese. La “Chernobyl” cinese; il dottor Li Wenliang, il giovane informatore messo a tacere dal governo che in seguito perì per le complicazioni del COVID-19, fu paragonato a piazza Tienanmen a l’”uomo carro armato”.
Eppure, all’inizio di marzo, la Cina rivendicava la vittoria. Le quarantene di massa, la sospensione dei viaggi e la chiusura completa della maggior parte della vita quotidiana in tutto il paese sono state riconosciute adeguate ad arginare la marea; le statistiche ufficiali, così come sono, riportano che i nuovi casi giornalieri sono scesi a metà marzo a una sola cifra dalle centinaia dei primi di febbraio [a zero, da due giorni, NdR].
Con grande sorpresa per la maggior parte degli osservatori, il leader cinese Xi Jinping, che nelle prime settimane era stato insolitamente silenzioso, si è messo al centro della risposta. Questo mese ha visitato personalmente Wuhan.
Anche se la vita in Cina non è ancora tornata alla normalità (nonostante le continue domande sull’accuratezza delle statistiche cinesi), Pechino sta lavorando per trasformare questi primi segnali di successo in una narrazione più ampia da trasmettere al resto del mondo, che faccia della Cina il protagonista essenziale di una prossima ripresa globale e al tempo stesso elimini la sua precedente cattiva gestione della crisi.
Una parte critica di questa narrazione è il presunto successo di Pechino nella lotta contro il virus. Un flusso costante di articoli di propaganda, tweet e messaggistica pubblica, in una grande varietà di lingue, ha permesso alla Cina di raggiungere i suoi obiettivi e di mettere in evidenza l’efficacia del suo modello di governance interna.
«La forza, l’efficienza e la velocità della Cina in questa lotta è stata ampiamente acclamata», ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri Zhao Lijian. La Cina, ha aggiunto, ha fissato «un nuovo standard per gli sforzi globali contro l’epidemia». Le autorità centrali hanno istituito uno stretto controllo informativo e una rigorosa disciplina presso gli organi statali per eliminare i racconti contraddittori.
Questi messaggi sono coadiuvati dal contrasto implicito con gli sforzi “occidentali” per combattere il virus, in particolare negli Stati Uniti – Washington non è riuscita a produrre un numero adeguato di kit di test, il che significa che gli Stati Uniti hanno testato relativamente poche persone, o che l’amministrazione Trump sta smantellando l’infrastruttura di risposta alla pandemia del governo degli Stati Uniti.
Pechino ha colto l’opportunità narrativa fornita dal disordine americano, i suoi media statali e i diplomatici hanno regolarmente ricordato a un pubblico globale la superiorità degli sforzi cinesi e criticato «l’irresponsabilità e l’incompetenza» della «cosiddetta élite politica di Washington», come ha scritto in un editoriale l’agenzia di stampa statale Xinhua.
I funzionari cinesi e i media statali hanno persino insistito sul fatto che il coronavirus non è di fatto emerso dalla Cina – nonostante le prove schiaccianti al contrario – per ridurre la colpa della Cina per la pandemia globale. Questo sforzo ha elementi di una vera e propria campagna di disinformazione in stile russo, con il portavoce del Ministero degli Esteri cinese e oltre una dozzina di diplomatici che condividono articoli di scarsa provenienza che accusano l’esercito statunitense di aver diffuso il coronavirus a Wuhan. Queste azioni, unite all’espulsione di massa senza precedenti dei giornalisti cinesi da tre importanti giornali americani, danneggiano le pretese di leadership della Cina.
La Cina fa, il mondo prende
Xi capisce che fornire beni globali può bruciare le credenziali di leadership di una potenza in ascesa. Ha passato gli ultimi anni a spingere l’apparato di politica estera cinese a pensare più intensamente a guidare le riforme per la “governance globale”, e il coronavirus offre l’opportunità di mettere in pratica questa teoria. Considerate le sempre più ben pubblicizzate manifestazioni cinesi di assistenza materiale, tra cui maschere, respiratori, ventilatori e medicinali. All’inizio della crisi, la Cina ha acquistato e prodotto (e ha ricevuto come aiuto) grandi quantità di questi beni. Ora è in grado di distribuirli ad altri.
Quando nessuno Stato europeo ha risposto all’appello urgente dell’Italia per le attrezzature mediche e i dispositivi di protezione, la Cina si è pubblicamente impegnata a inviare 1.000 ventilatori, due milioni di maschere, 100.000 respiratori, 20.000 tute protettive e 50.000 kit di prova.
La Cina ha anche inviato squadre mediche e 250.000 maschere in Iran e ha inviato rifornimenti alla Serbia, il cui presidente ha liquidato la solidarietà europea come «una favola» e ha proclamato che «l’unico Paese che può aiutarci è la Cina».
Il co-fondatore di “Alibaba”, Jack Ma, ha promesso di inviare grandi quantità di kit di prova e maschere negli Stati Uniti, oltre a 20.000 kit di prova e 100.000 maschere in ciascuno dei 54 paesi africani.
Il vantaggio di Pechino nell’assistenza materiale è accresciuto dal semplice fatto che gran parte di ciò da cui dipende il mondo per combattere il coronavirus è prodotto in Cina. Era già il maggiore produttore di maschere chirurgiche; ora, attraverso la mobilitazione industriale in tempo di guerra, ha potenziato la produzione di maschere decuplicandola, e dandogli la capacità di fornirle al mondo.
La Cina produce anche circa la metà dei respiratori N95, fondamentali per la protezione degli operatori sanitari (ha costretto le fabbriche straniere in Cina a produrli e poi a venderli direttamente al governo), dotandola di un altro strumento di politica estera sotto forma di attrezzature mediche. Nel frattempo, gli antibiotici sono fondamentali per affrontare le infezioni secondarie emergenti da COVID-19, e la Cina produce la stragrande maggioranza dei principi attivi farmaceutici necessari per produrli.
Gli Stati Uniti, al contrario, non hanno l’offerta e la capacità di soddisfare molte delle loro richieste, per non parlare della possibilità di fornire aiuti in altre zone di crisi. Il quadro è cupo. Si ritiene che la Scorta Nazionale Strategica degli Stati Uniti, la riserva nazionale di forniture mediche essenziali, abbia solo l’uno per cento delle maschere e dei respiratori e forse il dieci per cento dei ventilatori necessari per affrontare la pandemia. Il resto dovrà essere compensato con le importazioni dalla Cina o con un rapido aumento della produzione interna.
Analogamente, la quota della Cina nel mercato statunitense degli antibiotici è superiore al 95% e la maggior parte degli ingredienti non può essere prodotta sul mercato interno. Anche se Washington ha offerto assistenza alla Cina e ad altri all’inizio della crisi, ora è meno in grado di farlo, poiché le sue esigenze crescono; Pechino, al contrario, offre aiuti proprio quando il bisogno globale è maggiore.
La risposta alla crisi, tuttavia, non riguarda solo i beni materiali. Durante la crisi dell’Ebola del 2014-15, gli Stati Uniti si riunirono e guidarono una coalizione di decine di paesi per contrastare la diffusione della malattia. L’amministrazione Trump ha finora evitato un simile sforzo di leadership per rispondere alla pandemia. Anche il coordinamento con gli alleati è mancato. Washington, ad esempio, sembra non aver dato alcun preavviso ai suoi alleati europei prima di istituire un divieto di viaggio dall’Europa.
La Cina, al contrario, ha intrapreso una robusta campagna diplomatica per convocare decine di paesi e centinaia di funzionari, generalmente in videoconferenza, per condividere informazioni sulla pandemia e le lezioni dell’esperienza della Cina stessa nella lotta contro la malattia. Come molta della diplomazia cinese, questi sforzi di convocazione sono in gran parte condotti a livello regionale o attraverso organismi regionali. Comprendono le convocazioni con gli Stati dell’Europa centrale e orientale attraverso il meccanismo “17+1”, con il segretariato dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, con dieci Stati delle isole del Pacifico e con altri raggruppamenti in Africa, Europa e Asia. E la Cina sta lavorando duramente per pubblicizzare tali iniziative.
Praticamente tutte le storie in prima pagina dei suoi organi di propaganda rivolti all’estero pubblicizzano gli sforzi della Cina per aiutare i diversi Paesi con beni e informazioni, sottolineando al contempo la superiorità dell’approccio di Pechino.
La principale risorsa della Cina nel suo perseguimento della leadership globale – di fronte al coronavirus e più in generale – è l’inadeguatezza percepita e il focus interno della politica statunitense. Il raggiungimento finale dell’obbiettivo della Cina, quindi, dipenderà tanto da ciò che accadrà a Washington, quanto da ciò che accadrà a Pechino. Nell’attuale crisi, Washington può ancora invertire la tendenza se si dimostra capace di fare ciò che ci si aspetta da un leader: gestire il problema a casa propria, fornire beni pubblici globali e coordinare una risposta globale.
Il primo di questi compiti – arrestare la diffusione della malattia e proteggere le popolazioni vulnerabili negli Stati Uniti – è più urgente ed è in gran parte una questione di governance interna piuttosto che di geopolitica. Ma il modo in cui Washington si muove avrà implicazioni geopolitiche, e non solo nella misura in cui ristabilisce o meno la fiducia nella risposta degli Stati Uniti. Ad esempio, se il governo federale sosterrà e sovvenzionerà immediatamente l’espansione della produzione interna di maschere, respiratori e ventilatori – una risposta adeguata all’urgenza bellica di questa pandemia – ciò salverà vite americane e aiuterà altri nel mondo riducendo la scarsità di forniture globali.
Mentre gli Stati Uniti non sono attualmente in grado di soddisfare le urgenti richieste materiali della pandemia, il loro perdurante vantaggio globale nelle scienze naturali e nelle biotecnologie può essere determinante per trovare una vera soluzione alla crisi: un vaccino. Il governo degli Stati Uniti può sostenere la ricerca fornendo incentivi ai laboratori e alle aziende statunitensi, per intraprendere un “Progetto Manhattan” per ideare, testare rapidamente in clinica e produrre in massa un vaccino.
Poiché questi sforzi sono costosi e richiedono investimenti iniziali spaventosamente elevati, un generoso finanziamento governativo e dei bonus per la produzione di vaccini di successo potrebbero fare la differenza. E vale la pena notare che, nonostante la cattiva gestione di Washington, i governi statali e locali, le organizzazioni no-profit e religiose, le università e le aziende, non aspettano che il governo federale regoli le loro azioni prima di agire. Le aziende e i ricercatori finanziati dagli Stati Uniti stanno già facendo progressi verso un vaccino, anche se, anche nel migliore dei casi, ci vorrà un po’ di tempo prima che sia pronto per un uso diffuso.
Eppure, anche se si concentra sugli sforzi in patria, Washington non può semplicemente ignorare la necessità di una risposta globale coordinata. Solo una forte leadership può risolvere i problemi di coordinamento globale legati alle restrizioni di viaggio, alla condivisione delle informazioni e al flusso di beni critici. Gli Stati Uniti hanno fornito con successo tale leadership per decenni, e devono farlo di nuovo.
Questa leadership richiederà anche una cooperazione efficace con la Cina, piuttosto che essere consumata da una guerra di narrazioni su chi ha risposto meglio. Poco ci si guadagna a sottolineare ripetutamente le origini del coronavirus – che sono già ampiamente conosciute nonostante la propaganda cinese – o a impegnarsi in meschini scambi retorici con Pechino. Mentre i funzionari cinesi accusano le forze armate statunitensi di diffondere il virus e colpiscono gli sforzi degli Stati Uniti, Washington dovrebbe rispondere quando necessario, ma in generale resistere alla tentazione di mettere la Cina al centro della messaggistica del coronavirus.
La maggior parte dei paesi che affrontano la sfida preferirebbe vedere un messaggio pubblico che sottolinea la serietà di una sfida globale condivisa e i possibili percorsi da seguire (inclusi esempi di successo di risposta al coronavirus in società democratiche come Taiwan e la Corea del Sud).
E c’è molto che Washington e Pechino potrebbero fare insieme per il beneficio del mondo: coordinare la ricerca sui vaccini e le sperimentazioni cliniche e gli stimoli fiscali; condividere le informazioni; cooperare nella mobilitazione industriale (ad esempio, sulle macchine per la produzione di componenti critici dei respiratori o di parti di ventilatori); e offrire assistenza congiunta ad altri.
In definitiva, il coronavirus potrebbe anche servire da campanello d’allarme, stimolando il progresso su altre sfide globali che richiedono la cooperazione tra Stati Uniti e Cina, come il cambiamento climatico. Un tale passo non dovrebbe essere visto – e non sarebbe visto dal resto del mondo – come una concessione al potere cinese. Piuttosto, andrebbe in qualche modo a ristabilire la fiducia nel futuro della leadership statunitense. Nell’attuale crisi, come nella geopolitica oggi più in generale, gli Stati Uniti possono fare bene facendo del bene.
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